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Il caso Sinner e un problema ben più grande con il doping sportivo

31 Agosto 2024 9 min lettura

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Il caso Sinner e un problema ben più grande con il doping sportivo

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Sinner, la WADA fa appello contro l'assoluzione e chiede una condanna a 1 o 2 anni

Aggiornamento 28 settembre 2024: L’Agenzia mondiale antidoping (WADA) ha presentato ricorso al Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS) contro l'assoluzione del tennista italiano Jannic Sinner nella vicenda Clostebol.

"È opinione dell’agenzia che la constatazione di 'nessuna colpa o negligenza' non fosse corretta ai sensi delle norme applicabili", si legge nel comunicato della WADA. Dunque, l'Agenzia anti-doping non crede (o crede solo in parte) a quanto detto dall’atleta e dal suo team, e per questo ha avanzato al TAS una richiesta di squalifica tra uno e due anni.

L'ITIA (International Tennis Integrity Agency) aveva assolto Sinner in quanto la concentrazione di Clostebol trovata nelle urine era stata definita "estremamente bassa". Secondo la versione fornita dalla difesa di Sinner, la rilevazione del medicinale proibito sarebbe dovuta a una contaminazione avvenuta attraverso un massaggio (senza guanti) del suo fisioterapista, Giacomo Naldi che aveva usato il Trofodermin, un medicinale spray contenente Clostebol, per un taglio che si era procurato al mignolo della mano sinistra.

 

“Penso che quello che ha fatto Jannik sia conforme alle regole, sono solo le regole a essere un po’ vaghe”. Le parole di Daniil Medvedev sono quelle che meglio inquadrano il vero problema dietro il caso Sinner, il 23enne tennista italiano e numero 1 del mondo trovato due volte positivo dall’antidoping ma assolto da ogni accusa. Già solo presentare la sua vicenda con queste parole genera, per quanto fattualmente non ci sia nulla di sbagliato, una grande confusione su quanto accaduto. I fraintendimenti sono però emersi fin da subito anche nelle repliche di tanti altri tennisti professionisti, a partire da Novak Djokovic, che più o meno volontariamente hanno messo in evidenza quello che ha successivamente detto anche Medvedev: il sistema dell’antidoping nel tennis ha un enorme problema di trasparenza.

Ricapitoliamo brevemente il caso di Jannik Sinner. Il 20 agosto l’ITIA (International Tennis Integrity Agency) ha comunicato che l’atleta altoatesino era risultato positivo a due test differenti sulle sostanze dopanti, ma che era stata raggiunta la decisione di non squalificarlo, dato che le indagini e il successivo processo avevano appurato che da parte sua non c’era stato alcun dolo e che le quantità di sostanza proibita non erano significative. Questa notizia non poteva che generare delle domande: quale processo? Di cosa stava parlando l’ITIA? Contestualmente, l’organizzazione antidoping del tennis professionistico rendeva noto che, sebbene assolto, Sinner veniva sanzionato con la revoca di 400 punti nella classifica ATP e dell’intero premio in denaro del torneo di Indian Wells, durante il quale era risultato positivo ai test. Nuove domande: se è innocente, perché riceve una sanzione? “Regole diverse per giocatori diversi”, aveva commentato il collega canadese Denis Shapovalov.

Che cosa è davvero successo nel caso doping di Sinner

Sembrerà strano, ma in realtà la sentenza è corretta e, secondo quanto appurato, Sinner è effettivamente innocente. Il primo test positivo risale al 10 marzo 2024, dopo la vittoria sul tedesco Jan-Lennard Struff nel torneo di Indian Wells in California: Sinner risultava aver assunto una sostanza vietata, il Clostebol, anche se in quantità infinitesimali. Un secondo test positivo sull’altoatesino era stato effettuato il 18 marzo, il giorno dopo la conclusione del torneo, da cui Sinner era uscito in semifinale contro Alcaraz: ancora il Clostebol, ancora in quantità estremamente ridotte. Per questi due test, Sinner era stato sospeso dall’ITIA (tra il 4 e il 5 aprile, e poi tra il 17 e il 20 aprile), ma in entrambe le occasioni aveva fatto ricorso, ottenendo la possibilità di continuare a giocare e, soprattutto, che non venisse reso pubblico il procedimento ai suoi danni.

Ecco perché, fino allo scorso 20 agosto, nessuno aveva mai sentito parlare dei due riscontri positivi al doping né delle sospensioni né del processo in atto. La notizia di tutto questo è stata diffusa solo al termine di questo processo, che si è concluso appunto con l’assoluzione del tennista italiano. Sinner ha infatti dimostrato che l’assunzione del Clostebol era avvenuta in maniera fortuita e senza una sua responsabilità diretta. Come raccontato bene da Giorgio Di Maio sull’Ultimo Uomo, la sostanza era contenuta in uno spray (il Trofodermin) usato per curare delle ferite superficiali, che in quei giorni era stato utilizzato dal suo fisioterapista Giacomo Naldi. Naldi si era tagliato un dito con un bisturi, per questo motivo aveva fatto ricorso al Trofodermin. Durante Indian Wells, il fisioterapista aveva effettuato un massaggio di circa un’ora a Sinner senza utilizzare i guanti, e ciò era bastato perché il Clostebol contenuto nello spray venisse assorbito dal corpo del tennista.

Queste circostanze sono state tutte confermate e dimostrate nel corso del processo, durante il quale è stato anche sottolineato come, oltre a essere stato assunto in quantità molto ridotte (0.1 milionesimi di grammo per litro), il Clostebol ha anche effetti dopanti piuttosto limitati. Si può quindi concludere che da parte di Jannik Sinner non ci sia stata alcuna volontà di imbrogliare, e che l’assoluzione sia stata corretta. Ecco perché il vero caso non riguarda l’atleta oggi al primo posto della classifica ATP, ma la discutibilità di regole che spesso non sembrano né trasparenti né coerenti. Ad esempio, il fatto che, pur essendo stato ritenuto innocente, Sinner abbia subito una piccola sanzione: le regole del tennis, infatti, prevedono questa punizione in qualsiasi caso in cui un atleta risulti positivo a una sostanza dopante nel corso di un torneo, a prescindere dai successivi esiti del processo.

Le regole non sono (proprio) uguali per tutti

L’ITIA non gode propriamente di grande fiducia, nel circuito tennistico. L’agenzia è stata fondata nel 2021 per sostituire la precedente Tennis Integrity Unity (nata nel 2008) ed è controllata dalle tre grandi associazioni del tennis professionistico (ITF, ATP, WTA) e dalle organizzazioni dei quattro principali tornei dello Slam (Australian Open, Roland Garros, Wimbledon, US Open). Da subito, questa struttura ha attirato dei sospetti da parte dei fan: perché mai questi enti dovrebbero punire seriamente le proprie grandi star, da cui dipende l’intero impianto del tennis mondiale (uno sport che, anche a livello economico, è molto più individualistico rispetto ad altre discipline)? Prove di effettivi favoritismi nei confronti dei big sul fronte della lotta al doping non sono mai emerse, ma questo non significa che non esistano delle disparità e altre problematiche legate all’ITIA.

Nel giugno del 2022, la tennista britannica Tara Moore venne trovata positiva al boldenone e al nandrolone, e come Sinner venne sospesa, ma a differenza dell’italiano non si appellò subito alla decisione. Il vantaggio dell’attuale numero 1 al mondo era che già conosceva il possibile motivo dell’involontaria assunzione del Clostebol, e ha potuto quindi difendersi in maniera efficace. Moore, all’epoca, non poteva sapere che i test erano stati influenzati da della carne contaminata che aveva mangiato in Sudamerica: la sua sospensione è durata 19 mesi, fino a che, alla fine dello scorso dicembre, un tribunale indipendente non ha appurato che era innocente. “Immagino conti solo l’immagine dei grandi atleti”, ha commentato polemicamente Moore su X, in merito al caso Sinner.

Prima ancora di essere assolti o condannati, questi processi influiscono sulle possibilità dei tennisti e delle tenniste di continuare a giocare in attesa di giudizio, e sulla possibilità di tutelare la propria immagine evitando la diffusione delle notizie, come avvenuto con l'italiano. Ma non tutti possono avere accesso, per ragioni economiche e quindi implicitamente anche di prestigio sportivo, a strumenti legali di prim’ordine. A questo si aggiunge il fatto che i procedimenti dell’ITIA presentano diverse contraddizioni e lacune, come nel clamoroso caso della rumena Simona Halep. Il 7 agosto 2022 le venne comunicata la positività al Roxadustat, una sostanza che aumenta i livelli di emoglobina nel sangue, relativa a un test del 29 agosto precedente. Secondo Halep, l’assunzione era dovuta all’utilizzo di un integratore che conteneva la sostanza, la quale non era però indicata tra i componenti del prodotto. Il tribunale accolse la sua tesi, ma aggiunse che i livelli del Roxadustat nel suo sangue erano troppo alti per essere dovuti solo all’integratore, e nel settembre 2023 le ha comminato una squalifica di quattro anni. Lo scorso marzo, però, il Tribunale arbitrale dello sport di Losanna ha ridotto la sentenza a nove mesi, permettendole di tornare subito in campo.

Addentrarsi nella breve storia dell’ITIA significa navigare in un mare di casi contraddittori e di regole che non sempre appaiono equilibrate agli addetti ai lavori. Nel giugno 2023, il polacco Kamil Majchrzak è stato squalificato per 13 mesi, nonostante l’ITIA avesse accettato la sua giustificazione secondo cui le sostanze vietate fossero contenute in un integratore ma non indicate nel foglietto illustrativo. Charlie Eccleshare ha segnalato su The Athletic altri casi piuttosto indicativi della confusione che regna in materia: nel 2021, gli allora 17enni Matilde Paoletti e Mariano Tammaro risultarono entrambi positivi al Clostebol, la stessa sostanza del caso Sinner, subendo due processi molto simili. Alla fine, Paoletti è stata assolta e Tammaro condannato a due anni di squalifica. Nel novembre 2023, Stefano Battaglino è stato sospeso per quattro anni per assunzione di Clostebol. È chiaro che ogni caso fa storia a sé, ma è altrettanto evidente che l’ITIA stia decisamente fallendo nel comunicare chiaramente le motivazioni delle sue sentenze e il funzionamento dei suoi procedimenti, al punto che lo scorso maggio Jonathan Jurejko si domandava, sul sito della BBC, se il sistema antidoping del tennis non stesse diventando un modo per distruggere delle carriere piuttosto che per tutelare la correttezza dello sport.

I limiti e i dubbi nella lotta al doping

A questo punto risultano più chiare le parole di Djokovic dopo l’annuncio del caso Sinner, secondo cui c’è una “mancanza di coerenza” e “di protocolli standardizzati e chiari” nella lotta al doping nel tennis. Tra gli atleti e le atlete del circuito si è da tempo diffusa la convinzione che l’ITIA rappresenti più un pericolo per le loro carriere che la garanzia di un’equa competizione. Lo ha sottolineato ancora Medvedev, parlando sempre di Sinner: “Lui sapeva cosa era successo, e buon per lui, quindi è riuscito a difendersi. Immagina un qualsiasi tennista nella top 100 che riceve un’email che dice: ‘C’era della cocaina nel tuo sangue'. Magari non sai come ci sia finita, non hai fatto nulla ma vieni sospeso”.

Non è un problema solo del tennis, chiaramente: anche in altri sport, in particolare nel ciclismo e nell’atletica, la lotta al doping si incarta spesso in casi complicati e apparentemente incoerenti, che sollevano dubbi sulla legittimità degli enti preposti a condurla. Anche a causa di tutto questo, negli ultimi anni sono aumentate le persone che propongono una almeno parziale legalizzazione del doping, che possa allentare le maglie dell’antidoping e limitare l’impatto di sentenze spesso controverse. Nel giugno 2023, l’imprenditore australiano Aron D'Souza ha lanciato il progetto degli Enhanced Games, una versione alternativa dei Giochi Olimpici che non seguono le regole della WADA, l’agenzia mondiale antidoping, e permettono quindi l’uso di sostanze generalmente considerate illecite.

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Ma rimettere in discussione il concetto di doping e come contrastarlo è un tema ben più serio delle bizzarre idee di marketing di D’Souza (i cui Giochi, annunciati per il prossimo dicembre, non hanno ancora reso noto né le date né la sede e neppure gli atleti partecipanti). “È chiaro che la tolleranza zero non sta funzionando. Non sta impedendo alle persone di imbrogliare. Non sta dando l’assicurazione al pubblico che le buone performance siano pulite”, scriveva nel 2015 su The Conversation Julian Savulescu, professore di Etica a Oxford. Di fronte al fallimento della lotta al doping e al rischio di azzerare l’interesse delle persone nello sport, la provocazione di Savulescu era di liberalizzare l’uso di sostanze oggi illegali, circoscrivendole entro determinati confini che salvaguardino la salute degli atleti.

I limiti di questa proposta restano essenzialmente due: il presupposto necessario è che le istituzioni ammettano un fallimento in quella che, dal 1960, è di fatto la battaglia più importante che sta coinvolgendo, a vari livelli, l’intero mondo dello sport (e, in molti casi, si riflette anche in una battaglia politica internazionale contro le droghe nella vita quotidiana). Secondariamente, una simile liberalizzazione finirebbe sul lungo periodo con lo scontrarsi con il paradosso connesso a ogni limitazione: ogni qualvolta si pone un’asticella da qualche parte, c’è qualcuno che, più o meno legittimamente, cercherà di oltrepassarla. In poche parole, si tratterebbe solo di alzare l’asticella di ciò che consideriamo doping: tra cinquant’anni potremmo ritrovarci a fare di nuovo questo stesso discorso, anche con regole meno restrittive rispetto a oggi. La strada più percorribile, al momento, continua a essere necessariamente quella delle regole chiare e univoche, comunicate in maniera efficace e con la maggiore trasparenza possibile.

Immagine in anteprima: frame video Sky Sport via YouTube

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