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Il delitto di via Poma, perché la morte di Simonetta Cesaroni ci riguarda ancora oggi

5 Novembre 2022 11 min lettura

Il delitto di via Poma, perché la morte di Simonetta Cesaroni ci riguarda ancora oggi

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In un universo parallelo, oggi la ragazza sarebbe una donna, cinquantatré anni appena compiuti, festeggiati in famiglia. In questo universo, invece, la ragazza ha vent'anni, ce li ha da sempre, e dal 5 novembre, giorno della sua nascita, un giardino a suo nome a Roma. Subito a nord di Prati, nel quartiere della Vittoria con le belle palazzine dei primi del Novecento giustapposte a edifici squadrati e razionali, oltre vialoni alberati, nella geometrica piazza Monte Grappa, tra auto parcheggiate e in movimento, semafori e fretta, c'è un'area verde.

Foto di Roberto Falcinelli

Vista dall'alto di Google maps assomiglia a una lacrima o a una goccia; al centro, la statua della Dea Roma a opera dello scultore polacco Mitoraj, un gigantesco volto di donna composto da blocchi di travertino, solcato da piccole bugne che assomigliano a cicatrici. La statua, talvolta, piange, essendo in realtà una fontana, e i segni lasciati dall'acqua coincidono con i solchi di occhi che guardano chiunque transiti dal Ponte del Risorgimento.

La statua della Dea Roma

Anche la ragazza ci guarda, ma da una fotografia che abbiamo visto tutti. È una di quelle immagini che puoi sentire, c'è l'estate, il mare, il caldo, il costume appiccicato alla pelle, i pantaloncini di jeans ripiegati sul telo e sotto il telo, bollente, la sabbia del litorale romano. Facilmente ci si può figurare anche il seguito: la ragazza che inclina e scuote la testa, i capelli scuri e ricci mossi dal vento, e ride. Nello scatto non lo fa. Nello scatto la sua espressione è insieme pensosa e schietta, assomiglia davvero a quella della Dea di Mitoraj; la ragazza ricambia lo sguardo di chiunque la guardi, sembra chiedere: “E allora?”. Da trentadue anni e tre mesi siamo incapaci di una risposta che sia quella: certa, chiara e comprovata. Abbiamo però, ipotesi e tesi in abbondanza, idea di lei e di ciò che le è accaduto a 900 metri da qui, in un ufficio di via Carlo Poma. La conosciamo tutti, s'aggiungono pagine, quella che scrivo io è l'ennesima, ma il finale manca sempre, il finale non c'è, se non tra questi giardini verdi intitolati a Simonetta Cesaroni, vittima di femminicidio. 

Bella e giovane, a lavoro in luogo deserto 

Ci sono storie, questa è una, in cui le ipotesi finiscono per occupare più spazio della verità. A tirare un filo, ecco che il disegno cambia, il reale sfuma in versioni, prospettive, riletture alla luce di informazioni nuove non perché appena conosciute, ma perché, lì da sempre, sono state prese in considerazione e inserite nel quadro solo adesso. È così che gli elementi “ragazza di vent'anni”, “amore infelice”, “aspetto fisico e abbigliamento”, “ambiente di provenienza”, “contesto sociale estraneo”, mutano d'ordine e di collocazione. A seconda del proprio punto di vista e dell'anno in corso, anche i personaggi cambiano, entrano ed escono dalla narrazione oggetti, vestiti, tecnologie, la protagonista stessa si trasforma: ora ragazza timida, scrupolosa, puntuale, ora soggetto femminile spavaldo, imprudente, influenzabile, partecipe fino a un certo punto e solo da quel punto in poi, vittima. E le correnti sotterranee, a ingrossare un fiume chiamato “Delitto di via Poma” e produrre un estuario di storia contemporanea, foce sul nostro paese e su ciò che siamo, sul modo in cui, ieri come oggi, guardiamo alle giovani donne, ai luoghi in cui si muovono pensandosi al sicuro, ai vestiti che indossano quando e se succede loro qualcosa di orribile.

Il palazzo di via Poma

Dentro la storia di Simonetta Cesaroni, altre storie: il lavoro dei giovani, già con quelle caratteristiche di precarietà e flessibilità sancite poi dal Pacchetto Treu nel '95; la riforma del codice di procedura penale a regolare da capo investigazioni,  raccolta delle prove, ruolo del pubblico ministero e della polizia giudiziaria; le prime analisi del Dna, all'epoca elemento fantascientifico al centro di un romanzo, Jurassic Park, che diventerà  film di Spielberg nel '93; l'architettura di un certo potere che comincia a svelarsi prima dello scandalo Tangentopoli; l'evoluzione delle tecnologie con il computer oggetto misterioso da cui sbucano maniaci e le linee telefoniche ancora soggette, secondo dichiarazioni, ad accavallamenti capaci di mettere in contatto uno sconosciuto con la madre di un presunto assassino. Infine, il ruolo dell'opinione pubblica e dell'informazione, la fine deludente delle Notti magiche, da cui la domanda: se il delitto fosse accaduto solo un mese prima, il 7 luglio 1990 e non il 7 agosto, la foto di Simonetta sulla spiaggia di Passoscuro, la stessa del finale de La dolce vita, l'avremmo mai vista, a occupare il quadrante superiore d'una pagina di giornale, o i gol di Baggio e Schillaci a Bari contro l'Inghilterra, avrebbero preso tutti gli spazi, lasciando per questa ragazza massacrata sul luogo di lavoro solo un trafiletto? E poiché troppo spesso si è detto che l'impatto dei media ha stritolato i tempi, fuorviato se non deviato lo sguardo, messo fretta e pressione a chi indagava, intimorito chi sapeva, è lecito chiedersi se, nel silenzio, avremmo udito il bisbiglio della verità su quanto è accaduto: ci sarebbe stata per Simonetta e per la sua famiglia giustizia? 

Ricostruire come è morta, sapere come è vissuta 

Parlo di lei, la prima volta, con la mia compagna di banco delle medie: non si rassegna d'esser nata il 7 agosto e di dover dunque festeggiare il compleanno nella stessa data in cui, una ragazza vista sul giornale, a cui ha pensato che le sarebbe piaciuto somigliare da grande, è stata ammazzata. Parlo di lei, più di recente, con un amico venuto a pranzo una domenica e che, nell'estate del '90, aveva la tessera degli Ostelli della gioventù. Parlo di lei nell'anniversario della sua morte, mentre in un cortile di Berlino aspetto che ci portino da bere. Parlo di lei e prometto ogni volta di essere breve, di dire: vent'anni, uccisa, da chi, come, perché, ignoto ai tempi come adesso, si vacilla anche sul quando, resta il dove. Ma la promessa non mi riesce mai, la discussione si accende in fiammata, s'aprono anse di puntualizzazioni, parentesi di indizi. Ah, il delitto di via Poma, il rompicapo per giallisti, l'enigma della camera chiusa, il cold case per eccellenza, CSI alla romana, l'ennesimo mistero italiano, assimilabile per numero di piste e rimandi ai servizi segreti, ad altri grandi e insoluti misteri. Vorremmo ricostruire come è morta Simonetta, sappiamo solo – e solo fino a un certo punto – com'è vissuta. 

Inventario di ragazza 

Aveva una famiglia e una casa a cui tornare, un divano letto per dormire, una comitiva da incontrare al bar, telefonate anonime di un presunto corteggiatore, un'amica del cuore e un fidanzato poco certo di voler restare tale, lui biondo e con gli occhi chiari, destinatario e argomento di lettere mai consegnate di persona. Aveva tutto ciò che si immagina abbia una ragazza di vent'anni: desideri, pensieri, tristezze, voglia di ballare, di vivere, di conoscere, di viaggiare, agendine per segnare numeri di telefono e pezzi di canzoni, ricette per l'acquisto di contraccettivi, richieste per Babbo Natale di portarle in dono un amore ricambiato, gusto di vestire alla moda del tempo, un diploma, un attestato e un lavoro senza contratti né garanzie. Trascrivere dati al pc, incontrare clienti, far da messo per documenti e assegni, rispondere a telefono e telefonare, segnare appuntamenti e prenderne: la ragazza segretaria factotum pagata poco e a nero, unica dipendente di piccola società di servizi contabili, sede vicino casa, a Torpignattara: una stanzetta appena nell'abitazione della madre di uno dei due soci.

In giugno di quell'anno, la ragazza, volenterosa, affidabile, attenta, venne imprestata come si presta una penna per un lavoro aggiuntivo dall'altra parte della città. Lo stipendio passò da 400 a 600mila lire che fanno il paio con 600 euro attuali, poco più, poco meno, e lei fu fuori della periferia Roma Sud Est, il quartiere “ai bordi di periferia” come nella canzone di Ramazzotti che lì è cresciuto. Entrò dentro un bel complesso di palazzine color giallo paglierino, due portieri, fontane con vasche, alberi e fiori, quartiere Prati, da un lato la Rai, dall'altro il Tribunale. Via Carlo Poma, civico 2, palazzina B, terzo piano, comitato regionale dell'AIAG, Associazione Italiana Alberghi della Gioventù, meglio nota come Ostelli della Gioventù: la ragazza a lavoro quando gli uffici sono chiusi al pubblico e vuoti di altri colleghi, la contabilità da sistemare due pomeriggi alla settimana, martedì e giovedì.

Il 7 agosto 1990 era un martedì. Nell'ultimo giorno di lavoro prima delle ferie, tra le 16,30 e le 18,30, mentre le famiglie dei portieri sostavano intorno alla grande vasca, mentre qualcuno riposava nell'afosa controra o usciva per una commissione, mentre i pochi condomini rimasti in città lasciavano l'elegante comprensorio o vi rientravano dopo una passeggiata, senza che nessuno sentisse o notasse qualcosa, Simonetta Cesaroni subì almeno un colpo al viso che la tramortì, una lesione al capezzolo di natura mai del tutto chiarita, pressioni simmetriche sui fianchi che le lasciarono due grosse ecchimosi, e ventinove colpi di arma da taglio mai identificata che, a partire dagli occhi per finire in area genitale, produsse sul suo corpo seminudo relativi ventinove fori. Non vi fu violenza sessuale. Le scarpette di tela che indossava rimasero appaiate in un angolo coi lacci allentati, ai suoi piedi i calzini bianchi, privi di macchie, quasi la ragazza avesse volato lunga per atterrare poi sul pavimento di maioliche. Il corpetto candido ricavato dalla mamma a partire da un vecchio vestito fu posto a coprire  le ferite sull'addome e il reggiseno rosa pallido ancora indosso, ma abbassato sulle coppe. Al polso restò l'orologio, sparirono i gioiellini d'oro, sparì il giacchino comprato sul Postalmarket, sparì il pantacollant blu, sparirono altri indumenti intimi, sparì, forse, anche parte del sangue. Per mano di chi e perché non è dato sapere. Per mano di chi e perché è la domanda. Possiamo, dopo 32 anni, trasformarla da curiosità morbosa a chiudere il grande giallo della segretaria sola in ufficio, in interesse civile? Dirci che non ci sta bene che si muoia così, che Simonetta non è l'ennesima di una lunga teoria di donne ammazzate, più o meno giovani, più o meno rispondenti a canoni di bellezza del tempo, più o meno accorte di ciò che il mondo poteva fare di loro, e l'assassino boh, l'assassino vivo o morto, l'assassino chissà. 

Risemantizzare Simonetta Cesaroni

In quanto ho raccontato fin qui, ci sono piccole mancanze. A elencare i presunti colpevoli, gli indiziati e gli indizi, le suggestioni e i moventi, questi buchi aumenterebbero. Ragioni di economia di questo scritto: dico appena del portiere chiamato in causa più volte e infine suicida in uno specchio d'acqua dopo aver lasciato in auto grossi cartelli per dire che non ne poteva più; passo veloce sul processo che vedeva imputato, vent'anni dopo i fatti, l'ex fidanzato di Simonetta, giudicato prima colpevole e poi assolto, ma pubblicamente esposto a una gogna del tipo: “Tu che non la amavi come ti amava lei”. E poi, prima ancora e durante: la pista del serial killer, la pista indicata dall'informatore austriaco che conduceva al nipote del facoltoso condomino che aveva progettato lo stabile; la pista del videotel, dei servizi segreti, della contabilità parallela, del ragazzo avvistato quel pomeriggio, dell'uomo con il fagotto. E poi le storie, su tutte quella del datore di lavoro che non sapeva dove aveva mandato a lavorare la sua dipendente e quella dei “colleghi” di Simonetta, i veri dipendenti del comitato AIAG che però la conoscevano appena, ci avevano parlato forse una volta, ne avevano sentito solo la voce, l'avevano vista ma solo di spalle, con il presidente che sì, sapeva di questa presenza, ma mai vista, mai conosciuta lei. Viene da citare Borges ne “Il libro di sabbia”: il luogo migliore per nascondere una foglia è un bosco.

In questo bosco, la serie podcast di Giacomo Galanti e, più nel dettaglio, il libro “Il delitto di Via Poma trent'anni dopo” di Igor Patruno, rappresentano mappe per la verità, almeno quella storica se non processuale. La domanda muove proprio dal lavoro di giornalismo investigativo e rilettura delle carte svolto da Patruno che si occupa del caso da anni, stavolta affiancato da Luca Dato, Emanuele Santandrea, Lorenzo Iovino, Daniele Piccione, Valerio Scrivo e Roberto Falcinelli. A partire dal 2020, questo gruppo di studio ha intervistato altri esperti, coinvolto giornalisti che hanno seguito il delitto da principio – uno su tutti, Emilio Radice –, e riesaminato in seguitissime dirette fiume su una piccola webradio, la Florence International Radio, tutti quei nodi e quei particolari tralasciati o mai del tutto chiariti, le incongruenze investigative e le poche certezze, provando punto per punto a ripristinare la percezione del delitto e la narrazione della vittima. Perché se esiste una “vulgata di via Poma” in cui l'interpretazione si mangia i fatti, come dice Patruno, esiste anche la chiacchiera su Simonetta, “la ragazza di periferia andata a morire nel quartiere dei ricchi”. Affermazioni del tipo: aveva i pantaloni stretti ma i calzini sono rimasti ai piedi, quindi si è spogliata lei.

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Nel luglio scorso, dopo il tentativo di insediamento di una commissione parlamentare di inchiesta su iniziativa del deputato PD Roberto Morassut, il delitto di via Poma è approdato in commissione Antimafia che, sentita la sorella di Simonetta, l'avvocato della famiglia Cesaroni e lo stesso Patruno, nella relazione finale parla di interventi di deviazione e ostacolo alle indagini e ha dato indicazioni precise: soggetti mai controllati, alibi da rivedere, telefonate anonime, necessità di indagare su quel sangue di gruppo A trovato su una porta dell'appartamento e su un telefono, appartenente a un individuo di sesso maschile. Intanto, la stanza in cui Simonetta è stata ammazzata, è diventata camera di un Bed & Breakfast. Dormirci, raccontano le cronache, costa circa 250 euro. 

Se un pomeriggio d'estate una ragazza 

Lavori tutta la mattina vicino casa e torni a casa per pranzo, ti metti comoda, ma mangi poco o niente, qualcuno telefona o telefoni tu, chissà. Il pranzo si fredda, tu sei di cattivo umore adesso, ma torni a prepararti per uscire di nuovo, ancora lavoro. Orecchini e girocollo, giacchino del Postalmarket, il corpetto cucito da mamma, i calzini, il pantacollant, le scarpette, una borsetta tra l'oro e il bronzo. Dentro c'è un pezzetto di pizzetta con cui fare merenda e una striscia di negativo: sono le foto che ti ha fatto in spiaggia il tuo ex, sono foto di due estati fa, perché sono lì? Si sta facendo tardi, devi prendere la metro e fare un tragitto di quasi un'ora, chiedi a tuo padre un passaggio fino alla stazione, te lo da tua sorella. Esci di casa con lei portando un ombrellino rosa, sia mai che torni a piovere. Esci di casa con la busta della spazzatura consegnata da tua mamma. Scendi dall'auto davanti alla metro di Subaugusta, dimentichi una cartellina beige sul sedile, roba di lavoro, tua sorella ti richiama, tu torni indietro, prendi ciò che devi prendere e te ne vai: è l'ultima volta che qualcuno ti vede in vita, l'ultima volta in cui sei una ragazza come tante che scende nel tunnel della metro e aspetta un treno. Te ne stai, sconosciuta al paese e al mondo, esposta al caso, agli sguardi, ai desideri, alle paure. Ma tu non hai paura. Che paura fa andare a lavoro un pomeriggio d'agosto in un bel quartiere? È l'ultimo giorno prima delle ferie, stasera c'è una pizza con gli amici, poi solo l'estate dei tuoi vent'anni.

Immagine in anteprima via Adnkronos

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