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La prigione di Seydnaya, il cuore nero della Siria di Assad

20 Dicembre 2024 7 min lettura

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La prigione di Seydnaya, il cuore nero della Siria di Assad

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“E quindi uscimmo a riveder le stelle”

“Non avrei mai immaginato che qualcuno potesse vedere da dentro l’inferno di Seydnaya. Non avrei mai immaginato che mia madre guardasse in televisione quelle celle, quelle stanze delle torture e della morte dove sono stato per ben sei anni. Non riesco ancora a realizzare che sia successo veramente”. Parla contorcendosi le dita Ahmad, che ora ha ventotto anni e che in quello che è stato ribattezzato “il mattatoio di Assad” è stato trascinato quando era ancora minorenne. Quando i ribelli siriani hanno aperto le porte del famigerato carcere e le telecamere di tutto il mondo sono entrate per la prima volta tra quelle mura di tortura e di morte, l’orrore è stato grande. I siriani non potranno dimenticare quella data, domenica 8 dicembre 2024, il giorno della definitiva caduta del regime di Bashar al Assad e il giorno in cui le segrete delle carceri governative venivano mostrate al mondo. 

Ahmad ha visto quelle immagini dalla Turchia, dove vive in esilio da quando è stato liberato. “Quando descrivevo le celle piccolissime e dicevo che all’interno c’erano anche quaranta persone, senza una finestra, senza un bagno, ma solo latrine e poca acqua che arrivava attraverso dei tubi solo in alcuni momenti, vedevo l’incredulità negli occhi di chi mi ascoltava. Non potevo biasimarli, era tutto surreale. Guardando in tv le scene della liberazione ho risentito il freddo che ho provato lì dentro, i dolori e l’angoscia, ma anche l’odore pungente della morte che ora tutti i giornalisti e gli operatori del soccorso cercano di descrivere”. Si asciuga gli occhi Ahmad, che via Skype mostra il suo viso ora, ma chiede ancora di non divulgare la sua immagine e il suo nome completo. Ha ancora paura. “Il regime immortale è morto, ma il suo ricordo e le ferite che ha inflitto sono ancora vivi. Tra le mie braccia è morto di stenti un mio amico a Seydnaya. Ogni mattina aprivano la cella per chiamare qualcuno alla hefla (la festa, ndr) come veniva chiamata la sessione quotidiana di torture. Ora la gente vede e resta traumatizzata, ma nulla è come averlo vissuto”.

Ahmad, originario di Damasco, era stato arrestato nei primi anni della rivoluzione per aver preso parte a una manifestazione antigovernativa e aver filmato i cori e le bandiere dell’indipendenza col suo smartphone. Suo fratello Ibrahim aveva denunciato il suo arresto e la famiglia aveva subito incaricato un avvocato. Ahmad non ha mai avuto un processo, i genitori hanno pagato diversi funzionari per poterlo vedere, per provare a garantirgli una situazione detentiva migliore, ma nulla è servito e per ben sei anni il ragazzo è rimasto chiuso in carcere. Per circa tre mesi in un ramo dei mukhabarat, i servizi segreti, per essere poi essere condotto a Seydnaya. “Quando sono arrivato a Seydnaya sono stato portato in una stanza degli interrogatori dopo essere stato frustato e colpito ripetutamente con bastoni sulla testa e sulla schiena. Mi dissero che dovevo ammettere di essere un terrorista, di aver ucciso soldati governativi e di aver preso le loro armi. Mi rifiutai. Ho preferito le torture a quelle accuse”.

Sei anni tra le celle che ora il mondo ha visto, assistendo a esecuzioni almeno una volta a settimana, subendo continuamente violenze fisiche e psicologiche, senza mai vedere il cielo e nessuno che non fosse un altro detenuto o un carceriere. Ahmad ha compiuto diciotto anni tra quattro mura luride e in quell’inferno non ha potuto prendere la maturità e studiare, ma ha continuato a imparare. “I più grandi ci sussurravano all’orecchio storie e insegnamenti in base alla loro esperienza, stando attenti a non farsi sentire dalle guardie perché, li avessero sentiti, ci avrebbero picchiati. Un medico ci parlava del corpo umano, un professore di lettere ci faceva lezioni di storia e letteratura e c’era perfino un hafiz, un anziano che sapeva il Corano a memoria che ci aiutava a memorizzare a nostra volta. Quei momenti mi hanno tenuto vivo. Li ricordo con affetto, anche se sembra strana questa parola in un contesto simile”.

Il giovane non aveva idea della grandezza della struttura perché, quando lo hanno portato lì era bendato e ammanettato e quando è tornato libero, non ha mai avuto il coraggio di guardare in rete come fosse Seydnaya da fuori. Dopo aver guardato alcuni video sul telefonino e averne condivisi altri racconta ancora: “Quando uscivamo dalla cella per una hefla o altro, venivamo sempre bendati. Percorrevamo corridoi lunghi, c’erano tante scale. È in uno dei piani sotterranei che ho sentito per la prima volta le urla delle donne e dei bambini. Trovavo disumane le grida degli uomini sotto tortura, ma quelle delle nostre sorelle e dei bambini mi facevano più male delle scosse. Avete visto come erano quando hanno aperto le celle?”. Ahmad si prende la testa tra le mani, chiude la telecamera per alcuni istanti. “Cosa è diventato l’essere umano? Giuro che neanche le bestie fanno così”. 

Oggi la stampa internazionale ha ripreso il carcere da dentro e da fuori e tutti vedono quello che i siriani descrivono almeno dal 1987, quando la struttura è stata aperta, all’epoca di Assad padre, senza essere creduti, senza essere nemmeno ascoltati. Eppure, tutti sapevano perché non si tratta di una prigione segreta o sotterranea e diverse associazioni come Human Rights Watch e Amnesty, ad esempio, avevano denunciato in passato le violazioni dei diritti umani tra le mura della famigerata prigione. 

Seydnaya, gestita dal ministero della Difesa, è a meno di 30 chilometri dalla capitale e per costruire la struttura ci si è avvalsi di tecnologie avanzate, specie per quanto riguarda gli strumenti di monitoraggio e videosorveglianza. I soccorritori stessi sono rimasti senza parole di fronte a quello che hanno visto e cella dopo cella, piano dopo piano, sono entrati nelle profondità del “mattatoio”. In un primo momento era circolata la notizia che vi fossero altre celle sotterranee, ma dopo un lavoro minuzioso, avvalendosi anche dei cani molecolari, i soccorritori dei White Helmets hanno affermato, tramite un comunicato ufficiale,  che le ricerche erano finite. 

Sin dalle prime ore in cui si è diffusa la notizia dell’apertura delle porte di Seydnaya, da tutta la Siria sono arrivate centinaia di famiglie in cerca dei propri cari. La Association of Detainees and Missing Persons of Sednaya Prison, un’associazione nata nel 2017 su iniziativa di sopravvissuti, vittime e loro familiari, sta continuando il lavoro di sostegno alle famiglie in cerca dei propri cari, anche per contenere le false notizie e agevolare il lavoro dei soccorritori. In un comunicato diffuso il 10 dicembre riferisce che: 

“Il numero totale di detenuti durante quel periodo era di circa 4.300 (…) Abbiamo pubblicato questo documento per contrastare le voci e le affermazioni che suggeriscono l'esistenza di porte segrete e livelli sotterranei all'interno della prigione di Seydnaya”. 

I rami della prigione sono tre, in due di essi ci sono gli spazi di detenzione. Nella Sezione bianca c’erano i detenuti politici, nella sezione rossa, la più vecchia, quelli con accuse rivolte da tribunali militari o relative al terrorismo. Il regime accusava di terrorismo anche oppositori politici. La struttura si estende per 1,79 chilometri quadrati, circa otto volte l’estensione dei campi da calcio in Siria. Secondo Amnesty oltre 30mila persone sono state uccise a Seydnaya sotto tortura tra il 2011 e il 2018. Tra le centinaia di persone liberate ci sono anziani in carcere anche da più di trent’anni, ci sono giovani donne e uomini e ci sono anche bambini molto piccoli. Non ci sono informazioni ufficiali ancora, ma sarebbero bimbi nati tra le celle a seguito degli stupri a cui venivano continuamente sottoposte le detenute. 

Secondo Human Rights Watch, tra marzo del 2011, all’inizio della rivoluzione siriana e dicembre 2024, più di 136mila persone sono state intrappolate in quella struttura. Tra loro oltre 3.698 bambini e 8.504 donne. Già nel 2015 la stessa organizzazione aveva pubblicato un report intitolato “If the death could speak”, denunciando le atrocità nelle carceri governative, anche alla luce delle evidenze emerse con la diffusione del Dossier Caesar, l’archivio del fotografo forense fuggito da Damasco che ha permesso al mondo di vedere per la prima volta i corpi torturati fino alla morte dei detenuti nelle prigioni governative. Persone senza vita ridotte pelle e ossa e identificate solo con alcuni numeri seriali. 

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“Quando sono uscito da quell’inferno e mi chiamavano, spesso non rispondevo. Non ero più abituato a sentire il mio nome. Ero stato un numero per sei anni. Uno tra migliaia di numeri. Eravamo isolati dal mondo. A volte mi chiedevo se il mondo, fuori, stesse continuando normalmente, se la gente potesse immaginare, se credevano che fossimo tutti morti”. Ahmad commenta amareggiato la divulgazione di foto e video di corpi senza vita. “Se fossi stato ucciso lì, non avrei mai voluto che mia madre mi vedesse e che mi dovesse riconoscere tramite internet. Capisco l’urgenza di comunicare, ma quei corpi sono stati persone e hanno una dignità”. Sono in molti a pensarla come lui e per ricordare alcune delle persone riconosciute tra quei corpi ammassati senza pietà nelle celle di Seydnaya trasformate in obitori, hanno pubblicato le foto dei loro cari ancora vivi. Si rincorrono inoltre notizie su possibili fosse comuni ed è stato promesso un compenso in denaro a chi aiuti concretamente a trovare prigioni segrete. 

A Seydnaya è stato trovato, tra gli altri, il corpo senza vita di Mazen al Hamada. I suoi funerali si sono svolti giovedì 12 dicembre nella capitale, con la partecipazione di centinaia di donne e uomini che hanno ripetuto il suo nome, slogan della rivoluzione e fatto i zalaghit, i tradizionali suoni che si fanno con la lingua in occasione delle feste. La festa per la nuova vita del giovane dagli occhi tristi. Mazen è stato un attivista per i diritti umani, un testimone, un sopravvissuto di Seydnaya. Dopo aver girato il mondo raccontando la sua esperienza è tornato in Siria, sapendo a cosa andasse incontro. La zia ha raccontato che avevano minacciato ritorsioni alla sua famiglia. È andato incontro alla morte nel 2020 ed è stato ucciso pochi giorni fa. In questi ultimi quattro anni, al di fuori di attivisti, amici e parenti, Mazen è stato consegnato all’oblio. “Allah accolga la sua anima e l’anima di tutte le vittime. Su Seydnaya andrà scritto e raccontato ancora molto perché i responsabili vengano processati un giorno. Ma ci credo poco ormai”.

Immagine in anteprima: frame video France24 via YouTube

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