Serbia e Bosnia, le manifestazioni studentesche e una polveriera pronta a esplodere
6 min letturaIl 15 marzo scorso a Belgrado quando centinaia di migliaia di persone hanno protestato contro il governo serbo e il presidente Aleksandar Vučić, non è stato il “dan D” ovvero il giorno della svolta dopo il quale nulla sarà più lo stesso in Serbia. Sicuramente è stata la più grande manifestazione pacifica nella storia del paese, organizzata dal movimento studentesco, a cui hanno partecipato oltre 300 mila persone che hanno riempito le piazze della capitale. Dalla Grande Serbia, Belgrado è rimasta troppo piccola per poter ospitare cittadini provenienti da ogni parte del paese, per sostenere gli studenti e manifestare contro il presidente serbo, al potere da 12 anni e che da oltre quattro mesi, da quando sono iniziate le proteste studentesche, continua a ignorare la crisi politica. Una crisi che i media occidentali hanno definito la più grave dai tempi della caduta del governo di Slobodan Milošević nel 2000.
Gli organizzatori avevano promesso che sarebbe stato un raduno pacifico, concentrato davanti alla sede del parlamento. Molti cittadini si aspettavano che il governo di Vučić cadesse dopo le manifestazioni, mentre altri erano pronti a provocare scontri e violenze, finendo per favorire il presidente serbo. Coloro che sono realmente caduti a terra nelle strade non erano agitatori, ma manifestanti pacifici che sono stati colti di sorpresa da un suono assordante, descritto dai presenti come simile a un'esplosione o al rumore di un proiettile o di una caduta aerea, mentre stavano commemorando in silenzio per 15 minuti le vittime della stazione di Novi Sad. Nonostante i video diffusi sui social media mostrassero la folla disperdersi impaurita, un dettaglio che, secondo molti analisti militari, potrebbe suggerire l'uso di un presunto “cannone sonoro” a disposizione delle forze di sicurezza serbe, sia il presidente Aleksandar Vučić che il ministro degli Interni Ivica Dačić, leader del Partito Socialista Serbo e successore politico di Slobodan Milošević, hanno negato non solo l'impiego di tale arma, ma persino la sua esistenza, affermando che la polizia serba non ne sarebbe mai stata in possesso.
Una cosa assolutamente non vera, come ha dimostra l’immagine presentata il giorno dopo la manifestazione dai leader di opposizione e del partito “La Libertà e Giustizia”, Marinika Tepić, in cui si vede chiaramente un cannone sonoro, ovvero un dispositivo acustico a lungo raggio (LRAD) del marchio Vortex, il cui impiego è vietato dalla legge serba, parcheggiato dietro il Parlamento. Dopo la diffusione di quell'immagine, il ministro Dačić ha ammesso che lo Stato possiede un'arma di quel tipo, ma ha negato che sia stata utilizzata contro i manifestanti. Il presidente Vučić, invece, ha detto che se emergeranno prove che è stato utilizzato un cannone sonico, non sarà più il presidente.
Parole poco credibili, soprattutto perché, quello stesso giorno, Vučić ha annunciato l'intenzione di formare un nuovo governo entro il 15 aprile. Ha aggiunto che, nel caso non ci riuscisse, indirebbe nuove elezioni a giugno, escludendo però categoricamente la possibilità di un governo di transizione. Ha poi dichiarato che non lascerà il paese "in mano ai terroristi", come ha definito i leader dell’opposizione.
"Finché sono vivo, non accetterò nessun governo di transizione. Se vogliono sostituirmi, devono uccidermi", ha dichiarato Vučić al suo rientro da Bruxelles, dove il 19 marzo ha incontrato il segretario generale della NATO, Mark Rutte. Durante il colloquio, hanno discusso della situazione in Kosovo, ma anche delle tensioni in Bosnia ed Erzegovina, ma così alte dai tempi della guerra degli anni ’90. La situazione è precipitata dopo l’emissione del mandato di arresto per il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’intensificarsi delle manovre dei rappresentanti serbi per ottenere la secessione da Sarajevo, nella speranza di ricevere il sostegno non solo da Putin, ma anche da Trump.
Il sostegno al regime di Vučić non è più la garanzia per la stabilità regionale
Le proteste in Serbia, così come le tensioni in Bosnia ed Erzegovina, hanno inevitabilmente attirato l’attenzione della politica internazionale. Dopo mesi di silenzio sulla rivolta studentesca e cittadina, alcuni politici occidentali hanno finalmente preso posizione. Oltre a ribadire il loro sostegno all’integrità territoriale della Bosnia ed Erzegovina, hanno commentato con cautela anche l’ondata di malcontento che sta attraversando le strade serbe.
Sembra ormai evidente che il sostegno alla "stabilocrazia" di Aleksandar Vučić non rappresenti una garanzia assoluta per la stabilità regionale. Di conseguenza, gli incontri diretti tra alcuni funzionari internazionali e il presidente serbo sono diventati sempre più frequenti.
Tuttavia, la commissaria europea per l'allargamento, Marta Kos, ha definito "costruttivo" l'incontro a Bruxelles con Vučić, spiegando che si è discusso di passi concreti nel percorso della Serbia verso l'UE e dell'attuazione del piano di crescita per i Balcani occidentali. Ha anche sottolineato “l'importanza della società civile e dei media indipendenti in questo processo", dimenticando, però, che in Serbia da quattro mesi la società civile è impegnata in manifestazioni contro il presidente serbo, mentre molti media pro-governativi, inclusa la radiotelevisione del servizio pubblico, svolgono un ruolo da portavoce del presidente stesso. Secondo un'indagine non-governativa CRTA, durante lo scorso anno, il presidente serbo ha partecipato 330 volte alle trasmissioni televisive.
Come spiega per Valigia Blu Dušan Janjić, del Forum per le Relazioni Etniche di Belgrado, la situazione in Serbia è al limite e il comportamento delle autorità serbe contribuisce a questo processo, attirando l'attenzione anche della NATO, data l'importanza regionale del paese.
Per quanto riguarda la situazione tesa in Bosnia ed Erzegovina, Janjić ritiene che Vučić abbia ricevuto un avvertimento diplomatico, sottolineando che il tempo è scaduto e che non c'è più spazio per i cosiddetti "doppi giochi" di sostegno o mancato sostegno a figure come Milorad Dodik.
L’arresto di Dodik potrebbe essere il test per l’equilibrio istituzionale in Bosnia
La Bosnia ed Erzegovina sta attraversando la crisi più grave dalla fine della guerra degli anni '90, con il crescente rischio di un collasso istituzionale. La tensione tra la Republika Srpska e il governo centrale è esplosa dopo la condanna a un anno di carcere del leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, avvenuta il 27 febbraio scorso, accusato di minare l'ordine costituzionale. In risposta, le autorità della Republika Srpska hanno respinto la sentenza e ordinato il ritiro della polizia di Stato dal territorio a maggioranza serba, mentre il leader serbo-bosniaco ha detto “che la Bosnia non esisterà più”.
Questa escalation ha spinto la comunità internazionale a rafforzare le forze di peacekeeping, ma la situazione resta critica, soprattutto nella parte interna della Republika Srpska, dove lo stesso Dodik non ha più il sostegno dei cittadini.
L'aspirazione di Dodik verso una maggiore autonomia, se non addirittura la secessione, è sempre stata forte, ma ora è più che mai pronunciata. Se le autorità dovessero tentare di arrestarlo, i rischi di violenza potrebbero diventare concreti, con gravi conseguenze per la stabilità non solo della Bosnia, ma dell'intera regione.
Chi può calmare le tensioni?
Nonostante, in questo momento, il presidente serbo Vučić stia affrontando una crisi politica grave, sicuramente proverà a spostare l'attenzione da quello che succede in Serbia, beneficiando dell’instabilità nella Bosnia-Erzegovina. Anche se dovesse formare un governo, il problema resterebbe che sempre meno membri della comunità internazionale si fidano di lui.
“Questo scetticismo persisterà finché non verrà avviata un'indagine internazionale sugli eventi del 15 marzo a Belgrado”, spiega ancora Janjić.
In sostanza, Bosnia e Serbia tornano al centro dello scenario internazionale, dove le alleanze geopolitiche giocano un ruolo fondamentale. Mentre Russia e Ungheria sostengono Dodik e Vučić, l'Unione Europea li condanna, ma solo ora, dopo un lungo periodo in cui ha agito da semplice osservatrice sulla situazione che perdura da mesi in Serbia.
Il ruolo cruciale potrebbe spettare agli Stati Uniti, in particolare sotto l'amministrazione Trump, che potrebbe essere decisiva nel fermare un conflitto potenzialmente in grado di oltrepassare i confini della regione. Tuttavia, la domanda resta, se il presidente americano rispetterà il diritto internazionale che tutela la sopravvivenza della Bosnia ed Erzegovina.
Immagine in anteprima: frame video Guardian
