La settimana lavorativa corta: introdotta in Spagna, sperimentata in altri paesi. Quando in Italia?
8 min letturaRidurre l’orario di lavoro a parità di salario. Dopo che il Movimento 5 Stelle nel suo programma elettorale ha proposto questa sperimentazione, “soprattutto nei settori a più alta intensità tecnologica”, il dibattito sulla cosiddetta “settimana lavorativa corta” si è riaperto. Giuseppe Conte ha poi precisato che si tratterà di un programma su base volontaria, con l’obiettivo di ridurre di quattro ore le tradizionali 40 settimanali. Il tema è presente anche nei programmi di altri partiti, come il Partito Democratico, che propone di promuovere “progetti di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, legati a una più razionale organizzazione dell’attività di impresa e a un aumento della produttività”, e in quello di Sinistra Italiana e Verdi, dove si parla di un “fondo per incentivare le imprese a sperimentare giornate e settimane di lavoro più brevi, senza intaccare il reddito dei lavoratori, tanto più urgente in quei settori, come l’automotive, che stanno attraversando una fase di profonda trasformazione”.
È un tema di cui si discute da tempo. Inizialmente la proposta era legata a un ideale aumento dell’occupazione, secondo il vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti”. Ma una recente ricerca di Irvapp, l’Istituto per la ricerca valutativa sulle politiche pubbliche, ha dimostrato che, nei luoghi dove è stata sperimentata, la settimana lavorativa corta non ha avuto alcun effetto sull’occupazione: dalle evidenze riscontrate, non crea né distrugge posti di lavoro.
Quello che invece può fare è aumentare il benessere del lavoratore, attraverso un miglior equilibrio tra vita lavorativa e privata, necessità diventata ancora più urgente dopo la pandemia. Gli argomenti a favore della misura parlano anche di una riduzione dell’assenteismo e della capacità di attrarre lavoratori più qualificati, che cercano condizioni di lavoro più flessibili. Lavorare meno ore permette anche di aumentare la partecipazione al lavoro delle donne, grazie a una suddivisione più bilanciata del carico di cura, e di abbassare la produzione di emissioni inquinanti, portando un beneficio all’ambiente: se lavori meno, hai un costo energetico minore e hai più tempo per portare avanti uno stile di vita più sostenibile, ad esempio cucinando e non acquistando cibi pronti e confezionati nella plastica.
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Infine, la riduzione dell’orario di lavoro potrebbe portare a un miglioramento della produttività, ossia della quantità di ricchezza che viene prodotta in un dato lasso di tempo. Valutando questa variabile, infatti, l’Italia è ancora indietro rispetto agli altri paesi europei: secondo i dati Ocse, oggi un lavoratore italiano produce in media una ricchezza annuale in termini di PIL pari a 70.894 euro, contro i quasi 80mila in Germania e gli 86mila in Francia. Anche il trend di crescita è piuttosto lento: rispetto a vent’anni fa la produttività del lavoro in Italia è cresciuta del 31%, contro il 50% della Francia, il 51% della Germania e il 55% della Spagna.
Parallelamente, se si guardano le statistiche sul numero di ore lavorate, si vede che il nostro è uno dei paesi europei in cui si lavora di più in termini di tempo, anche se dal dopoguerra a oggi il dato è sceso in maniera significativa. L’Italia registra in media 1.668,5 ore lavorate da ogni lavoratore in un anno, contro le 1.349 della Germania, le 1.490 della Francia e le 1.641 della Spagna. In pratica, lavoriamo di più, ma in maniera meno produttiva.
I rischi della settimana corta
Tra gli argomenti utilizzati da chi è critico o contrario alla riduzione dell’orario di lavoro, invece, c’è in primis il fatto che concentrare il lavoro in meno ore rischia di sovraccaricare il lavoratore, causando un maggiore stress. Inoltre, se la riduzione dell’orario venisse introdotta a parità di stipendio, potrebbe aumentare il costo orario del lavoro all’azienda: alcune imprese sarebbero costrette ad assumere più dipendenti per compensare le ore lavorate in meno, dovendo far fronte a spese maggiori. Un esempio è quello di Göteborg, in Svezia, dove tra il 2015 e il 2017 le infermiere della casa di cura per anziani Svartedalens lavorarono per sei ore al giorno anziché otto, allo stesso salario: le infermiere dichiararono che la qualità della loro vita era migliorata, ma il modello venne giudicato non sostenibile sul piano economico, visto che l’assunzione di altre lavoratrici aveva alzato i costi del servizio. In generale, si parla molto della difficoltà di applicare la norma a tutte quelle professioni per cui si lavora su turni, come operatori sanitari ma anche commessi o dipendenti della ristorazione.
Un punto importante è quello di garantire i diritti del lavoratore che sceglie la settimana corta: bisognerebbe vigilare per verificare che le persone svolgano la loro effettiva giornata lavorativa e che non lavorino in orario extra, senza rispettare le normative che regolano gli straordinari. In questo senso, è necessario anche controllare le frodi che si verificano nei contratti part-time: il rischio è che un lavoratore venga assunto per lavorare quattro ore al giorno e poi finisca per lavorarne molte di più. Infine, la riduzione dell’orario non deve comportare avere turni di lavoro irregolari e in continuo cambiamento, che finirebbero per avere un impatto negativo sulla vita delle persone.
Le sperimentazioni in altri paesi
La settimana corta è già stata sperimentata in diversi paesi europei. La Francia ha una legislazione sul tempo pieno a 35 ore settimanali. La riforma, molto discussa, è stata introdotta in due fasi alla fine degli anni Novanta: nel 1998 con la legge Aubry I, che l’ha inserita su base volontaria, e nel 2000 con la legge Aubry II, che ha generalizzato per tutte le aziende una serie di agevolazioni fiscali, lasciando alle imprese stesse la libertà di negoziare gli aspetti applicativi e congelando i salari. Nel 2002, le 35 ore sono diventate obbligo di legge.
In Islanda la prima sperimentazione è avvenuta tra il 2014 e il 2019 nella capitale, coinvolgendo 2.500 operatori di assistenza all’infanzia e servizi, e personale delle case di cura: l’orario di lavoro è stato ridotto a 35 o 36 ore settimanali, senza diminuire la retribuzione. I risultati sono stati molto positivi: oltre a un maggior benessere dei lavoratori, sembra che i servizi forniti non ne abbiano risentito e che anzi ci sia stata una maggior produttività. La seconda sperimentazione, svolta tra il 2017 e il 2021, ha visto interessati i dipendenti pubblici di più agenzie governative nazionali.
Lo scorso anno è stata la volta della Scozia, grazie a un progetto pilota del governo che ha introdotto per la prima volta la settimana lavorativa di quattro giorni. Le istituzioni scozzesi hanno scelto di sostenere tutte quelle aziende disposte a sperimentare una riduzione del 20% dell’orario di lavoro dei loro dipendenti. E in tutto il Regno Unito, quest’anno una trentina di aziende ridurranno i giorni di lavoro da cinque a quattro, grazie a un progetto pilota coordinato dall’organizzazione no profit 4 Day Week Global.
Infine ci ha provato il Belgio, che a inizio 2022 ha istituito la settimana lavorativa corta, con una differenza: le ore lavorate restano le stesse e vengono concentrate in quattro giorni invece che in cinque. I dipendenti hanno la possibilità di cambiare la distribuzione del monte ore lavorativo anche ogni settimana: in questo modo possono usufruire della settimana corta al bisogno e tornare alla settimana lavorativa tradizionale quando vogliono.
Ma anche fuori dall’Europa ci sono sperimentazioni guidate sia dai governi, sia da imprese particolarmente all’avanguardia: gli Emirati Arabi hanno introdotto la settimana lavorativa a quattro giorni e mezzo, dal lunedì al giovedì, con il venerdì mattina. In Giappone, nel 2019, Microsoft ha concesso un giorno libero in più a settimana ai propri dipendenti, con il risultato che la produttività è aumentata del 40%. E in Nuova Zelanda anche Unilever da gennaio 2021 ha sperimentato la settimana corta, riducendo l’orario lavorativo dell’80%.
L’esempio della Spagna e della regione autonoma di Valencia
Anche in Spagna tra pochi mesi partirà un progetto pilota della durata di tre anni, a cui sta guardando con interesse anche l’Italia. Il programma permetterà alle imprese che aderiranno di passare da 39 ore lavorative a 32 settimanali, mantenendo invariati gli stipendi. L’esperimento dura tre anni e prevede un finanziamento di 10 milioni di euro. Nel frattempo, la Comunidad Valenciana ha anticipato il governo di Madrid e ha varato un piano regionale di sostegno alla settimana lavorativa corta, mettendo a disposizione un milione di euro, incrementabile a seconda del numero di domande che arriveranno.
“C’è una differenza sostanziale tra il programma di Valencia e quello nazionale: il primo è orientato al miglioramento delle condizioni di lavoro, il secondo mira invece all’innovazione aziendale in termini di processi tecnologici”, spiega a Valigia Blu Joan Sanchis, professore di economia applicata all’università di Valencia e autore e autore del libro Quattro giorni. Lavorare meno per vivere in un mondo migliore (Sembra Llibres, 2022). “A livello nazionale, gli aiuti economici saranno vincolati a progetti di innovazione all’interno della struttura aziendale, mentre nella regione di Valencia si calcolerà l’incremento del costo orario per ciascun lavoratore che fa parte del programma, e si erogano aiuti pari a quel differenziale di costo”.
In pratica, se prima un lavoratore costava all’impresa mille euro per 40 ore, con la settimana lavorativa corta a parità di salario questa cifra aumenterà a mille euro per 32 ore, dunque il costo orario della manodopera crescerà. Questo incremento verrà integrato dai fondi regionali, che copriranno per il primo anno il totale dell’importo, per poi decrescere nei due anni successivi.
“L’idea alla base è che all’impresa non costi nulla provare”, afferma Sanchis, che è consigliere del Dipartimento di economia sostenibile della regione autonoma di Valencia, e si occupa direttamente del programma. “Successivamente, i fondi pubblici andranno a decrescere perché siamo convinti che le aziende saranno ripagate dall’aumento di produttività, che bilancerà l’aumento del costo orario del singolo lavoratore”.
Il bando è aperto alle imprese che vogliono aderire in forma volontaria, anche solo per un ramo di azienda e non per tutti i dipartimenti: c’è tempo fino al 30 settembre per inviare la domanda, dimostrando che la proposta garantisca la parità di genere e presentando anche un piano con misure ad hoc per migliorare la produttività. “La Spagna, come l’Italia, è un paese dove si lavora molte ore, ma la produttività rimane bassa”, racconta Sanchis. “Per invertire questa tendenza bisogna correggere le inefficienze e migliorare l’organizzazione aziendale attraverso diverse misure: alcune aziende stanno provando a farlo riducendo la durata delle riunioni, o utilizzando in maniera più efficace lo strumento della mail”.
L’innovazione non esiste però solo nel settore tecnologico o della creatività: anche alcuni ristoranti, bar e aziende di servizi stanno lavorando per ottimizzare i propri processi. Un esempio è la catena di ristoranti la Francachela, che fornisce un QRCode con cui i clienti non solo possono leggere il menu, ma anche fare direttamente la propria ordinazione, in modo che i camerieri debbano solo portare i piatti al tavolo. “Si tratta di creare una nuova cultura organizzativa del lavoro, che utilizzi le tecnologie in modo intelligente per creare una flessibilità che si adatti il più possibile alla vita di ciascuno”, conclude Sanchis. “Il lavoro non è più l’elemento portante dell’identità di ciascuno di noi: la pandemia ci ha insegnato che esistono anche altre sfere che troppo spesso abbiamo trascurato, e che invece hanno pari dignità. Per questo abbiamo bisogno di tempo, tempo che prima veniva dedicato solo alla propria professione. Ora abbiamo capito che un essere umano non è solo il mestiere che fa”.
Immagine in anteprima via Lifegate