Scuola e università: un sistema ipercompetitivo (da smantellare) che schiaccia e annienta
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Studiare non ha nulla a che fare con la competizione. Lo studio, l’apprendimento, hanno tempi e metodi diversi a seconda delle persone, delle loro attitudini e delle loro peculiarità. Eppure, da sempre, i percorsi didattici sono strutturati per utilizzare la competizione tra alunni come stimolo per raggiungere risultati sempre più soddisfacenti. Un presupposto che potrebbe essere positivo, ma che negli ultimi anni è diventato esso stesso l’obiettivo del percorso. Non si studia più per raggiungere conoscenze e competenze, ma per tagliare il traguardo prima degli altri. E in questa assurda gara, chi sente di restare indietro, alla fatica della corsa deve aggiungere anche l’umiliazione di quella che viene vissuta come una sconfitta.
“Negli ultimi tre anni – ricorda Camilla Piredda, coordinatrice dell’Unione degli Universitari – circa dieci universitari si sono suicidati. Questi sono i casi noti: ci sono episodi che non raggiungono attenzione mediatica”. Dall'inizio del 2023, tre studenti universitari si sono tolti la vita. L’ultimo caso, ai primi di marzo, quello di Diana Biondi, studentessa di Lettere moderne all’università Federico II di Napoli. Ai genitori aveva detto che sarebbe andata a ritirare la tesi, ma a quel traguardo mancava ancora un esame.
A inizio febbraio, una studentessa di 19 anni si è suicidata all’università Iulm di Milano. Un caso che ha sconvolto il mondo universitario perché la giovane avrebbe chiesto scusa “per i suoi fallimenti”. E poi per il luogo e il momento: la decisione non è avvenuta dopo anni fuori corso, ma solo dopo il primo semestre di studi. Non c’è stato neanche il tempo di fallire. A seguito della notizia, studenti e studentesse si sono mobilitati in tutta Italia per portare sotto la lente d’ingrandimento dei media l’aumento del disagio psicologico dei giovani dopo la pandemia, ma soprattutto l’esasperazione di un modello scolastico diventato sempre più performativo. Il movimento giovanile ‘Cambiare rotta’ ha promosso iniziative in tutta Italia, da Bologna a Pisa, da Milano a Bari, per ricordare la giovane e sottolineare i meccanismi malsani di un sistema che schiaccia gli studenti.
“Fatti simili si sono moltiplicati. E questo ci consente di dire che questo malessere ha sì a che fare con il disagio psicologico, ma anche con le aspettative legate al percorso di studi, cresciute sempre di più”, racconta a Valigia Blu Giorgia, studentessa di Filosofia alla Statale di Milano.
Secondo Giorgia, attivista di ‘Cambiare rotta’, questo malessere c’era anche prima, ma “sta aumentando sempre di più. Il mondo universitario ormai è totalmente piegato alla logica dei meccanismi produttivi ed economici: una corsa a tutti i costi per arrivare primi. E se resti indietro, la consapevolezza è che nessuno viene ad aiutarti. L'università non ti viene in aiuto”. In sostanza, per i giovani di ‘Cambiare rotta’, il modello universitario “alimenta le logiche di arrivismo, competizione e meritocrazia che sono quelle che ritroviamo in tutta la nostra società. E ha smesso di essere un luogo di emancipazione e della costruzione di un pensiero critico”.
I percorsi accademici, dunque, da momenti di formazione sono diventati macchine del successo che promuovono modelli di realizzazione personale in cui a essere appetibili sono il guadagno e la posizione sociale, e non un sistema valoriale orientato al benessere psicologico e alla soddisfazione personale. Gli studenti si sentono ingranaggi di un meccanismo che non riescono a cambiare. “La risposta - dice Giorgia - non può essere unicamente quella di combattere da soli, serve un cambio di passo radicale e sistemico”.
Come ha spiegato in un thread su Twitter il docente e storico Andrea Mariuzzo, in questo contesto va considerato anche l’aspetto economico, perché chi eccelle parte spesso da una situazione di partenza privilegiata. “Università in Italia significa pagarsi tutto quello che altrove è messo a disposizione dalla società per incentivare un'esperienza di studio che il nostro livello di sviluppo vuole di massa se non - tecnicamente parlando (e invito a riflettere sull'inciso) - universale: trasporti, vitto, sconti o gratuità sull'acquisto di materiale bibliografico, abitazione senza finire nel tritacarne degli affitti, ecc”, ha scritto. Gli studenti meno fortunati, invece, sono costretti a conciliare studio e lavoro, con conseguenze sui risultati che inducono poi a una colpevolizzazione dello studente. La competizione, quindi, scrive ancora Mariuzzo, “non è con gli altri o con se stessi, ma è la lotta continua con una società di merda che scarica su di te individuo le sue storture dicendo di arrangiarti. E non è che il problema ci sia di meno se nella maggior parte dei casi - vivaddio - si sopravvive”.
Alcuni giorni fa, una richiesta d’aiuto è stata urlata anche davanti alla ministra dell’Università e della ricerca, Anna Maria Bernini, ospite della cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico dell’università di Padova. “Siamo stanchi di piangere i nostri coetanei - ha detto Emma Ruzzon, presidente del Consiglio degli studenti dell'Università di Padova - vogliamo che tutte le forze politiche presenti si mettano a disposizione per capire, insieme a noi, come attivarsi per rispondere a questa emergenza. Ma serve il coraggio di mettere in discussione l'intero sistema meritocentrico e competitivo”.
Un sistema che tuttavia, il ministero dell’Università e della Ricerca non sembra voler modificare. Anzi, il ministero pare applicare al percorso di studi una selezione sempre più mirata e precoce. Vanno in questa direzione strumenti quali il liceo quadriennale e il nuovo sistema dei Tolc (acronimo di Test On Line CISIA): i nuovi test per accedere alla facoltà di Medicina. Da quest’anno, ai Tolc di Medicina potranno accedere anche gli studenti del quarto e quinto anno delle scuole secondarie di secondo grado. Innovazioni che abbassano sempre di più l’età della selezione, inviando allo studente il messaggio che non c’è spazio per ripensamenti o errori. Per stare al passo con un mondo del lavoro competitivo, bisogna disegnare percorsi di studio chiari, lineari e impeccabili.
“La percezione diffusa è quella di trovarsi all’interno di una gara collettiva in cui nulla è chiaro, a parte il fatto che gli altri stiano vincendo”, hanno scritto in un post recente Andrea Colamedici e Maura Gancitano, fondatori del progetto di divulgazione culturale Tlon e autori del libro La società della performance. “Non si sa bene dove sia il traguardo o quali prove uno debba superare, ma gli altri sono comunque più avanti di noi, fanno più cose, sono più amati, più inseriti, più felici, più ricchi. Gli altri vanno lisci, non hanno inciampi, dubbi o turbamenti. Eppure siamo tutti gli altri di qualcuno. Non c’è nessuno che stia davvero guidando il gruppo, nessuno che vince o vincerà, ma tutti sono convinti che a essere ‘gli altri’ siano gli altri. Siamo vittime di una gigantesca suggestione collettiva che ci porta a competere ogni giorno contro persone altrettanto smarrite, altrettanto affannate, altrettanto stanche”.
Una sensazione che viene esasperata anche da una narrazione mediatica che esalta le doti di plurilaureati e giovani particolarmente dotati, facendo passare il messaggio che il successo è alla portata di tutti, e il mancato raggiungimento di un obiettivo è una scelta. Non c’è spazio per le differenze nella società, così come nei percorsi di studi.
Secondo Alberto Pirni, professore di Filosofia Morale presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, il mondo accademico non si è posto il tema di come riformarsi dopo la fase pandemica, e sta attraversato anch’esso una fase di crisi, al pari della società odierna.
“Quello di oggi è un mondo in sofferenza, e il sistema universitario è uno dei settori che vive questa crisi e sta cercando di interpretarla in una fase complessa e non ancora consolidata”, spiega a Valigia Blu. “Il mondo attuale sta vivendo la perdita di orizzonti che porta a un appiattimento sul presente: il sistema universitario si sta dividendo tra chi rafforza l’attenzione alla formazione di figure iper-formate, e chi crea ibridazioni tra percorsi tradizionali. Ma la mancanza di una visione futura ha portato all’iper-professionalizzazione e alla proiezione sul presente”. Nasce da qui, secondo il docente, uno smarrimento che poi si ripercuote sugli studenti. Secondo lo studioso, “le università dovrebbero coltivare la loro parte di divergenza formativa ed educativa; capire come i docenti possano essere valutati anche nel processo di progettazione didattica con gli studenti; e soprattutto ascoltare le proposte e le idee degli studenti, cercando di capirle. Dobbiamo contrastare le più grandi storture del sistema. E poi, il tema del benessere psicologico, non bisogna attivarsi solo in emergenza, ma bisogna lavorare sulla prevenzione. Facciamo ancora troppo poco”.
Il tema del benessere psicologico non riguarda solo gli studenti universitari: gli alunni di scuole e atenei stanno rilevando come sia sempre più insostenibile il modello competitivo in cui sono immersi, fin dai primi anni di scuola. Per Vera Cuzzocrea, Consigliera dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, lo studio è il contenitore che occupa lo spazio di vita dei giovani, e orienta le loro giornate, al pari del lavoro per gli adulti. Da qui l’importanza che questo ambito riveste nelle vite delle giovani generazioni. Ma in questa fase storica post-pandemica, il fragile passaggio di vita all’età adulta, è diventato ancora più difficile e problematico.
“È emerso un profondo disagio dei ragazzi. I giovani hanno sofferto soprattutto l’assenza di relazioni”, spiega l’esperta a Valigia Blu. “E quando le attività sono riprese, la salute mentale non è stata sufficientemente considerata. In ambito scolastico, continua a esserci spesso troppa attenzione al rendimento e scarsa ai bisogni psicologici. Le scuole non sono capaci di accantonare il modello performante e guardare alla persona. Ma l’obiettivo della scuola e dell’università dovrebbe essere formare la persona, al di là della performance: la scuola dovrebbe essere una comunità educante rispetto al saper essere, che accoglie uno studente nella sua persona e gli restituisce dignità. Lo afferma anche un decreto legislativo del 1994”.
Quali dovrebbero essere, quindi, le azioni da intraprendere per interrompere questa tendenza? Per la psicologa, la prima è un’attenzione alla formazione degli insegnanti, affinché siano in grado di intercettare le sacche di disagio psicologico e ascoltare i segnali di allarme fin dalla scuola dell’infanzia e promuovere lo sviluppo di un’attitudine responsabilizzante e valori prosociali. E poi aumentare l’offerta di supporto psicologico gratuito nelle scuole e nelle università, oltre che nei servizi territoriali. “Serve una strategia ampia di sistema. I giovani oggi sono capaci di riconoscere il loro bisogno e urlarlo in modo assertivo. Ma come l'abbiamo recepito a livello politico? Parlando del merito. I giovani hanno assorbito la paura di vivere e di fare. Bisogna restituire loro un senso di fiducia nei propri strumenti mostrandoci come sistema educativo, socio-sanitario e politico più attento, autorevole e competente”.
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Immagine in anteprima via cupofgreentea.it