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Le tensioni Serbia-Kosovo e perché la guerra resta improbabile, in un contesto di pace quasi impossibile

15 Dicembre 2022 8 min lettura

Le tensioni Serbia-Kosovo e perché la guerra resta improbabile, in un contesto di pace quasi impossibile

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I serbi kosovari rimuovono le barricate nel nord del Kosovo, dopo giorni che avevano fatto temere a una escalation delle tensioni

Aggiornamento 30 dicembre 2022: I serbi che vivono nel nord del Kosovo hanno iniziato a rimuovere le barricate che avevano allestito nei giorni scorsi in segno di protesta contro il governo kosovaro. Le crescenti tensioni avevano portato alcuni a temere un nuovo conflitto. L’accordo è stato raggiunto dopo il rilascio di un ex agente di polizia serbo kosovaro precedentemente arrestato dalla polizia kosovara: il caso era uno di quelli che avevano provocato le ultime proteste e l’ex agente di polizia è stato ora scarcerato e messo agli arresti domiciliari. 

Appena 72 ore prima Belgrado aveva annunciato di aver predisposto l’esercito «al massimo livello di preparazione al combattimento». Poi il presidente serbo, Alexsandar Vucic, ha detto che era stato dato il via libera allo smantellamento delle barricate. Il Kosovo ha riaperto il valico di Merdare, principale passaggio di frontiera tra i due paesi chiuso il giorno prima. L’Alto rappresentante Ue per la politica estera Josep Borrell, ha ringraziato i leader dei due paesi e ha parlato di «successo della diplomazia» e di «grande lavoro di squadra di UE, USA e NATO».

Barricate, agguati e bombe stordenti. Le tensioni in Kosovo tornano a far temere il peggio. Quel che sta succedendo, però, non è il preludio di una nuova guerra tra Belgrado e Pristina, bensì il frutto dell’intreccio della politica locale con una diplomazia internazionale da anni accomodata sugli allori dello status quo. Una combinazione di fattori che, per quanto renda inverosimile il conflitto, pone il Kosovo in un limbo infinito, ostaggio di escalation fabbricate e manipolate dalla politica. 

Cosa sta succedendo?

Nel weekend del 10 e 11 dicembre, il nord del Kosovo – dove si concentra circa metà dei 100mila serbo-kosovari – è stato nuovamente bloccato. Lunedì 12 dicembre, anche le scuole dei quattro Comuni a maggioranza serba sono rimaste chiuse. Come quest’estate, diversi camion sono stati posti di traverso sulle carreggiate che portano al confine (che la Serbia chiama “linea amministrativa”), mentre la polizia ha chiuso i varchi di frontiera: non si passa neanche a piedi. Le “barikade” sono arrivate in reazione all’arresto di Dejan Pantic, un ex poliziotto accusato di “attacchi terroristici”: avrebbe assaltato la commissione elettorale kosovara. Ma la tensione era palpabile da diversi giorni: nella notte di giovedì, un poliziotto di origine albanese era stato ferito lievemente con un’arma che ha sparato da un’auto con targa serba; infine, il 10 sera, una granata stordente è stata lanciata contro il convoglio EULEX, la missione dell’Unione Europea che supporta lo Stato di diritto in Kosovo. Un episodio subito condannato dalle istituzioni europee, tra cui l’alto rappresentante per la politica estera UE, Josep Borrell, che ha chiesto anche la rimozione delle barricate dei serbo-kosovari.

A rendere esplosiva la situazione in quella che Belgrado continua a considerare una propria provincia autonoma, la possibilità che vi ritorni l’esercito serbo. O almeno questa è la richiesta formale indirizzata dal governo serbo al comando KFOR, la missione NATO di sicurezza a cui partecipano anche i carabinieri. Nonostante sia altamente improbabile che la KFOR accolga la richiesta di far tornare 1.000 tra poliziotti e soldati serbi, questa serve soprattutto alla propaganda interna del presidente della Serbia Aleksandar Vucic. Le escalation in Kosovo sono infatti uno dei migliori pretesti per ergersi a difensore di interessi nazionali minacciati dal governo di Pristina, che a sua volta ha l’esclusivo interesse dell’esercizio di sovranità, come accaduto nella cosiddetta “guerra della targhe”, risolta – almeno temporaneamente – solo poche settimane fa.

Leggi anche >> La ‘guerra delle targhe tra Serbia e Kosovo’ e la fragile stabilità dei Balcani sempre più in pericolo

Politica locale con eco internazionale

La questione delle targhe era solo uno dei dossier ancora aperti tra Belgrado e Pristina. C’era poco da illudersi che il raggiungimento di un accordo – su cui la diplomazia internazionale ha lavorato nottetempo per settimane – potesse spianare la strada a una stabilità durevole. L’attuale crisi si pone in continuità con la guerra delle targhe e genera in parte dai suoi strascichi. Il suddetto episodio dell’ex poliziotto accusato di aver attaccato la commissione elettorale lo dimostra bene. Dejan Pantic è infatti uno dei circa 500 serbi della polizia kosovara che lo scorso 5 novembre ha rassegnato le dimissioni in protesta contro il governo di Pristina che avrebbe presto iniziato a multare i veicoli con targa serba. A dimettersi furono tutti quei serbi che partecipano alle istituzioni kosovare, quindi anche giudici, ministri, deputati e sindaci. Tutti in quota “Srpska lista” (SL), il principale partito dei serbi del Kosovo pilotato da Belgrado. Al momento quindi nel nord del Kosovo non ci sono poliziotti, mentre i seggi dei sindaci sono vacanti.

Gli incidenti contestati a Pantic sono avvenuti durante i preparativi delle elezioni, necessarie per sostituire i primi cittadini dimissionari. Per i serbi del nord, però, il voto rappresenta un’ulteriore affermazione dello Stato kosovaro e delle sue istituzioni, di cui la SL adesso promuove un totale boicottaggio. La posticipazione delle elezioni, che la presidente kosovara Vjosa Osmani ha confermato per il prossimo aprile, è quindi servita per calmare gli animi.

Le dimissioni dei serbi dalle istituzioni del Kosovo sono un passaggio fondamentale del complesso puzzle che incastra politica locale e diplomazia internazionale. La mossa di ritirare i serbi va infatti letta come una sorta di ricatto diplomatico da parte di Vucic per poter proseguire nei negoziati mediati da UE e USA. Il presidente serbo vuole che Pristina rispetti gli accordi di Bruxelles del 2013, che prevedono la creazione di una Associazione dei Comuni a maggioranza serba, sin qui rimasta lettera morta. La contromossa di Kurti ha però spiazzato Vucic, mandandolo su tutte le furie. In sostituzione del dimissionario ministro delle Comunità, nonché presidente della SL, Goran Rakic, Kurti ha nominato Nenad Rasic, esponente di un partito serbo-kosovaro minoritario che, a differenza della SL, non è controllato direttamente da Belgrado. Per Vucic, i serbi come Rasic non allineati col partito sono “traditori”, come li ha definiti il presidente stesso durante una telefonata ad un’emittente filogovernativa. Si tratta di epiteti che, nel contesto della difesa degli interessi nazionali, servono per delegittimare chiunque non sia controllato direttamente dal partito di governo, che la propaganda di regime presenta come l’unico in grado di tutelare i serbi del Kosovo.

E in tale ottica le dimissioni promosse dalla SL potrebbero rivelarsi un boomerang: se il partito resterà fedele nel boicottare le istituzioni kosovare, allora i sindaci da aprile potrebbero essere serbi su cui Belgrado non ha controllo. Viceversa, rientrare nelle istituzioni offrirebbe due vantaggi: continuare a manipolare politicamente le escalation e trovarsi al posto giusto qualora la diplomazia internazionale faccia pressioni affinché Pristina si impegni per istituire l’Associazione dei comuni serbi. 

Tutte le carte della diplomazia

Per Bruxelles, fare sponda alle richieste di Belgrado affinché si istituisca l’Associazione potrebbe essere la manovra diplomatica giusta per dare una svolta al processo di normalizzazione. Una manovra che necessita però dell’assistenza degli Stati Uniti, principale sponsor dell’indipendenza kosovara. Pristina, infatti, accusa l’UE di aver assecondato troppo i voleri del governo serbo, soprattutto sulla questione delle targhe, e di disporre di un team di negoziatori non imparziale, dal momento che il capo della politica estera Borrell e l’inviato speciale per il dialogo Miroslav Lajcak vengono da due paesi, Spagna e Slovacchia, che non riconoscono il Kosovo. L’Unione Europea ha bisogno quindi dell’appoggio degli Stati Uniti per colmare il proprio deficit di credibilità nei confronti di Pristina. Allo stesso tempo, è fondamentale che gli alleati transatlantici abbiano un approccio condiviso nella regione balcanica, dove l’influenza della Russia è inversamente proporzionale alla presenza occidentale: più Bruxelles e Washington tentennano e più Mosca cercherà di sfruttare a proprio vantaggio l’instabilità nei Balcani, nel tentativo di frenare il processo di integrazione euro-atlantica. La Russia, infatti, non è l’artefice dell’attuale crisi, ma potrebbe diventarne il principale beneficiario a livello geopolitico.

Una delle carte a disposizione dell’Occidente per dare una svolta al dossier kosovaro è un nuovo accordo quadro, a integrazione degli Accordi di Bruxelles. E questo sarebbe già esistente: una proposta di Francia e Germania di cui non si sa nulla, se non le speculazioni a mezzo stampa. Una prima bozza è stata pubblicata dall’Albanian Post lo scorso settembre: Belgrado accetterebbe la realtà di un Kosovo indipendente, ma senza un riconoscimento formale, che arriverebbe forse nel 2033. Più recentemente ha pubblicato un leak anche Euractiv. Non si parla esplicitamente di “riconoscimento dell’indipendenza”, anche se diversi passaggi vi alludono. “[Kosovo e Serbia] riaffermano l’inviolabilità ora e in futuro del confine/frontiera esistente tra loro e si impegnano pienamente per rispettare l’uno l’integrità territoriale dell’altro”, si legge. Secondo questa bozza, inoltre, i due paesi si scambierebbero “Missioni Permanenti”.

Nonostante il contenuto dell’accordo sia ancora da certificare, l’iniziativa franco-tedesca è stata pubblicamente approvata anche dalla presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen, che al summit del Processo di Berlino dello scorso 3 novembre aveva fatto esplicito riferimento alla proposta, sostenendo la necessità di “inserirla nel dialogo [tra Kosovo e Serbia] il prima possibile”, e chiedendo “a entrambe le parti di proseguire su quella strada, perché si tratta di un ponte costruito per risolvere il problema”.

La guerra è un rischio concreto?

Una nuova guerra tra Kosovo e Serbia va esclusa. Per quanto molti temano che la Russia possa intervenire al fianco degli alleati serbi, un suo intervento è alquanto inverosimile. Oltre che a essere militarmente impegnata nella guerra in Ucraina, per Mosca è più conveniente sfruttare l’instabilità dalle retrovie, agendo sotto la copertura di strumenti di soft power da anni ancorati nella regione. Per la Serbia, dunque, al netto dei proclami mancherebbe un supporto attivo per una guerra. Questa sarebbe infatti un suicidio diplomatico, il modo migliore per perdere ogni speranza di un negoziato che tuteli anche gli interessi dei serbi del Kosovo. Seguirebbe, inoltre, un totale isolamento da parte occidentale, se non vere e proprie sanzioni, che porterebbe l’economia serba al collasso, considerato che oltre metà degli scambi commerciali avviene con l’UE. Per entrambe le parti, mancherebbero poi le risorse per un budget bellico: Pristina non dispone nemmeno di un esercito vero e proprio, mentre gli arsenali serbi sono in parte obsoleti. Se, infine, questi varcassero comunque il confine col Kosovo, incontrerebbero la risposta della KFOR, ovvero la più grande missione NATO a livello mondiale. Oltre che diplomatico, il suicidio sarebbe anche militare.

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Ad ogni modo, il motivo più importante che scongiurerebbe una nuova guerra è di natura politica. Tanto a Belgrado quanto a Pristina conviene molto di più continuare a minacciare il rischio di una guerra col nemico di sempre piuttosto che farla deflagrare e portarla avanti apertamente. In questo modo, lo status quo viene protratto e nel frattempo entrambe le leadership soddisfano i propri bisogni interni: ergersi a difensori dell’interesse nazionale. Per Vucic, minacciare l’invio dell’esercito significa mostrare i muscoli del proprio carisma a livello interno, salvo poi fare i soliti richiami alla calma con cui, invece, dimostra all’Occidente di essere un leader che garantisce pace e stabilità. D’altro canto, per il governo Kurti, le tensioni con Belgrado sono il luogo perfetto dove esercitare la propria sovranità. Pretendere l’immatricolazione di tutti i veicoli presso la motorizzazione kosovara, mantenere il controllo dei confini, ed applicare il principio della reciprocità con la Serbia fanno del premier Kurti un difensore della statualità del Kosovo, già difficilmente emancipato a livello internazionale.

Una situazione che, salvo futuri accordi politicamente ambiziosi, condanna il Kosovo a uno status quo perpetuo, e i suoi cittadini, di tutte le etnie, al rimanere ostaggio di manipolazioni e contrapposte retoriche. La guerra resta perciò improbabile, in un contesto di pace quasi impossibile.

Immagine in anteprima: frame video Al Jazeera via YouTube

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