Le accuse della Procura di Piacenza ai sindacalisti di base e i nostri rilievi critici
21 min letturaAggiornamento 5 agosto 2022: Il Tribunale del Riesame di Bologna ha revocato gli arresti domiciliari per i sei sindacalisti arrestati il 19 luglio scorso a Piacenza. In particolare il tribunale ha annullato l'ordinanza di custodia cautelare in relazione alle accuse di associazione a delinquere. Per i sei rimane la misura cautelare dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, relativa ad altri reati. "Crolla il teorema della Procura di Piacenza", ha commentato USB in una nota in cui "esprime soddisfazione per l'esito favorevole del riesame ma mantiene inalterato il giudizio sul gravissimo operato della Procura di Piacenza e mantiene alta la mobilitazione per fermare questo attacco gravissimo al sindacalismo conflittuale e di classe".
Associazione a delinquere, violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, sabotaggio, interruzione di pubblico servizio, turbata libertà dell’industria e del commercio: sono questi i principali capi di imputazione che hanno portato all’applicazione di misure cautelari contro alcuni sindacalisti di base, delle sigle USB e SI COBAS, attivi nella logistica e nelle mobilitazioni dei magazzini del piacentino.
Le indagini della Procura di Piacenza si sono concentrate su un lungo arco di tempo, dal 2014 al 2021. La tesi accusatoria è che gli indagati, in due distinte associazioni a delinquere tra loro contrapposte, avrebbero innalzato il livello del conflitto sociale, tramite manifestazioni, scioperi e picchetti nei diversi magazzini, per “condizionare le scelte industriali in ragione della maggiore rappresentatività della sigla”. Lo scopo di questa tensione sindacale sarebbe stato il controllo di un “importante flusso di denaro derivante dalle conciliazioni e dalla sottoscrizione delle tessere sindacali”.
Il luogo in cui si sono svolti i fatti contestati è il polo logistico di Piacenza, “uno snodo intermodale in continua evoluzione”. Crocevia tra Milano, Genova, Verona e Bologna, l’hub ospita diversi magazzini: TNT/FedEx, SDA, GLS, Leroy Merlin, Traconf, XPO Logistics.
Sullo sfondo di queste accuse resta il contesto sociale ed economico della zona di Piacenza e, in particolare, il funzionamento del comparto della logistica. Osservare le peculiarità del settore è essenziale per comprendere e contestualizzare un’inchiesta complessa, e non priva di vizi.
Il settore della logistica è da sempre essenziale per lo sviluppo economico: attraverso la gestione di infrastrutture e processi garantisce la movimentazione delle merci nelle diverse fasi industriali di approvvigionamento, produzione e distribuzione. Tuttavia, come sottolinato nell’aprile 2022 dalla relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta, a partire dagli anni Novanta si è assistito alla progressiva esternalizzazione della logistica, attraverso aziende terze. Questo sistema “ha generato una complessa catena di appalti e subforniture, la cui conseguenza principale è di scaricare i costi sugli attori più vulnerabili della filiera, ovvero le piccole cooperative ed imprese di facchinaggio”.
L’analisi parlamentare è impietosa: “in questo quadro prendono forma nel comparto, fenomeni di sfruttamento del lavoro in cui irregolarità contrattuali, contributive e salariali appaiono come «normale prassi» ed inoltre si delinea una certa predisposizione ad infiltrazioni di criminalità organizzata”.
La situazione di sfruttamento è endemica, connaturata al tipo di organizzazione. L’appalto, nella logistica e non solo, implica infatti un accordo commerciale tra due imprese. In un sistema in cui convivono multinazionali e cooperative medio-piccole, tuttavia, la frammentazione aumenta i livelli di concorrenza, con costante ribasso dei prezzi per poter ottenere le commesse. Sul piano del diritto del lavoro, questo comporta la costante ricattabilità dei lavoratori: a migliori condizioni di lavoro corrispondono maggiori costi per l’impresa, ma se i costi aumentano deve aumentare anche il prezzo dell’appalto e le aziende committenti finirebbero per scegliere proposte più basse, ignorando quanto la convefruttanienza commerciale corrisponda allo sfruttamento dei lavoratori. Le catene di appalti alimentano un mercato di braccia caratterizzato dall’intensità del lavoro, dal dumping contrattuale (ossia la scelta di applicare contratti collettivi meno tutelanti) e da impieghi precari, in particolare attraverso sequenze di contratti a termine.
La logistica è peraltro uno dei settori di maggior impiego delle società cooperative: secondo l’ultimo report Istat disponibile sulle cooperative italiane, un quinto degli addetti del settore “trasporto e magazzinaggio” sono impiegati in cooperativa. Pur essendo riconosciute dalla Costituzione come imprese con funzione sociale, “a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata”, le cooperative si rivelano invece spesso luoghi di sfruttamento, specie se combinate alle catene di appalti e subappalti. A questo deve aggiungersi l’età media tendenzialmente bassa delle cooperative attive nel settore di trasporto e magazzinaggio: più del 60% hanno meno di cinque anni di attività. Il dato può significare sia una tendenza al fallimento di queste imprese sia l’uso frautodolento dell’insolvenza, con intenti elusivi: in entrambi i casi, a pagare sono i lavoratori.
Le rivendicazioni sindacali: stabilizzazioni e clausole sociali
Come emerge anche dalle carte dell’inchiesta della Procura di Piacenza, le rivendicazioni sindacali vertono principalmente su assunzioni e stabilizzazioni dei lavoratori assunti con contratti a termine o con altre forme atipiche e precarie, oltre che sulla richiesta di applicare clausole sociali (ossia di mantenere gli stessi livelli retributivi e contrattuali) in caso di cambio d’appalto. La Procura sostiene che i sindacalisti indagati non si sarebbero interessati al generale miglioramento delle condizioni di lavoro, ma avrebbero garantito maggior tutela ai propri iscritti, danneggiando i lavoratori non affiliati e creando un sistema clientelare basato sulla sottoscrizione delle tessere.
Questo potere di condizionare l’organizzazione del lavoro, e dunque di garantire condizioni privilegiate ai facchini iscritti alla propria sigla, sarebbe derivato da una serie di blocchi e picchetti portati all’estremo, che avrebbero paralizzato i magazzini imponendo alla parte datoriale le condizioni del sindacato di base di volta in volta coinvolto. Il rischio di criminalizzare l’attività sindacale, con un’accusa simile, è piuttosto fondato.
I sindacati dei lavoratori sono organizzazioni che mettono in relazione contesti individuali e collettivi, pubblici e privati, attraverso pratiche, talora conflittuali, talora concertative, allo scopo di autotutelare i lavoratori. Dal momento che il contesto produttivo si caratterizza per una disparità nella distribuzione del potere, il sindacato si accredita come attore collettivo e, riunendo una pluralità di singoli lavoratori, tenta di aumentarne il potere contrattuale. Per fare questo, è necessario che il sindacato riesca a trovare un equilibrio tra le prassi conflittuali, come agitazioni e scioperi, e gli atteggiamenti conciliativi, per la negoziazione con la parte datoriale.
A questo va aggiunto il problema della sostenibilità economica. Il sindacato può reggersi in primo luogo sulle attività di patronato e assistenza: per i servizi in questione, offerti ai privati a tariffe agevolate, Stato, Inps e Inail riconoscono un compenso ai sindacati, tramite apposite convenzioni. In secondo luogo, i fondi sindacali arrivano dai lavoratori associati, sia attraverso la sottoscrizione diretta di tessere, sia indirettamente tramite i contributi sindacali, trattenuti dalle buste paga dei dipendenti e quindi versati dai datori di lavoro nelle casse del sindacato prescelto dal lavoratore.
Il diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per le organizzazioni sindacali all’interno dei luoghi di lavoro è riconosciuto dallo Statuto dei lavoratori, purché questa attività non pregiudichi il normale svolgimento dell’attività aziendale. Questa attività di proselitismo e di affiliazione rappresenta una fonte naturale di finanziamento del sindacato e, nelle pagine dell’inchiesta, viene enfatizzata come fonte di lucro per gli indagati, insieme ai proventi che deriverebbero dall’assistenza nelle conciliazioni.
Le conciliazioni in sede sindacale e le richieste di contributo
Una conciliazione è la risoluzione di una controversia tramite un accordo, che può essere giudiziale (quando il confronto avviene in causa e viene quindi certificato da un giudice) o stragiudiziale. Siccome molto spesso l’accordo riguarda anche rinunce di diritti da parte del lavoratore, la conciliazione stragiudiziale deve avvenire in una sede protetta, affinché si certifichi la legittimità dell’accordo, ossia che nessuna delle due parti (in particolare la più debole) abbia ceduto diritti indisponibili. La conciliazione avviene quindi o davanti all’apposita commissione istituita presso la Direzione Territoriale del Lavoro (art. 410 codice di procedura penale) o “presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative” (art. 412-ter cpc).
La conciliazione è una delle attività di negoziazione che i delegati intraprendono nell’interesse di uno o di più lavoratori, talora assistendo come rappresentanti sindacali, talora offrendo la sede e le competenze per la certificazione dell’accordo.
Il diritto di sciopero e i suoi limiti
Attuare forme di agitazione sindacale per portare avanti le proprie rivendicazioni e (cercare di) ottenere migliori condizioni non è proprio l’obiettivo dello sciopero? In effetti sì, ma il diritto di sciopero non è assoluto.
Lo sciopero è una tipica azione di lotta sindacale, che consiste nell’astensione dal lavoro. Questo comporta che, dal momento che il lavoratore non presta servizio come previsto dal suo contratto, è sospeso anche il suo diritto alla retribuzione per le ore scioperate. Al di là di questo, non ci possono essere sanzioni per i lavoratori che scioperano: infatti, in virtù dell’articolo 40 della Costituzione, lo sciopero è un diritto. Non è una dichiarazione scontata: sotto il regime fascista (ma anche nella fase liberale precedente al Codice Zanardelli del 1889) lo sciopero era reato. Nel codice penale ancora vigente, promulgato nel 1931, tuttora sopravvivono specifiche figure di reato per punire diversi tipi di sciopero: in assenza di esplicita abrogazione, è stata la Consulta, in più occasioni, a dichiarare incostituzionali alcune di queste norme o a indicarne l’interpretazione costituzionalmente conforme. Così, nonostante la previsione di reati nel codice penale, sono legittimi sia gli scioperi politici (artt. 503-504 cp., su cui rispettivamente C.Cost. 290/1974 e C.Cost. 165/1983), sia lo sciopero di solidarietà (art. 505 cp, C.Cost. 123/1962).
Ma quali sono allora i limiti allo sciopero? In assenza di interventi normativi, si sono alternate diverse teorie improntate sulla definizione dello sciopero e sull’ingiustizia del danno inflitto all’impresa, fino a un’importante sentenza di Cassazione, la 711 del 1980. Con questa pronuncia si dichiarava legittima una forma anomala di sciopero, lo sciopero a singhiozzo, che consiste nell’astensione frequente dal lavoro per brevi periodi per incidere maggiormente sull’organizzazione del lavoro a fronte di un minor sacrificio retributivo per gli scioperanti. Nell’occasione, la Cassazione ragionò sulla differenza tra danno alla produttività e danno alla produzione: lo sciopero, anche nelle sue forme anomale, è legittimo finché non crea un danno alla produttività. L’azione dei lavoratori non deve insomma pregiudicare la possibilità per l’imprenditore di continuare a svolgere la sua attività produttiva. Resta però pienamente legittimo lo sciopero che crea un danno, anche ingente, alla produzione, ossia che impedisce di ricavare un risultato economico, un profitto per l’azienda, nel periodo di astensione dal lavoro. Resta ovviamente escluso dalla legittimità lo sciopero attuato con violenza o minaccia, che sono tuttavia comportamenti illeciti anche al di fuori della dialettica sindacale. Ma è proprio questa una delle accuse mosse dagli inquirenti ai sindacalisti SI COBAS e USB.
Le accuse della Procura di Piacenza
Nelle quasi trecentocinquanta pagine dell’ordinanza per l’applicazione delle misure cautelari, gli inquirenti citano sessantadue casi di picchetti, scioperi o manifestazioni, avvenuti tra il 2016 e il 2021. Per ognuno di questi episodi, diversi lavoratori e sindacalisti (in un caso figura anche Aboubakar Soumahoro, all’epoca USB) sono accusati di reati come violenza privata, interruzione di pubblico servizio, resistenza a pubblico ufficiale, sabotaggio, turbata libertà dell’industria e del commercio.
La descrizione dei fatti è scarna e schematica. Ricorre quasi sempre, nel racconto dei diversi picchetti, l’indicazione dell’elemento offensivo, ossia l’aver impedito l’accesso o l’uscita dei mezzi “con violenza - e nella specie formando una barriera umana”.
Oltre alla formazione di una barriera umana, o al rimanere seduti o comunque fermi davanti agli ingressi, o talora a occupare il piazzale dei magazzini con oggetti di vario genere, ci sono solo due casi in cui si fa riferimento a una violenza attiva. In un caso, il 20 febbraio 2021, un facchino che decide di entrare a lavorare viene apostrofato da uno degli indagati: oltre a insultarlo, gli urla “entra pure a lavorare tanto io non ti farò uscire”.
L’altro caso risale all’inizio di febbraio dello stesso anno, con l’invasione di una porzione di strada (art. 633 codice penale) e l’occupazione della sede stradale con oggetti per impedire il transito e l’accesso ai magazzini TNT. In quell’occasione, gli indagati (“in concorso morale e materiale tra loro e con decine di altri soggetti allo stato non identificati, tutti esponenti iscritti o comunque simpatizzanti del sindacato SI COBAS di Piacenza ovvero appartenenti ad organizzazioni politiche ‘antagoniste’”) fronteggiano le forze dell’ordine: si siedono sul manto stradale e lì rimangono, impedendo il passaggio dei mezzi e urlando slogan contro TNT e contro le forze dell’ordine (“apostrofandole più volte come ‘servi’”).
Arrivano le 22, l’ora del coprifuoco anticovid, ragion per cui l’ufficiale si avvicina al picchetto e ordina lo scioglimento della riunione. I manifestanti non obbediscono. La polizia lancia lacrimogeni. La folla arretra, altri si disperdono nei campi circostanti, da cui poco dopo vengono lanciati sassi e bottiglie di plastica e di vetro. Ecco quindi che, ai reati di invasioni di terreni e resistenza a pubblico ufficiale, la Procura aggiunge anche quello di lesioni personali: tre diversi agenti hanno infatti riportato, rispettivamente, una “ferita lacero contusa al labbro inferiore” (2 giorni di prognosi), una “contusione ed abrasione tibia destra” (3 giorni di prognosi), una “contusione alla spalla” (3 giorni di prognosi).
Torniamo ai restanti sessanta casi, in cui lavoratori e sindacalisti (lavoratori strumentalizzati dagli indagati, secondo l’accusa) si sono limitati a formare una barriera umana, o, in qualche altro caso, a usare il blocco di emergenza dei macchinari o a salire sul tetto. Questi comportamenti possono qualificarsi come violenza privata? Saranno i giudici a decidere, valutando in concreto i comportamenti descritti, ma la conferma dell’ipotesi accusatoria non è così scontata.
Sul reato di violenza privata, che punisce “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa”, la giurisprudenza si confronta da tempo, oscillando tra due estremi. Un orientamento valorizza il fine di costrizione, allargando la nozione fino a comprendervi qualsiasi condotta che provochi un’imposizione di volontà, tralasciando di fatto il requisito dell’uso di violenza e minaccia. L’orientamento opposto qualifica invece come violenza privata solo atti che reprimono la volontà altrui per mezzo dell’applicazione (o della minaccia di applicazione) di una forza fisica contro persone o cose.
Di recente, peraltro proprio in processi intentati in occasione di manifestazioni Si Cobas, è stata esclusa la sussistenza del reato di cui all’art. 610 cp in caso di picchetti. Con una sentenza del 2019, il Tribunale di Brescia ha assolto gli imputati: secondo il giudice, non può qualificarsi come violenza privata il comportamento “meramente ostruzionistico” di manifestanti che si siedono a terra e impediscono passivamente il transito dei mezzi, senza mettere in atto violenza o minaccia contro le persone. Al Tribunale di Modena c’è stata inoltre l’archiviazione della posizione di quarantadue lavoratori e due sindacalisti di base: in quel caso il GIP aveva riconosciuto lecito il picchetto, in quanto esercizio del diritto di sciopero.
L’associazione a delinquere e i fini di lucro
Picchetti, blocchi stradali, riunioni non autorizzate non sono però valutati autonomamente dalla Procura di Piacenza, ma sono considerati tra loro in relazione. L’ipotesi accusatoria più grave è infatti il reato di cui all’articolo 416 cp, ossia l’associazione a delinquere. Tale associazione “risulta finalizzata al compimento di una serie indeterminata di reati, dalla violenza privata all’interruzione di pubblico servizio, fino alla resistenza a pubblico ufficiale, tutti funzionali al raggiungimento dello scopo illecito perseguito dai membri del sodalizio, ovvero il consolidamento di posizioni di potere in un determinato settore della logistica nell’ambito del territorio della provincia di Piacenza”.
Per un’associazione a delinquere basta la presenza di una struttura organizzativa (che può anche essere costituita per fini leciti) e il suo utilizzo con il fine di commettere dei delitti. Al netto di quanto già visto per fatti e accuse relativi a picchetti e manifestazioni, la Procura di Piacenza aggiunge un’attribuzione: definisce lo “scopo illecito perseguito dai membri del sodalizio” nel “consolidamento di posizioni di potere”. Ma uno scopo simile è davvero illecito? E merita repressione penale?
Certo anche lo scopo potrebbe essere rilevante se riguardasse un lucro illecito, come in effetti si intravede dalle affermazioni di alcune pagine dell’inchiesta. L’ipotesi accusatoria della Procura di Piacenza è che alcuni dei sindacalisti indagati avrebbero lucrato sulle conciliazioni, richiedendo ai datori di lavoro una percentuale - il 5% o il 10%, a seconda dei casi - sull’importo totale della buonuscita ottenuta da ciascun lavoratore. A questo, in altri casi, si sarebbe aggiunta la quota di 150 euro richiesta a ogni lavoratore poco prima della firma della conciliazione, quale contributo alla “cassa di resistenza”, dedicata alle spese processuali sostenute da uno dei sindacalisti ora indagati (per un processo da cui peraltro uscì assolto, e di cui si dirà più avanti).
Secondo gli inquirenti, la possibilità di ottenere denaro dalle conciliazioni, e la disponibilità della parte datoriale ad accettare le condizioni poste dai sindacalisti, sarebbe direttamente legata al livello di tensione, innalzato tramite le iniziative di protesta delle sigle di base. In altri termini, i datori di lavoro sarebbero indotti ad accettare gli accordi con i lavoratori assistiti dal sindacato per non vedersi bloccare i magazzini tramite scioperi e picchetti.
Oltre al denaro relativo alle conciliazioni, gli inquirenti si soffermano su prelievi e versamenti destinati ad alcuni dei sindacalisti, attraverso un flusso di denaro che, dalle casse dell’organizzazione sindacale, passa ai conti correnti di alcuni dei soggetti indagati. Se le ipotesi accusatorie sulle quote per le conciliazioni fossero confermate dai fatti, potrebbero eventualmente configurarsi illeciti civili o tributari, o perfino, qualora emergessero presupposti di violenza o minaccia, il reato di estorsione (art. 629 codice penale). Per quanto riguarda invece prelievi e rimborsi ad alcuni singoli sindacalisti, qualora fosse dimostrata la natura illecita di questi flussi di denaro si potrebbe configurare il reato di appropriazione indebita (art. 646 codice penale).
Tuttavia, pur descrivendo un contesto simile, tra i capi di imputazione mancano questi due reati: lo scopo dell’associazione a delinquere sarebbe solo l’aumento della tensione sindacale, mentre mancano accuse formalizzate relative al profitto, nonostante più di cinquanta pagine siano dedicate alla descrizione delle ipotesi di approfittamento finanziario, con approfondimenti patrimoniali e sui conti correnti privati degli indagati. Inoltre, il riferimento al lucro è piuttosto disinvolto tra le pagine dell’ordinanza: comprende infatti sia la presunta appropriazione di somme di denaro da parte di qualche delegato operante sui conti correnti del sindacato, sia la quota percentuale che si ritiene fosse richiesta su ciascuna conciliazione, sia infine il lucro lecito derivante da tessere, affiliazioni e contributi da trattenute sindacali. Ma quest’ultima fonte di finanziamento è perfettamente legittima e rientra anzi nel diritto di svolgere attività di proselitismo sindacale e di raccogliere contributi sindacali, anche all’interno dello stabilimento, previsto dallo Statuto dei lavoratori.
Il tono delle accuse: tra vittimismo padronale e distorsioni dialettiche
A questo riferimento generico a profitti e ricchezze, alla confusione tra lucro lecito e illecito, si aggiungono anche giudizi e allusioni dal taglio moraleggiante. Emblematica sul punto è la citazione, nei brogliacci delle intercettazioni dell’aprile 2019 tra R.M. e altri sindacalisti USB, di frasi simili (nella citazione abbiamo sostituito nomi e cognomi con le iniziali):
16/04/2019 ore 18.33 [...] risponde di andare avanti in modo da colpire l’azienda, poi parlano della casa in montagna di R.M.
16/04/2019 ore 18.33 - P.C. chiama R.M. e discutono su dove andare a mangiare domani se a Marsaglia o a Ferriere. (mentre i lavoratori sono sul tetto)
17/04/2019 ore 9.16 - U.F. chiama R.M. per chiedergli indicazioni per arrivare a casa sua in montagna
19/04/2019 ore 14.06 - I.A. dice a R.M. di raggiungerlo al ristorante a Montale - R.M. dice che deve partire per la montagna
23/04/2019 ore 15.40 - R.M. chiama F.E. e gli dice che sono alla carrozza (Ustaria La Carrozza) e lo stanno aspettando.
Mentre per i brogliacci di altre telefonate le informazioni fuori contesto non sono riportate, in questo caso i riassunti degli inquirenti sono particolarmente dettagliati e vengono anche enfatizzati dalla chiosa nelle ultime pagine dell’ordinanza, in cui si descrivono i lavoratori saliti sul tetto della GLS come costretti a restare in presidio, strumentalizzati dai sindacalisti, “mentre loro organizzavano mangiate in montagna a casa del R.M.”.
A questa attenzione al contesto, quando funzionale alla stigmatizzazione di comportamenti (penalmente irrilevanti) dei sindacalisti, corrisponde una versione datoriale riportata acriticamente. I titolari di magazzini, aziende e cooperative della logistica piacentina, le cui testimonianze sono citate nelle carte della Procura, riportano stati di stress e ansia, alcuni dichiarano di aver dovuto cambiare mestiere, altri si lamentano di aver dovuto accettare assemblee sindacali in orario di lavoro - diritto, quest’ultimo, sancito dallo Statuto dei lavoratori.
D’altra parte, nell’incriminare i picchetti, il contesto è talora citato per i singoli episodi ma omesso nelle valutazioni generali. Le mobilitazioni sono descritte come pretestuose e funzionali al consolidamento del potere delle diverse sigle sindacali. Analizzando meglio i fatti descritti, come anche alcune testimonianze datoriali, si possono però trovare manifestazioni per richiedere l’ottemperanza di sentenze che ordinano la riassunzione di facchini illegittimamente licenziati, o proteste contro le sanzioni disciplinari per aver partecipato a uno sciopero (in quanto diritto lo sciopero non può essere sanzionato dal datore di lavoro).
Si tratta di informazioni che delineano un contesto con episodi accertati di diritti lesi. Tuttavia ciò è del tutto tralasciato nel valutare le motivazioni che possono aver spinto i lavoratori ad affiliarsi all’una o all’altra sigla sindacale, o a partecipare alle iniziative di protesta: in un contesto simile, davvero i facchini sono pedine nelle mani dei loro delegati sindacali? Non c’è una qualche probabilità che la partecipazione alle rivendicazioni dipenda da un genuino bisogno di autotutela dei lavoratori?
Anche nel raccontare la dialettica conflittuale si riscontra una certa distorsione di senso. A pagina 259 dell’ordinanza si legge: “In data 01/12/2019 gli indagati sottoscrivono il seguente volantino intimidatorio allo scopo di costringere la parte datoriale a sedere ad un tavolo di confronto”. Il “volantino” (che in realtà è una formale comunicazione al committente) non è più minaccioso di una qualunque richiesta di apertura di un tavolo di confronto e di una trattativa sindacale. Davvero la normale dialettica sindacale può essere dipinta come intimidatoria?
Le incriminazione con il TULPS: dalle riunioni non autorizzate all’indagine contro chi “ha preso la parola”
A subire intimidazioni sembrano piuttosto alcuni sindacalisti e lavoratori, non coinvolti nell’applicazione delle misure cautelari, ma comunque indagati nell’inchiesta sulla base di norme contenute nel Testo unico di pubblica sicurezza (TULPS). Il TULPS è utilizzato nell’inchiesta sia per contestare ai promotori dei picchetti il mancato adempimento dei doveri di preavviso di manifestazioni in luogo pubblico, sia per incriminare chi abbia preso la parola a queste iniziative.
Quanto alla prima ipotesi, in molti dei fatti contestati, oltre ai reati di violenza privata, di interruzione di pubblico servizio o di turbata libertà dell’industria e del commercio, si accusano gli organizzatori del mancato preavviso all’autorità di pubblica sicurezza dello svolgimento della manifestazione. L’accusa è paradossale, oltre che infondata.
Da un lato è infatti contraddittoria: se i fatti contestati sono reati, non possono sottostare alle regole sulle manifestazioni lecite, salvo non ammettere, al contempo, che sia obbligatorio, in caso di reato commesso da più persone in luogo pubblico, darne comunicazione alla Questura con almeno tre giorni di anticipo.
L’accusa è anche infondata perché la tutela riconosciuta al diritto di sciopero comprende anche le azioni collaterali, come gli assembramenti, l’affissione di manifesti, la formazione di cortei interni all’azienda e le altre attività volte a persuadere i lavoratori a partecipare allo sciopero o il resto della popolazione a conoscerne le ragioni. Nel caso in cui lo sciopero avvenisse a sorpresa (salvo che per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, infatti, il preavviso al datore di lavoro è una cortesia, non un obbligo), il preavviso all’autorità pubblica ne frustrerebbe l’effetto.
Tra le accuse della Procura di Piacenza ci sono anche quelle a tre lavoratori che non figurano tra gli indagati principali. Ciascuno di loro è accusato del reato di cui all’articolo 18, comma 3, del TULPS “in qualità di persona che ha preso la parola nella manifestazione” organizzata con omissione del preavviso al Questore.
In occasione di uno di questi sit-in, il 9 maggio 2018, viene inoltre addebitata un’aggravante inapplicabile. Nel contestare il reato di resistenza a pubblico ufficiale infatti si contesta anche l’aggravante di cui all’art. 339 (comma 1 codice penale), perché - si legge - “la violenza era commessa in occasione di una manifestazione in luogo pubblico”. Questa circostanza però è stata introdotta dal Decreto Salvini, in vigore dal 15 giugno 2019, più di un anno dopo lo svolgimento dei fatti contestati. Applicare una norma penalistica a fatti precedenti alla sua entrata in vigore viola uno dei principi base del diritto penale, quello dell’irretroattività (ossia il valore non retroattivo di una legge).
I rischi della repressione penale sul diritto sindacale
Dal momento che il diritto penale incide sulla libertà personale degli individui, i suoi principi sono garantisti (almeno in teoria) e rispondono a un motto latino, in dubio pro reo: ossia nell’incertezza si decide a favore dell’imputato, perché è meglio un colpevole in libertà che un innocente in carcere. Nel depurare le norme penali comunque varate in epoca fascista, si è inoltre tentato di concentrare il giudizio sui fatti: in uno Stato laico, si punisce il reato, non il peccato, e ci si concentra sui fatti, non sulle persone o sulle opinioni.
Le carte dell’inchiesta della Procura di Piacenza si aprono e si chiudono con una tesi, ma invece di presentare obiettivamente i fatti contestati, gli inquirenti alludono, suggeriscono interpretazioni, omettono questioni.
Omissioni e allusioni in vari punti rischiano di distorcere la valutazione sulla pericolosità dei soggetti: è il caso di A.M., definito come il destinatario dei fondi raccolti con la citata “cassa di resistenza”, per sostenere le spese del processo in cui era imputato. Quel processo è citato anche nelle carte dell’inchiesta: il P.M. scrive testualmente che il sindacalista era
a processo per estorsione commessa nel contesto del suo ruolo sindacale. Lo stesso è stato sottoposto a misura cautelare, venendo a pronunciarsi su di essa anche la Corte di Cassazione, II Sezione, con la sentenza n. 30832/2017 [...], che dichiarava inammissibile il ricorso dell’indagato.
Ma quel processo si è concluso con l’assoluzione di A.M. per non aver commesso il fatto, e anzi, nel corso del dibattimento, sono emersi comportamenti inquietanti da parte di chi svolse le indagini. Tra questi, all’indomani dell’arresto del sindacalista, il vantarsi al telefono con il patron dell’impresa coinvolta: "abbiamo fatto un bingo che tu non hai neanche un'idea, sono contento per voi innanzitutto, voglio dire siete usciti da un incubo, e per noi perché abbiamo fatto una cosa pazzesca".
Invece, nell’ordinanza della Procura la frase del PM lascia intendere che il sindacalista sia imputato per estorsione e sottoposto a misura cautelare, per la quale la Cassazione ha perfino respinto il ricorso. Ma mentre la Procura formalizzava le accuse e riportava questa versione del processo, il processo era già concluso: A.M. fu assolto nel maggio 2019, l’ordinanza in cui si riportano le informazioni sull’accusa senza alcuna menzione dell’esito nel merito del processo è del 2022.
Il procedimento culminato con l’assoluzione di uno dei sindacalisti attualmente indagati non è peraltro l’unico. Come scrive D’Agostino su Jacobin Italia, nella vicina provincia di Modena, tra il 2018 e il 2020, sono stati aperti 481 procedimenti penali a carico di lavoratrici e lavoratori per fatti simili a quelli contestati dalla Procura di Piacenza. Non si tratta solo di denunce, ma anche di provvedimenti di polizia e misure di prevenzione, che non richiedono l’intervento di garanzia di un giudice. Ad esempio, una persona può essere destinataria di un “avviso orale” (che in realtà è scritto) con cui il Questore ammonisce il soggetto, considerato socialmente pericoloso sulla base di indizi di polizia, e lo invita a tenere una condotta conforme alla legge, prospettandogli in caso contrario l’inasprimento di misure di prevenzione a suo carico (come il foglio di via obbligatorio).
Si tratta insomma di forme di repressione, spesso attuate direttamente dalle forze dell’ordine, che mettono in atto uno sforzo di sorveglianza pubblica nei confronti di persone considerate socialmente pericolose. Questi atti comportano, a carico dell’individuo, “pregiudizi di polizia”, ossia dati che le forze dell’ordine raccolgono nel corso della loro attività di servizio e che restano registrati presso la banca dati del ministero dell’Interno (il CED, Centro di elaborazione dati).
Il giudice per le indagini preliminari, nel decidere per l’applicazione di misure cautelari per sindacalisti Usb e Si Cobas, si permette una precisazione, per rassicurare chi legge che i pregiudizi in questione sono solo, eventualmente, quelli di polizia:
La lettura dei risultati investigativi fornita dal Pm all’interno della propria richiesta non può essere tacciata di alcun tipo di ideologia o di intento repressivo: si è trattato, invece, di un’analisi profonda che è riuscita a ricondurre numerosi episodi, apparentemente sganciati tra di loro, a una comune matrice, ovvero l’affermazione di un sistema di potere, mediante il frequente ricorso al compimento di attività delittuose.
Ma che cos’è l’ideologia, e che cos’è l’intento repressivo? La repressione, in sé, non è altro che il potere pubblico di perseguire reati. Ed è senz’altro lecita - anzi, doverosa - quando i reati sussistono. E l’ideologia, a ben vedere, è sempre presente nel nostro modo di guardare alla legge e alla sua applicazione, di osservare un fatto e qualificarlo come reato, di cristallizzare un’azione ignorandone il contesto. In un sistema come quello italiano, in cui le promesse e i diritti costituzionali si devono attuare in un contesto caratterizzato anche da norme di epoca, e spesso di stampo, fascista, l’ideologia consiste nella scelta di collegare una pluralità di fatti per trovare una matrice e confermare la propria tesi accusatoria. O, ancora, è ideologia porre sullo stesso piano la libertà d’impresa, con l’interesse economico al profitto, e il diritto al lavoro, e al lavoro dignitoso, che spesso si raggiunge attraverso la conflittualità sindacale e attraverso la negoziazione, al conflitto strettamente legata. C’è ideologia nella scelta di assegnare sforzi d’indagine a certi fatti invece che ad altri. L’ideologia non è altro che uno schema interpretativo della realtà: i magistrati non ne sono esenti.
In attesa di capire se le accuse reggeranno in giudizio, è il caso di interrogarsi sull’effetto che inchieste del genere possono avere sull’attività sindacale, nella logistica e non solo.
Nel nostro ordinamento, l’attività sindacale è particolarmente tutelata per un motivo: perché è una forma di riequilibrio di una disparità sociale ed economica. Per questo è vietato sanzionare un dipendente per aver partecipato a uno sciopero, per questo sono previste norme contro la discriminazione su base sindacale, per questo è obbligatoria la consultazione delle rappresentanze sindacali dei lavoratori in particolari situazioni aziendali, per questo è perfino vietato assumere temporaneamente lavoratori per sostituire chi sciopera: perché l’azione sindacale e lo sciopero sono una forma di autotutela dei diritti.
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Il problema di inchieste del genere non è la contestazione di eventuali fatti di reato, ma l’enormità del castello accusatorio e l’assenza di qualsivoglia contemperamento tra legittime rivendicazioni dei lavoratori ed eventuali comportamenti illeciti commessi. Se l’azione sindacale è tutelata nel diritto del lavoro, la repressione penale così congegnata, con la pervasività del controllo poliziesco e l’allargamento dei confini delle accuse, ne frustra di fatto la tutela, giuridica e sociale.
L’effetto sui diritti può essere drammatico. Un esempio? La manodopera impiegata nei magazzini della logistica, come gran parte degli indagati dalla Procura di Piacenza, è straniera: i pregiudizi di polizia, le misure di prevenzione, anche se non confermate in giudizio, rischiano di diventare una forma di ricatto per il rinnovo del permesso di soggiorno. Non solo. Quello nella logistica, come si è visto, è un lavoro povero, precario: quanti dei facchini coinvolti potrebbero pagarsi da soli l’assistenza legale di un avvocato? Quanti lavoratori, a fronte di rischi simili, si rassegnerebbero al ritorno alla propria vita privata, all’adempimento della prestazione lavorativa senza chiedere nemmeno diritti di base, accettando condizioni di sfruttamento sul luogo di lavoro?
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