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Se la richiesta di risarcimento diventa un’intimidazione #iostoconformigli

25 Febbraio 2012 5 min lettura

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Se la richiesta di risarcimento diventa un’intimidazione #iostoconformigli

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Andrea Zitelli
@valigiablu - riproduzione consigliata

'Sulla testa di ogni giornalista pende oggi la spada di Damocle di una querela per diffamazione. Lui - e il suo giornale - rischia la bancarotta, chi querela assolutamente niente. Anche se la denuncia si rivela infondata, infatti, è quasi impossibile ottenere un risarcimento. Risultato: i giornalisti scrivono sempre di meno e sempre più politically correct, le querele per diffamazione non si contano e i danni morali liquidati raggiungono cifre sbalorditive. Con buona pace del pluralismo e della libertà di stampa' 
(Giovanna Corrias Lucente, Micromega 29/6/2007)

Le cause civili con risarcimento esorbitante rischiano di diventare una nuova forma di bavaglio all'informazione. A poche ore dal caso Fiat-Formigli, un'altra richiesta di danni milionaria si abbatte su una testata giornalistica, la Nuova Ferrara, e sui professionisti che hanno raccontato il processo per la morte di Federico Aldrovandi (qui lo storify della vicenda), il giovane ucciso dalle percosse di alcuni poliziotti. Con un particolare in più: nella causa per diffamazione intentata da un magistrato (la pm che condusse le prime indagini) è imputata anche la madre di Federico, Patrizia Moretti, la donna che con la sua tenacia (e attraverso un blog) ha ottenuto la riapertura del caso e la condanna dei colpevoli.

Questi due casi riaprono il dibattito sulla libertà di informazione e impongono anche una riflessione sulla querela per 'diffamazione'. Tra l'altro il dibattito è antico, già verso la fine degli anni '80 si parlava della necessità di una nuova regolamentazione dell'informazione e a suo tempo si ipotizzò l'introduzione di una specie di 'condizione di procedibilità', ossia la possibilità di sporgere querela per diffamazione solo dopo aver chiesto la pubblicazione di rettifica o smentita e solo dopo che questa richiesta non fosse stata soddisfatta (v. 'Troppi farabutti' di Oreste Flamminii Minuto). 

Lo stesso Formigli, infatti, commentando la decisione del Tribunale di Torino, definisce la sentenza “un atto di intimidazione nei confronti di chi si azzarda a criticare un prodotto industriale” aggiungendo che in questo modo si finisce per negare il “diritto di critica”. Vari giornalisti sono scesi in difesa dell'ex collaboratore di Michele Santoro: Enrico Mentana, ad esempio, lo ha fatto durante la conduzione dell'edizione serale del Tg di La7.  

Chiariamo subito che prima di commentare nello specifico il caso in questione, bisognerebbe leggersi per intero la sentenza. Da un dato nel merito, però, si può partire. Il Corriere della Sera, riportando in parte le motivazione della condanna, scrive che il giudice ha definito il servizio di Formigli “informazione non veritiera e denigratoria”. Pertanto, nella disamina giornalistica andata in onda durante Annozero, qualcosa di non corretto, di “non veritiero”, di “incompleto e parziale” vi era. Proprio per questo motivo la Fiat, sentendosi diffamata in prima serata, durante un programma visto da 5 milioni di telespettatori, aveva inizialmente richiesto – in sede civile - un risarcimento pari a 20 milioni di euro. 

Si dirà che tutto questo non sarebbe successo se Formigli avesse fatto un servizio veritiero e quindi legalmente inattaccabile. Giusto. Il problema a monte, però, è che tali somme di denaro richieste  sono sì legittime ma, inserite nelle procedure legislative del nostro Paese, si possono tramutare in veri e propri atti intimidatori nei confronti di un certo giornalismo d'assalto. Vediamo perché.

Prendiamo il caso di Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, che, come si diceva all'inizio, insieme a dei giornalisti del quotidiano Nuova Ferrara che avevano seguito il caso durante i vari gradi di giudizio, saranno imputati per diffamazione nei confronti della pm Mari Emanuela Guerra che condusse le prime indagini. La pm, oltre a chiedere ai giornalisti 300.000 euro come risarcimento, chiede anche 1 milione e mezzo di danni, in un differente procedimento civile, per essersi sentita denigrata e diffamata da Nuova Ferrara

Partendo dal fatto che chi si sente diffamato od offeso – che sia una persona o una grande casa automobilistica - da parte di articoli di giornale o anche da post di blogger è legittimato a tutelare la propria persona o immagine, per evitare che possa diventare in qualche caso una forma di intimidazione per il giornalismo di indagine, sarebbe preferibile che si seguisse la strada di un procedimento penale anziché civile, in quanto in sede penale vi è un accertamento dei fatti più approfondito e basato su indagini svolte da un organo dello Stato, quindi terzo rispetto alla contesa, a differenza della sede civile dove il giudicante decide sulla base delle prove portate dalle parti, con il rischio che chi ha più soldi finisce per avere più possibilità di una sentenza favorevole.

Questione che favorisce la nascita di un altro problema, inquadrato perfettamente da Bruno Saetta:

Se un giornalista sbaglia in buona fede, chiede scusa e rettifica, così la condanna penale non interviene per mancanza di dolo. Il diffamato ottiene però la rettifica del fatto, che è quello che vuole realmente. Un giornalista di questo tipo teme la condanna civile, il risarcimento del danno che si può avere anche se egli è in buona fede. Se invece un giornalista mente, sapendo bene di mentire, compiace i suoi padroni pubblicando notizie false per screditare gli avversari politici, sa bene di non avere problemi perché i suoi padroni pagheranno per lui. Si servono di lui come uno strumento, e pagano le sue eventuali condanne. Questo giornalista, invece, teme la condanna penale, perché lui non può rettificare, non può dire che quello che ha scritto è falso, perché i suoi padroni non sarebbero contenti. Lui teme la condanna penale, cioè di andare a finire in galera, non la condanna civile.”

Insomma, una condanna civile rischia di tramutarsi in una mordacchia per il giornalismo inchiesta  mentre per il giornalismo in malafede la pena può risultare una semplice alzata di spalle. Ed è proprio per questi motivi che è necessario chiedere un cambio delle normative che regolano tale situazioni.

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Un'idea chiara ed efficace, ad esempio, gira da diverso tempo in rete e tra le redazioni dei giornali. Ad esporla al grande pubblico televisivo ci hanno pensato in varie occasioni Daniele Luttazzi e Milena Gabanelli. Quello che l'autore satirico definì  "comma Luttazzi" - dopo la causa milionaria che l'azione di Silvio Berlusconi gli intentò per l'intervista, durante Satyricon, a  Marco Travaglio - , la giornalista di Report lo spiegò da ospite da Fazio e Saviano a Vieni via con me, per poi riformulare lo stesso concetto sulla pagine del Corseracommentando il caso Formigli-Fiat, pochi giorni fa: “La sentenza del Tribunale di Torino costituisce un monito molto duro verso il diritto di critica (che in questo caso non è stato preso in considerazione), e che lascerà il segno, poiché difficilmente un editore si assumerà il rischio di sostenere simili cifre. Non risulta invece che sia mai stata emessa condanna esemplare nei confronti di coloro che ti portano in tribunale senza motivo. Per loro il rischio massimo, oltre la doverosa condanna alle spese, è solo una piccola multa, 1000 euro, per aver disturbato il giudice.”

Partendo da tutto ciò, anche dagli errori commessi da un giornalista (come ha stabilito la sentenza di primo grado del tribunale di Torino nei confronti di Formigli), si può, anzi si deve iniziare a ragionare sul cambiamento normativo che deve avvenire per non ridurre il diritto legittimo di difendere la propria onorabilità in un'aggressione diretta/indiretta nei confronti della libertà dei giornalisti di indagare e dei cittadini di essere informati. 

Consigli di lettura: 
Una fragile libertà di informazione di Caterina Malavenda 

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