Il futuro incerto della Siria a cento giorni dalla caduta del regime di Assad
7 min letturaSono passati i primi cento giorni dalla caduta del regime degli Assad. Un periodo relativamente breve se si confronta con la dittatura, durata oltre mezzo secolo, che ha visto il governo della Siria passare in eredità dal padre Hafiz al figlio Bashar. Cento giorni particolarmente densi di accadimenti. Si è passati dall’abbattimento delle statue e delle gigantografie di Hafez, Bashar, Maher e Basel al Assad all’affissione, su monumenti rimasti illesi dalle violenze, delle foto dei mafqudin, le persone scomparse forzatamente di cui non si hanno notizie, in alcuni casi, anche da oltre trent’anni.
Come se per la prima volta dopo decenni di assenza, i siriani tornassero ad avere un volto, un volto sofferente, che chiede verità e giustizia. Le voci degli oppressi hanno preso il posto di quelle degli oppressori. I siriani sono tornati a parlare, a manifestare e organizzare sit in, abbattendo la censura imposta con la forza. Dal cosiddetto ordine intimato con la repressione e le violenze durante i cinquantaquattro anni di nizam, il regime, e i quattordici di guerra, la Siria è passata a una fase nuova, che potrebbe essere definita liquida. Il temuto caos non è esploso, non nella maniera prevista da molti, e il paese mediorientale non è diventato il nuovo Afghanistan, né la nuova Libia.
La Siria è rimasta la Siria, un paese devastato da bombardamenti indiscriminati, dimezzato della sua popolazione, impoverito, attraversato da violenze, ma dignitoso, fiero, consapevole del suo valore e della sua storia. Proprio ai valori e alla storia fanno appello i siriani oggi, per attraversare tutte le sfide che si trovano davanti, come una persona che dopo una lunga fase di coma deve iniziare la riabilitazione psico-motoria. Vanno ricostruiti il dialogo e il confronto politico dopo decenni di monopartitismo, la coesione sociale dopo anni di retorica settaria, la fiducia gli uni negli altri, il sistema giuridico e quello economico.
Da dove si comincia, considerando anche lo scenario di devastazione e isolamento e lo smantellamento del sistema paese? Come riprendere il cammino nella storia? È come se i siriani si trovassero ora a dover inventare l’alfabeto ed è per questo che è importante prendere ispirazione da altri Stati che hanno vissuto esperienze simili, come è importante avere il sostegno di istituzioni e organismi internazionali. Uno degli slogan dei shabiha, letteralmente fantasmi, nome con cui venivano definiti i paramilitari al soldo del regime, responsabili di crimini aberranti, era “Assad, o bruciamo il paese”. Oggi è vero che la Siria è un paese bruciato, ma è anche vero che Assad è scappato in Russia.
A chi è andato, dunque, l’onore e l’onere di guidare nell’immediato la Siria, prima che sia possibile indire elezioni libere e democratiche? La storia ci insegna che questo ruolo, almeno nel primo periodo, va al “vincitore”, a chi militarmente ha sconfitto il regime. Dal 29 gennaio 2025 la Siria ha un presidente ad interim, Ahmad al Shara e un governo di transizione che controlla le forze armate e guida il confronto politico con le cancellerie e gli organismi internazionali. Al Sharee, chiamato fino all’8 dicembre 2024 al Jolani, col suo nome di battaglia, era a capo dell’HTS, il gruppo armato che ha guidato l’offensiva che ha portato alla caduta del regime.
L’HTS era considerato un gruppo terroristico dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, ma oggi i suoi ex membri vengono ricevuti in rappresentanza della Siria e in Siria accolgono le delegazioni dei paesi e delle organizzazioni che hanno subito avviato un dialogo con le nuove istituzioni damascene. Il 2 marzo è stata annunciata una commissione composta da sette membri, tra cui due donne, a cui è stato dato il compito di redigere una Costituzione transitoria che sarà in vigore per cinque anni e che è stata promulgata il 13 marzo 2025. Il documento prende la legge islamica come fonte principale, a differenza della Carta precedente, dove l’islam rappresentava una delle diverse fonti. Questo ha sollevato le preoccupazioni delle cosiddette minoranze e degli attivisti per i diritti umani, che chiedono tutela per i diritti delle donne e delle diverse comunità etniche e religiose. Al Shara ha promesso una Siria inclusiva e rispettosa delle libertà, ma le prove da affrontare per il suo neonato governo sono molte.
I fatti avvenuti tra il 6 e il 10 marzo 2025 ne sono una prova. Secondo il Syrian Network for Human Rights (SNHR), una delle fonti più affidabili sui fatti siriani, un gruppo di sostenitori del vecchio regime ha ucciso, nella notte del 6 marzo, oltre 170 uomini della Sicurezza nazionale nella città costiera di Latakya, una delle roccaforti del regime, dove si sono rifugiati migliaia di lealisti dopo l’8 dicembre. Immediata è scattata la reazione delle Forze di sicurezza, che hanno raggiunto la zona dell’attacco da diverse città siriane, dando vita a una vera e propria punizione collettiva, provocando così la morte violenta di oltre 700 civili, compresi 39 bambini e 49 donne della comunità alawita, a cui appartengono la famiglia Assad e molti lealisti tra Latakya, Tartus, Hama e Homs.
Secondo la stessa fonte, oltre alle forze che rispondono al nuovo ministero della Difesa siriano sarebbero intervenuti miliziani stranieri appartenenti ai diversi gruppi armati integralisti che ancora si trovano in Siria. La retorica settaria e i discorsi di odio che sono esplosi anche sui social dopo l’attacco alle Forze di sicurezza erano, purtroppo, prevedibili. Molti uomini alawiti sono responsabili dei crimini del regime, ma gli alawiti sono una comunità composta soprattutto da civili, una comunità eterogenea e non sono mai mancate voci di oppositori, come quella dell’attrice May Scaff, costretta all’esilio per il suo attivismo e diventata uno dei simboli della rivoluzione siriana.
La mancanza di giustizia, che ha lasciato impuniti per mezzo secolo i lealisti responsabili di violenze e torture, si ripresenta oggi come uno dei problemi principali della Siria. Al Shara ha annunciato l’istituzione di una commissione indipendente per far luce sui fatti del 6-10 marzo, assicurando che verranno perseguiti i colpevoli di crimini contro i civili.
Tra gli attivisti che si sono distinti nelle denunce contro il regime siriano, in molti hanno condannato il massacro degli Alawiti e i discorsi di odio, pubblicando sui propri profili le foto delle vittime e in particolare le foto delle madri in lacrime, sia quelle arabe, sia quelle alawite, affermando che quelle donne sono madri che stanno dalla stessa parte e non su fronti opposti. In tanti hanno condiviso i messaggi dell’attivista alawita anti-regime Hanadi Zahlout, una donna che nella strage ha perso numerosi familiari, ma che non ha mai smesso di lanciare appelli all’unità di tutti i siriani.
Proprio il 10 marzo il presidente ad interim Al Sharaa ha firmato uno storico accordo con Mazlum Abdi, il comandante curdo delle Syrian Democratin Forces, (SDF), un gruppo militare misto arabo-curdo, per l’inclusione di quest’ultimo nelle istituzioni statuarie siriane. Secondo le disposizioni dell'accordo, “la comunità curda è parte integrante dello stato siriano e lo stato garantisce il suo diritto alla cittadinanza e ai diritti costituzionali”. Un’iniziativa particolarmente importante, che apre a nuovi scenari e tenta di prevenire ulteriori fronti di tensione. L’area del nord-ovest del paese, dove vive la maggior parte dei Curdi e dove sono di istanza truppe statunitensi è considerata particolarmente sensibile. Il 16 marzo, nell’ultimo bombardamento turco sul villaggio di Barkh Butan, vicino alla città curdo-siriana di Kobane, sono rimaste uccise nove persone, di cui sette bambini. Tensioni si registrano anche alla frontiera tra Libano e Siria, con scontri che hanno provocato la morte di almeno sette cittadini libanesi, fino al raggiungimento di una tregua, siglata il 17 marzo.
Oltre ai numerosi problemi di sicurezza interni, la Siria deve affrontare diverse minacce esterne, in particolare quelle israeliane. Israele ha avviato una campagna di terra e una serie di bombardamenti nel sud della Siria, occupando militarmente il monte Hermon e altre zone del sud del paese, circa 450 chilometri quadrati di terra, arrivando a 40 chilometri dalla capitale. Nell’ultimo bombardamento su Daraa, la città dove ha avuto inizio la rivoluzione siriana, sono rimaste uccise almeno 19 persone, tra cui quattro bambini. Durante i funerali delle vittime alcuni manifestanti hanno mostrato cartelli con la scritta “Netanyahu e Assad, due facce della stessa medaglia”. Israele ha anche offerto una “protezione” non richiesta alla comunità drusa che abita principalmente nelle città frontaliere di Sweida e nelle zone limitrofe. I rappresentanti della comunità hanno dichiarato di non accettare. Al tempo stesso il capo spirituale della comunità drusa, Himkat al Hijri ha annunciato in un video di non voler fare accordi con quello che ha definito il governo radicale ad interim.
Nonostante le numerose minacce che attraversano la Siria, il ritorno in patria dei primi 300mila Siriani su un totale di 13 milioni di persone che non vivono più nelle loro case, tra sfollati interni e profughi, rappresenta un segnale positivo. Molti purtroppo, come la nuotatrice olimpica Yusra Mardini, trovano solo macerie e povertà al loro arrivo. Secondo l’Onu il 90% della popolazione vive ormai sotto la soglia della povertà e sono indispensabili gli aiuti umanitari. Il 24 febbraio scorso l’Unione Europea ha deciso di “sospendere le misure restrittive in alcuni settori economici chiave come energia e dei trasporti, oltre che ad agevolare le operazioni finanziarie e bancarie connesse a detti settori e quelle necessarie a fini umanitari e di ricostruzione.” Nel corso della Conferenza di Bruxelles i paesi donatori hanno stanziato 5,8 milioni di euro per la Siria tra donazioni e prestiti.
Tra i paesi che hanno subito attivato i canali diplomatici con il nuovo governo siriano c’è anche l’Italia. Il 10 marzo il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha incontrato a Damasco il suo omologo Asaad al Shibani e il presidente al Sharaa. Già lo scorso dicembre nell’ambasciata italiana a Damasco, riaperta a luglio 2024 per promuovere la normalizzazione con Assad, veniva issata la bandiera dell’indipendenza siriana, come a riconoscere le nuove autorità del paese mediorientale. In cinque mesi si è passati da una bandiera all’altra nella sede diplomatica. L’Italia sembra aver accolto il cambiamento epocale avvenuto in Siria e continua a proporsi come partner e interlocutore privilegiato. Miracoli della politica, che in questo momento però fanno bene alla Siria e ai siriani, che per arrivare a quel cambio di bandiera hanno attraversato un incubo durato mezzo secolo e subito una guerra di cui nessuno conosce il numero delle vittime. Tra le eredità lasciate dal nizam, infatti, ci sono immense fosse comuni in tutta la Siria. Anche qui bisognerà imparare dalle esperienze simili di altri paesi, oppure inventare un nuovo alfabeto e una nuova semantica della storia.
(Immagine in anteprima: frame via YouTube)
