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Sentenza Cucchi: il dovere morale di chiedere scusa

15 Novembre 2019 5 min lettura

Sentenza Cucchi: il dovere morale di chiedere scusa

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La sentenza di ieri al processo per la morte di Stefano Cucchi è un precedente storico. Per la prima volta in un caso di “morte di Stato”, ossia di quei decessi che vedono la responsabilità delle forze dell’ordine, una sentenza mette nero su bianco la condanna per “omicidio preterintenzionale”. Per la Corte d’assise di Roma i carabinieri condannati, Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro, hanno provocato la morte di Stefano Cucchi a seguito di percosse e lesioni. E l’immagine simbolo di questa sentenza, il carabiniere che si inchina e bacia la mano di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, rappresenta quella parte di Stato che infine ammette i propri errori. Per capire la portata di questa sentenza, basti pensare che nel processo per la morte di Federico Aldrovandi le condanne furono per eccesso colposo nell’uso della forza. Mentre nel primo processo per la morte di Cucchi si era arrivati al massimo a una condanna per omicidio colposo - poi conclusosi con l’assoluzione degli imputati.

La famiglia Cucchi è riuscita a segnare un risultato decisivo nella battaglia per la verità e la giustizia durata dieci anni, senza farsi stritolare da depistaggi, omissioni, reticenze. Una battaglia in cui il dolore per la perdita, l’inevitabile senso di colpa che attanaglia chi deve elaborare una morte violenta, l’impossibilità di seppellire fino in fondo un morto che chiede giustizia, ha dovuto fronteggiare linciaggi mediatici e attacchi ignobili e vergognosi, provenienti in particolare dalla politica, dall’informazione e dalle stesse forze dell’ordine. Perché una delle costanti di casi del genere è la colpevolizzazione della vittima e dei familiari: un modo per far pensare all’opinione pubblica che non esistono l’abuso di potere e la tortura, e che se qualcuno muore è solo la naturale conseguenza di uno stile di vita sbagliato e stigmatizzabile. Propugnando così una visione autoritaria in cui i diritti sono qualcosa che va meritato, in cui in carcere o in stato di fermo muoiono i degenerati che se la sono andata a cercare, mica le persone perbene.

Stefano Cucchi ha dovuto subire anche questo oltraggio, e con lui i suoi familiari. Il gioco infame portato avanti secondo lo schema che vorrebbe contrapporre carabinieri a spacciatori, il percorso processuale ridotto a tifoseria - vorrete mica mettervi dalla parte di quest’ultimo? Una lunga e ignobile galleria fatta di dichiarazioni “choc” o persino di querele. Come quella di Donato Capece nel 2014. Oggi vicesegretario della Confsal, all’epoca invece segretario del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), Capece querelò per istigazione all’odio Ilaria Cucchi, dichiarando: “Il fratello è stato abbandonato dalla famiglia. Se Ilaria e la famiglia avessero seguito più da vicino Stefano, probabilmente l’avrebbero salvato”. Per Giovanardi, invece, che negli anni ha collezionato una serie di attacchi senza fine alla famiglia Cucchi così come a quella di Federico Aldrovandi, “La droga ha avuto una parte rilevante nella morte di Stefano Cucchi, un ruolo determinante nel decesso”, che rincara la dose: “Resto convinto che fosse uno spacciatore e fare lo spacciatore non è una cosa gloriosa”. Nel 2013, invece, aveva accusato Ilaria Cucchi di “sfruttare la vicenda del fratello” dopo la decisione di quest’ultima di candidarsi con Rivoluzione civile.

È stato invece condannato nel 2018 per diffamazione Tonelli, ex segretario del Sap (Sindacato autonomo di polizia) e oggi parlamentare della Lega. Nel 2014, commentando la sentenza di assoluzione in secondo grado per i medici, gli infermieri e gli agenti di penitenziaria, in una nota del Sindacato, dichiarò: “Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze”. Matteo Salvini, invece, da Ministro dell’Interno dovette fare i conti con le precedenti polemiche con Ilaria Cucchi, che ne rifiutò l’invito al Viminale.  A far rifiutare l’invito le dichiarazioni di Salvini nel 2016 dopo un post polemico su Facebook di Ilaria Cucchi, che pubblicò la foto di uno dei carabinieri imputati. “La sorella di Cucchi si deve vergognare. La storia dovrebbe insegnare. Qualcuno nel passato fece un documento pubblico, intellettuali sdegnati contro un commissario di polizia che fu assassinato”, riferendosi alla lettera che alcuni intellettuali scrissero nel 1971 contro il commissario Calabresi dopo la morte dell’anarchico Pinelli.

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Così la sentenza di ieri ci consegna nei commenti un triste e penoso spettacolo, fatto di vittimismo, sfacciataggine e impunità politica. Spettacolo che vede protagonisti proprio alcuni dei più feroci colpevolizzatori del caso Cucchi. Così Tonelli e Salvini, intervistati per Fanpage da Marco Bileci, alla domanda “ora chiederà scusa alla famiglia Cucchi?” riescono a superarsi in peggio. Il primo scopre improvvisamente i tre gradi di giudizio, e rimanda alla sentenza definitiva. Curioso che a farlo sia chi, a commento delle condanne definitive per la morte di Federico Aldrovandi, parlò di “errore giudiziario” e paragonò quella morte a un incidente stradale: “Tutti i giorni muoiono giovani sulle strade, ma non per questo la colpa è delle strade”. Il secondo invece, come un giradischi rotto, va col pilota automatico e parla di droga (evidentemente non aveva senso usare il restante 50% del suo armamentario politico, gli stranieri). Così, invece di scusarsi per aver detto “non credo che i carabinieri si divertano a pestare la gente”, dichiara che “questo testimonia che la droga fa male sempre e comunque”. Un commento per cui Ilaria Cucchi ha annunciato di essere pronta a sporgere querela. Carlo Giovanardi, infine, opta per la linea Tonelli, rimandando anche lui alla sentenza definitiva. Scelta che però non operò dopo la sentenza di primo grado del primo processo, quando nel 2013 ai microfoni della Zanzara parlava di "mancanza di nutrizione" per giustificare lividi ed ecchimosi sul corpo del cadaveri di Stefano Cucchi.

Non avevamo certo bisogno di questa sentenza e di reazioni così misere per sapere quanto, nel panorama politico, si diventi garantisti o forcaioli a seconda del tornaconto personale, tirate le somme per capire se conviene aizzare l’opinione pubblica contro il capro espiatorio di turno o difendere qualcuno perché è della propria parrocchia. Già sapevamo che anche i morti sono arruolabili nella militarizzazione dell’opinione pubblica, di come si arrivi ad accettare la follia di dover contrapporre forze dell’ordine a cadaveri, come se ci fosse davvero una logica, e come se, di fronte ad abusi da accertare, schierarsi a priori significhi lanciare un messaggio di impunità per i servitori dello Stato che travalicano i confini. E, davvero, ci vorrebbe una via Stefano Cucchi nelle nostre città, per ricordarci che no, non si muore in carcere o in caserma perché si è “dissoluti”, ma perché qualcuno scambia il potere concesso dalla legge per diritto di vita e di morte sugli altri. Ed evidentemente lo fa perché da mela marcia riesce a restare benissimo attaccata all’albero, in buona compagnia e contando su ottimo concime.

Immagine in anteprima via Corriere della Sera

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