Se questi sono gli uomini
5 min letturaCronaca, riflessione e attività politica di fronte a discriminazione, odio e violenza vanno di pari passo con le questioni linguistiche. Perché la lingua delinea uno spazio di senso: parola dopo parola si modificano quello spazio, la porzione d'orizzonte su cui cade il nostro primo sguardo e la possibilità di un terreno comune tra emittente e destinatario.
Quando si parla di femminicidio - l'uccisione di una donna da parte di un uomo per motivazioni misogine - quella parte di me che riflette senza sosta sul linguaggio teme l'abuso semantico (la catacresi, come per «macchina del fango»): per spingere il pedale sulla simbolizzazione, si perde di vista il quadro complessivo della violenza di genere, i fattori che culminano nell'omicidio efferato. Ma, d'altro canto, affrontare la materia solo sul piano linguistico rischia di essere una forma molto sofisticata di negazione/rimozione. Se il saggio indica la luna, il sofista discute se "luna" sia la parola adatta, mentre volge lo sguardo altrove. Altro atteggiamento scellerato è il lavoro parziale sulle statistiche, perché fornisce pretesti alla relativizzazione, nutrendo infinite polemiche. A prescindere dagli scopi, trovo fallace sul piano logico ridurre la questione all'argomento "il femminicidio [esiste/non esiste] perché quest'anno sono state uccise [numero] donne". Ciò per due motivi: in primo luogo, il numero non dà conto di cause e circostanze, ma si concentra sul genere della vittima e dell'omicida; in secondo luogo, si occulta una domanda che, se posta, farebbe venir meno la discussione: "oltre quale soglia si può parlare di femminicidio?". Se la soglia fosse 100 all'anno, e ne venissero uccise 99, tireremmo un sospiro di sollievo? Pensiamo alla mafia: l'esistenza del fenomeno non è subordinato alla discussione sui delitti di mafia, sulla necessità di chiamare quest'ultimi "maficidi" (ossia delitti di stampo mafioso), o su polemiche di tipo statistico. Se un editorialista scrivesse «ma quale emergenza mafia, ci sono state solo 100 gambizzazioni nel 2012, 20 in meno rispetto al 2011!», risulterebbe poco condivisibile, o fastidiosamente stupido; a meno che non si sia complici - per omertà o appartenenza. È nella persuasione prodotta dai martiri o dalla testimonianza diretta e indiretta che riconosciamo l'esistenza della mafia e la sua pericolosità sociale. I dati vengono in un secondo momento.
Per uscire dalla palude linguistica e dell'eterno dibattito, è utile leggere il libro di Riccardo Iacona, Se questi sono gli uomini (Chiarelettere). Iacona affronta la violenza contro le donne col mezzo che gli è più congeniale: il giornalismo d'inchiesta. La prima volta in cui usa «femminicidio», Iacona mette la parola tra virgolette. Poi nel resto del libro le virgolette scompaiono: come se, immergendosi nell'inchiesta, aumentasse la consapevolezza che qualcosa non va, in Italia, e che quei delitti ne siano il sintomo più evidente; ecco allora che, nell'esperienza, quella parola sembra meno esotica. Iacona si immerge nei contesti sociali in cui sono avvenuti gli omicidi, apre squarci in mondi dove troppo spesso ci si volta dall'altra parte di fronte a liti, lividi, minacce; o dove si è tentato di intervenire in rapporti dominati dalla sopraffazione violenta, senza però riuscire a salvare chi, di quella violenza, è stata vittima fino alla morte. Ecco allora che Iacona si interessa anche alle città dove avvengono i delitti (da Trapani a Cesena, da Sud a Nord), e non solo al rapporto tra vittima e carnefice e alle relative famiglie. Sono mondi che bisogna avere il coraggio di guardare in faccia armati di nuda sincerità:
Mi ci metto anch’io, dobbiamo fare un semplice esercizio: quanti di noi si riconoscono in questi racconti, anche solo in parte? Proviamoci veramente, con sincerità però e senza autoassoluzioni.
Le liti durate ore. Le inutili scene di gelosia. L’incapacità di parlare, di rispondere durante le discussioni. La scorciatoia delle urla e delle grida. Le offese, le ingiurie, le parolacce. Le minacce e la mano alzata. Quanti di noi hanno vissuto episodi come questi?
Da Vanessa Scialfa, strangolata dal convivente nell'appartamento in cui vivevano, a Stefania Cancelliere, uccisa con ottanta colpi di mattarello dall'ex, il libro si dipana tra delitti che hanno elementi di rilievo in comune. Colpisce allo stomaco del lettore la brutalità dell'omicida, l'accanimento contro la vittima, tipico delle esecuzioni. È chiara la premeditazione: in alcuni casi si tratta di uccisioni annunciate a parenti o amici, in altre l'omicidio avviene in luoghi pubblici, come la scuola o il posto di lavoro. Ciò rivela quanto sia falsa e culturalmente assolutoria la retorica del "raptus di gelosia" o dell'"omicidio passionale". L'uccisione, infatti, non è una vampa improvvisa di violenza: arriva, nel tempo, dopo denunce per stalking o maltrattamenti, persino dopo denunce non verbalizzate, come se la futura vittima, rivolgendosi alle forze dell'ordine, andasse rassicurata o dissuasa da strane idee, più che protetta.
È chiaro il contesto di sopraffazione nel rapporto, dove sono all'ordine del genere umiliazioni, violenza psichica e fisica, torture. È chiaro come l'omicida, finché dura il rapporto, lavori per isolare progressivamente la vittima, facendole terra bruciata attorno. Un Mentana o un Fazio, che includono femminicidio nel proprio vocabolario, forse resterebbero sorpresi scoprendo quanto poco c'entrino i social network in questi delitti; in alcuni casi alle vittime è impedito di usarli, proprio nell'ottica del controllo esasperato e dell'isolamento, secondo una sottocultura che trova facili adesioni (quella del "non sta bene dare troppa confidenza agli altri, quando si è fidanzati").
La violenza di genere riguarda tutti perché ha un costo sociale. Come spiega nel libro Titti Carrano, presidente dell’Associazione nazionale DiRe, Donne in rete contro la violenza:
Quando si dice che mancano i soldi, però, non si pensa mai a quanti se ne perdono. Proviamo a fare un calcolo del costo sociale della violenza. L’Italia è uno dei paesi europei nei quali non viene effettuata sistematicamente un’analisi dei costi sociali della violenza, in termini di sofferenza umana e perdita economica che ricade sulla collettività. Pensiamo alle spese di giustizia, dei servizi sociali, alle spese per prestazioni sanitarie, a quanto ci costa, nel futuro, il non aver aiutato una donna e i suoi figli a uscire dalla violenza. Insomma il costo sociale è enorme. Quindi se finanzi un centro antiviolenza spendi poco nell’immediato e risparmi tanto nel futuro. E salvi la vita a tante donne. È complicato, però, vede, tante donne poi ce la fanno. Perché nel momento in cui la donna incomincia a seguire un certo percorso, a voler essere libera, a ricostruirsi una propria vita, tira fuori davvero tante risorse e tante capacità. Vediamo tante storie positive di donne che sono passate per i nostri centri e ce l’hanno fatta a uscire dalla prigione, a lasciare l’uomo che le maltrattava, magari
senza neanche denunciarlo. Solo con la loro forza e determinazione. E con il nostro aiuto. È tantissimo il sommerso, è vero, ma sono anche decine di migliaia le donne che si stanno tirando fuori dai maltrattamenti, che non vogliono entrare nella lista delle donne ammazzate.
L'aspetto più propriamente politico riguarda dunque l'applicazione - o l'integrazione - della legge sullo stalking e il rafforzamento delle strutture di assistenza o protezione. Un'agenda politica che voglia dirsi progressista non può prescindere da questi aspetti. E qualunque azione culturale che non ne tenga conto rischia di spostare il contrasto sulla violenza di genere in una bolla comunicativa ben lontana da chi, quella violenza, in concreto la compie.