Il sogno di una vita normale. Reportage dalla Siria
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“Perché l’hai toccato? Gli oggetti raccontano le loro storie e trasmettono vibrazioni”. La persona che mi ha detto questa frase ha ragione, ma avevo bisogno di farlo. Toccare con mano il dolore, l’urlo collettivo soffocato e il bisogno di giustizia del popolo delle mie origini. Quel cappio caduto a terra in una delle stanze delle torture a Sednaya ha ucciso chissà quante persone. È una corda lurida, molto pesante, identica alle altre ancora appese. Le esecuzioni si compivano tre volte a settimana. Mi domando chi sia stato l’ultimo, qual era la sua storia, se anche lei o lui in fondo preferiva essere ucciso rispetto all’inferno dell’esistenza in quel luogo disumano.
Tutti i sopravvissuti che ho incontrato negli ultimi tredici anni mi hanno detto di aver pregato ogni giorno perché tutto finisse. “Ya mahla al mot jamb al azab”, “Come è bella la morte rispetto alla tortura”. Aver toccato quell’oggetto mi ha squarciato dentro. Non mi sono pentita però di averlo fatto. È come se avessi voluto liberarmi di quel senso di colpa che hanno i sopravvissuti, in questo caso i siriani che nascono e vivono in luoghi del mondo dove i diritti umani hanno un valore. So già che Sednaya e le altre prigioni, i rami di sicurezza e le fosse comuni che ho visitato in questi giorni mi accompagneranno per sempre, come l’odore della morte, ma è il prezzo da pagare quando il tuo sangue è siriano. In questi giorni qui in Siria il sangue l’ho visto, l’ho sentito invocare da parenti e amici di persone uccise dalla guerra o sotto tortura nelle prigioni. “Il sangue non è acqua”, che può essere un appello alla giustizia, ma anche una promessa di vendetta.
Prima dell’ingresso ad Aleppo, la città delle mie origini, faccio un breve video davanti a un’insegna stradale. Intorno a me, arrivando da sud, vedo le macerie che anni di bombardamenti governativi e russi hanno provocato. La Siria è cosparsa di macerie, ma poco distante da quartieri, villaggi e città rasi al suolo ci sono altri quartieri, villaggi e città che sembrano non essere mai stati toccati dalla guerra. Dinamiche strane, in un paese pieno di contrasti. Immagino che l’ingresso in quella città, che ho sognato per tanti anni, fino a disperare, segnerà uno spartiacque nella mia vita. Sento qualcosa che si muove dentro, come un richiamo atavico. Il sole sta tramontando, ma c’è un po’ di nebbia ed è un tramonto grigio. È il colore che ho visto di più, il colore della morte delle persone e dei luoghi.
In valigia ho una copia del mio libro di poesie Non c’è il mare ad Aleppo. Ne avevo un’altra, l’ho regalata a un amico di Homs, fratello di un giovane ucciso dai bombardamenti di Assad a cui avevo dedicato alcuni versi. Non so a chi darò questa. È vero, ad Aleppo non c’è il mare. Il mare della mia Ancona mi manca qui. Non riesco ancora a dire “la mia Aleppo” perché è come trovarmi davanti a una madre biologica che incontro per la prima volta dopo dodici anni, ma che posso finalmente conoscere solo all’età di quarantotto anni.
La prima volta che sono entrata in Siria, dodici anni fa, l’ho fatto da clandestina, insieme ad altri colleghi giornalisti. Aleppo all’epoca era divisa in diverse aree di controllo e piovevano bombe di ogni tipo. Gli spostamenti erano molto limitati. Si sparava, di giorno e di notte, cecchini appostati sui tetti e fazioni che si scontravano. Bisognava cercare sempre qualche muro per ripararsi ed evitare le strade grandi e scoperte, pur sapendo che da un barile bomba non ci si salva.
Di quella Aleppo ricordo il gelsomino e la cittadella vista da poche centinaia di metri di distanza. Ricordo il suq antico, il mercato coperto, che era già chiuso e danneggiato e che poi è stato dato alle fiamme e distrutto. Ora in parte è stato riparato e sono in corso anche i lavori per il minareto e la moschea degli Omayyadi, devastati dai bombardamenti di Assad.
Questa volta Assad l’ho visto solo nelle foto buttate a terra che la gente calpesta volutamente. Sono sparite le sue gigantografie, statue e foto e quelle di tutta la sua dinastia. “Surya al Assad”, la “Siria di Assad” non esiste più. Dopo il regime e l’ordine imposto per cinquantaquattro anni, il presente della Siria ora è scritto tra gioia, speranza, paura e incertezza. I sentimenti tra le persone che incontro sono contrastanti, cambiano anche in base all’esperienza vissuta, soprattutto negli ultimi quattordici anni di guerra.
Aleppo offre un quadro variopinto. Le prime voci che ascolto sono di gente molto stanca, inquieta e spaventata. Nessuno capiva cosa stava accadendo nelle prime ore e nei primi giorni della liberazione, chi stava avanzando, se le notizie circolanti fossero vere e tutti si chiedevano cosa sarebbe stato di loro. Poi la notizia della caduta di Assad è diventata ufficiale e dalle altre città della Siria hanno cominciato a tornare persone e famiglie che si erano rifugiate in altre località. Sono partita anche io. In TV le immagini delle piazze festanti e delle statue di Assad abbattute raccontavano la fine di quello che per la Siria è stato un incubo che nessuno credeva sarebbe mai finito.
È accaduto tutto in modo veloce e inaspettato, l’incredulità era forte. Assad è caduto davvero. La Siria è libera. Sospiri di sollievo, lacrime di gioia, ma a che prezzo. “Quando sono ricominciate le violenze ad Aleppo, più di un mese fa, siamo scappati dalla nostra casa, in una zona molto esposta e siamo andati da mio fratello, che vive in un altro quartiere. Abbiamo visto corpi a terra, sangue. Dopo tre giorni in cui non abbiamo sentito più nulla siamo tornati e i corpi erano ancora lì, la putrefazione era iniziata. L’ennesimo orrore per noi e i nostri figli”, racconta Jihan, direttrice di una scuola primaria. Il viso truccato accarezzato da un hijiab color crema, la postura di chi è abituata a controllare sempre tutto, i segni di una una tensione che si protrae da troppo tempo.
“Siamo molto tesi, non riusciamo a rilassarci, non ci fidiamo di nessuno. Vorrei mandare avanti le nostre vite come se fossero un film, per capire cosa succederà dopo, se saremo davvero liberi o inizierà un regime diverso, se vivremo sempre come se fossimo sul filo di un equilibrista o se potremo prima o poi condurre una vita normale”, aggiunge.
Per capire cosa significa davvero quella parola, normale, alterno nelle diverse tappe del mio viaggio gli alberghi alle case di persone che mi ospitano, tra Daraa, Sweida, Daraya, Damasco, Homs, Hama, Idlib e Aleppo. Nelle strutture ricettive la corrente non manca mai, come non manca l’acqua, e c’è riscaldamento. Nelle case la corrente arriva una o due ore al giorno. Le famiglie che se lo possono permettere si sono organizzate con pannelli solari e generatori. Ad Aleppo anche l’acqua è un lusso e nelle case arriva una volta a settimana. La gente si è organizzata con cisterne, secchi e bottiglioni.
L’acqua è oggetto di un braccio di ferro tra le autorità di Kobane e le nuove autorità siriane. In quest’area chi controlla l’impianto di trattamento delle acque di Al Khafsa, che prende l’acqua dall’Eufrate, ha il vero potere. Al Khafsa è stato più volte preso di mira in passato anche dai terroristi del Daesh, e la Turchia anche in questo gioca la sua partita. Oggi le Syrian Democratic Forces, il gruppo armato a maggioranza curda che controlla il nord est della Siria, e le milizie del nuovo governo siriano non hanno ancora raggiunto un accordo, e gli scontri nella zona continuano, creando infiniti disagi per la popolazione civile.
“Prima della guerra ci si svegliava la mattina e si pensava alla famiglia, al lavoro, a fare progetti. Ci mancava la libertà, come è mancata ai nostri padri, ma ci siamo abituati a vivere così. Anche ai nostri figli abbiamo insegnato a non parlare mai di politica, che i muri hanno le orecchie”, racconta Amira, cinquant’anni, medico oculista, gli occhi verde acqua. “Da quando è iniziata la guerra il primo pensiero la mattina è provvedere all’acqua, alla corrente, con tutto quello che ciò comporta, potersi lavare, fare il bucato, usare la luce, i computer, gli elettrodomestici. Come fai a pensare alla democrazia e al futuro se ti mancano gli elementi di base per vivere, se in ogni momento hai paura di essere fermato per un nulla e di sparire forzatamente? Hanno creato armi di distrazione di massa, spingendoci a preoccuparci di come sopravvivere, senza poter progettare più nulla”.
L’esercizio dell’empatia è più che mai utile per porsi la stessa domanda. Potrò farmi la doccia, caricare il telefono, usare internet? Qui ad Aleppo la parola speranza viene pronunciata timidamente, non come nelle città del sud, ad eccezione di Damasco, dove viene gridata con forza. “Quando nasciamo viviamo un atto di sofferenza, quello del parto. Poi veniamo alla vita. Adesso la Siria sta attraversando quella stessa sofferenza, per arrivare a rinascere, libera e unita”. Mi parla in italiano monsignor Hanna Jallouf, francescano siriano della Custodia della Terra Santa, vicario apostolico per i cattolici di rito latino. Nota subito che l’arabo non è la mia lingua dominante.
Con lui l’italo-siriana si sente a proprio agio. Dopo l’intervista, in cui discutiamo del presente e del futuro della Siria, parliamo di noi, dei nostri cammini di vita. Il parroco esorta me e i siriani della diaspora a tornare “perché la Siria ha bisogno di tutti i suoi figli”. Tornare. Nella mia mente ritorno vuol dire Italia, vuol dire Ancona. Qui è stato un venire, me ne rendo conto proprio nei luoghi delle mie radici. Avevo bisogno di respirare questi luoghi, di guardarmi intorno, di cercare un senso di appartenenza. Quando arrivo alla cittadella non trattengo l’emozione. Il pensiero va ai miei genitori che, loro sì, vengono da qui, cresciuti vedendo questa meraviglia di cui poi sono stati privati per più di cinquant’anni. Ci sono persone che si fotografano con la bandiera dell’indipendenza, altre che passeggiano immortalando le macerie che sono proprio di fronte a uno dei monumenti simbolo di Aleppo.
La città ha visto il traffico crescere sensibilmente nelle ultime settimane. I siriani hanno ripreso a viaggiare da una città all’altra. Alcuni mostrano le bellezze rimaste nel paese ai propri figli, cresciuti lontano. Il fermento di persone e mezzi contrasta con la paralisi di alcune istituzioni. Il sistema della giustizia, ad esempio, è paralizzato. Avvocati e giudici sono sul piede di guerra.
“Sono passate diverse settimane dalla caduta del regime e i tribunali sono ancora chiusi. La Giustizia non si può fermare, ci sono processi e trattative che devono concludersi. Adesso siamo in balia delle ishaat, i rumors. Un giorno ci dicono che verranno cambiate le leggi prima di avviare la ripresa delle attività forensi, un giorno ci dicono che i giudici donna verranno rimossi, poi scopriamo che non è vero niente. Siamo esasperati, ma sappiamo che la transizione non è facile da gestire, ma non rinunceremo a nessun diritto conquistato nel tempo e siamo pronti a far sentire le nostre istanze”. Lo sguardo fiero, la voce importante, Suzanne è un’avvocata civilista trentenne. Di battaglie ne ha fatte molte nei tribunali, tra mille difficoltà, ed è pronta a lottare per il suo ruolo e il suo lavoro.
Lavoro è un’altra delle parole chiave. Il paese sta vivendo una pesante crisi economica e molte persone vivono in condizioni di povertà estrema, sia nelle città, sia nelle tendopoli per sfollati interni di Idlib. Lì il tempo mi sembra sospeso, le persone in un limbo, nell’anticamera dell’inferno, da tredici anni in tende fatiscenti e accampamenti che si sono estesi a dismisura. I loro bimbi sembrano cagnolini e gatti randagi abituati a vivere in modo precario. Sono i grandi dimenticati di questa guerra. Nel 2013 ho trascorso, su mia richiesta, la mia prima notte in Siria proprio in una tendopoli per sfollati a Idlib. Ho ritrovato la donna che mi ha accolto nella sua tenda e ci siamo abbracciate come sorelle. È rimasta qui con la famiglia per tutto questo tempo. I figli sono cresciuti senza sapere cosa sia una casa. Non ha mai perso la speranza e la dignità.
Ancora una volta questa parola, speranza. L’hanno persa in molti tra le famiglie dei mafqudin, le persone scomparse forzatamente. Dopo la liberazione dei prigionieri politici, chi non ha visto tornare i propri cari è piombato nella disperazione. Le città sono tappezzate di foto di persone di cui non si hanno più notizie da anni e anni. C’è una sola risposta a questo punto ed è da cercare nelle fosse comuni. Mentre trascorro le prime ore ad Aleppo arriva la notizia che ne hanno trovata una. La stessa notizia era arrivata mentre ero a Darayya, sulla tomba del Ghandi siriano, il giovane Ghiath Matar. Mi torna in mente quel proverbio siriano sulla madre del morto ammazzato che dorme piangendo e la madre del disperso che non dorme mai. L’incertezza fa più male di una verità terribile. Ho cercato la verità sulla Siria e su me stessa anche tra le tombe a cui ho fatto visita. La prima è stata quella del bambino Hamza al Khatib, che aveva le guance tonde come quelle del mio primogenito… Il nostro destino è scritto anche nei luoghi in cui nasciamo. Sono una testimone. Esterna? Interna? Con che parola torno in Italia?
Cerco con tutte le mie forze di fare spazio alla speranza, ma non è questa la parola chiave. Quella è complessità. La Siria non è solo un mosaico di etnie, religioni, culture, ma anche di esperienze e sguardi. Tra i parenti delle vittime del regime la certezza e la gioia per la fine del regime prevalgono. Tra chi ha subito le bombe, gli assedi, la guerra economica, le minacce delle diverse fazioni armate, oltre alla vita sotto un regime militare, l’atteggiamento è diverso. Non sono una psicologa ma mi sembra di essere davanti a persone colpite dalla Sindrome di Stoccolma.
“Vivevamo. Avevamo un lavoro, una casa, i figli andavano a scuola, eravamo una nazione autosufficiente e con zero debiti con la Banca Mondiale. Bastava farsi gli affari propri e obbedire. Adesso guarda come siamo messi”. Mi sembrano quei discorsi del tipo “I treni però erano puntuali” che si sentono da noi. Majed, commerciante di tessuti, è il più pessimista tra le persone che incontro. Ripete la parola “hire” , incertezza, più volte. “Chi sono questi? A chi ci hanno venduti? Dove andremo a finire?”. Non esita ad ammettere che ha paura. “Sappiamo tutti cosa faceva il regime, ma avevamo accettato il compromesso. Vivere a testa bassa, non contestare, ma avere la certezza di vivere a casa nostra”.
Raccolgo altre testimonianze simili e mi sembra che le voci di chi è pieno di entusiasmo e crede in un futuro migliore io le abbia ascoltate su un altro pianeta. Devo usare tutti questi colori perché la fotografia dell’attuale situazione in Siria sia il più possibile realista. Sono consapevole di tornare a casa con più interrogativi che risposte, ma credo sia giusto così. Ho avuto la gioia e l’onore di essere in Siria in un momento storico, di essere parte di questo momento, di essere anche io una storia nella storia. Sono tornata qui a testa alta e libera, incredula, commossa, col cuore che si è riempito di tutto il dolore che ho visto. Attingo di nuovo alla psicologia e al concetto di trauma collettivo. Non c’è un solo siriano che non lo stia vivendo. Tutti hanno perso qualcosa e qualcuno degli ultimi cinquantaquattro anni di regime e negli ultimi quattordici anni di guerra. Le torture, le sparizioni forzate, le distruzioni, la fuga di massa, le famiglie spezzate, le minacce, la paura, il senso di precarietà hanno condizionato tutte e tutti. Le ferite sono molteplici, vive e profonde. La mia si chiamava ghurba, esilio.
Immagine in anteprima: Harasta - Foto di Asmae Dachan