Scuola italiana: gli investimenti dello Stato e la sicurezza degli edifici scolastici
13 min letturaSu proposta di un nostro lettore e sostenitore abbiamo deciso di lavorare a un approfondimento sulla scuola. In questa prima parte, Elisabetta Tola ha analizzato i dati sugli investimenti fatti dallo Stato sulla scuola e ricostruito la situazione degli edifici scolastici. In questa seconda parte abbiamo affrontato il tema della digitalizzazione e il digitale a scuola, mentre il terzo capitolo si concentrerà su qual è l’idea di scuola oggi.
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“Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte costituzionale” (Pietro Calamandrei)
Molta attenzione per poche settimane, poi nuovamente assordante silenzio per mesi. È un ciclo ormai consolidato, di anno in anno. Tra settembre e ottobre tutti si accorgono che comincia un nuovo anno scolastico e si concentrano per qualche ora sul tema. Due domande al ministro di turno (nove diverse nomine dal 2005 a oggi), qualche numero sugli iscritti, le classi, un mini focus sui cambiamenti eventuali e su possibili nuove riforme e poi di nuovo più niente.
Forse non ci rendiamo conto dell’assurdità di questo ciclo. A scuola, in Italia, vanno ogni giorno circa 8 milioni di persone: 7 milioni di studenti e un milione di lavoratori, tra insegnanti e personale tecnico amministrativo (ATA). Otto milioni di persone, quasi un ottavo dell’intera popolazione italiana, che passano ore e ore in edifici insicuri, inadeguati, spesso pericolosi. E che cercano di portare avanti una delle attività che dovrebbe essere la base di qualunque democrazia evoluta: la formazione, l’istruzione, l’educazione. A essere cittadini prima che bravi in matematica e lettere. A essere persone attive e consapevoli rispetto al proprio presente prima che capaci di fare test, verifiche, interrogazioni e altre attività.
Ma no, la scuola è davvero un grande assente dalle cronache quotidiane. Non ci stupiamo, scandalizziamo, dispiacciamo dello stato in cui versano gli edifici dove mandiamo il nostro futuro a formarsi. Né ci arrabbiamo di fronte al fatto che chi è lì per fare questo lavoro e quindi a formare il nostro futuro sia sempre meno adeguato di fronte alla complessità del presente, preparato, aggiornato e messo in condizioni di lavorare bene. O che sia pagato ormai uno stipendio completamente inadeguato rispetto alla competenza e professionalità richiesta, il che poi finisce nella testa di molti con il giustificare anche un lavoro fatto male, con poca attenzione ai cambiamenti, con una dedizione talvolta proprio discutibile.
Al di là dell’incredulità di fronte a tanta indifferenza, a fare una fotografia più precisa possibile sullo stato della scuola ci aiutano i numeri. Che invece fortunatamente sono tanti, anche se non sempre raccolti in modo organico e organizzati in modo utile per trarre conclusioni, come vedremo.
Negli ultimi anni, in autunno, escono regolarmente report internazionali che si focalizzano sullo stato della scuola:
- Education at a glance, curato dall’OCSE, la cui ultima edizione è uscita il 10 settembre 2019
- Education and training monitor, della Commissione Europea, uscito il 26 settembre 2019 (con uno speciale focus per paese, incluso uno sull’Italia)
Nelle stesse settimane, in Italia, sono uscite l’anticipazione di due rapporti che saranno pubblicati a breve:
- Rapporto sull’edilizia scolastica della Fondazione Agnelli. La stessa Fondazione Agnelli pubblica anche l’Eduscopio 2019-20 con una comparazione dei percorsi di istruzione secondaria.
- Ecosistema scuola, rapporto di Legambiente sull’edilizia e l’organizzazione dei servizi scolastici. Anche in questo caso è disponibile al momento una anticipazione in video che accompagna una lettera inviata dall’organizzazione al Governo il 12 settembre scorso, prima della apertura dell’anno scolastico, con una chiara denuncia sullo stato delle scuole, a partire proprio dall’insicurezza degli edifici.
Di seguito noi ci concentreremo su due temi entrambi centrali quando parliamo di stato della scuola: gli investimenti fatti dallo Stato sulla scuola e la sicurezza degli edifici. Entrambi i temi, per quanto apparentemente lontani, sono indicatori molto importanti della rilevanza e della priorità assegnata al comparto istruzione nel paese. Per questo utilizzeremo i dati degli indicatori di Sviluppo della Banca Mondiale (World development indicators), i dati OCSE e quelli della Commissione Europea, per parlare di spesa. I dati sono tutti espressi in dollari americani per poter operare un confronto internazionale, perché quella è la valuta in cui si trovano nei database delle organizzazioni internazionali. Basta calcolare comunque che nell’ultimo anno la conversione è di 90 centesimi di euro per 1 dollaro americano.
Investire in istruzione
Per la scuola l’Italia spende poco, meno degli altri paesi europei e di molti altri paesi nel mondo, e sempre meno nel tempo. Questo in sintesi. Il nostro paese in Europa è ormai in fondo alla scala degli investimenti nel comparto istruzione, e soprattutto negli ultimi anni ha ulteriormente contratto la percentuale di spesa sulla scuola. Vediamo nel dettaglio.
Sia che consideriamo la spesa in istruzione (che si intende su tutto il comparto educativo, e quindi dalla primaria alla terziaria) come percentuale della spesa pubblica totale, secondo quanto vediamo nel grafico qui sopra, che come percentuale del PIL, qui sotto, è chiaro che l’Italia è andata disinvestendo in scuola nel decennio dal 2005 al 2016, ultimo anno per cui sono disponibili i dati. Quelli rappresentati in questi due grafici sono numeri elaborati dalla Banca Mondiale su dati raccolti dall’Ufficio statistico dell’Unesco.
Abbiamo scelto di confrontare il caso italiano con alcuni altri paesi europei:
- Finlandia e Svezia, definiti in tutti i rapporti e studi come i paesi che più, nel contesto europeo, stanno investendo sulla scuola e che ottengono anche i migliori indicatori di performance in termini di risultati (vedi i rapporti Ocse-Pisa degli ultimi anni). Va ricordato che in questi due paesi, soprattutto nel comparto primaria e secondaria, la spesa è sostanzialmente del tutto pubblica;
- Germania, Francia e Spagna perché sono paesi che hanno in comune con l’Italia una lunga tradizione di scuola pubblica (nonostante in tutti questi paesi esista anche una piccola quota di investimenti privati) e alcune caratteristiche comuni dei sistemi scolastici ma hanno avuto andamenti piuttosto diversi dal nostro nel tempo con differenze anche marcate, come vedremo, in alcuni comparti del percorso di istruzione. Per la Germania mancano i dati 2005.
In entrambi gli indicatori, la lettura è piuttosto immediata: in Italia siamo passati dall’investire circa il 9% della spesa pubblica totale in scuola nel 2005 ad appena il 7,8% nel 2016. Nello stesso arco di tempo, la Finlandia rimaneva piuttosto costante, con poco più del 12%, la Svezia faceva un bel salto avanti passando dal 12,7% a ben il 15,7%, la Spagna e la Francia perdevano circa un punto percentuale di investimenti (da poco più del 10% al poco sopra il 9%) e la Germania cresceva lentamente fino ad assestarsi attorno all’11%. Se vogliamo semplificare, il dato relativo alla percentuale su tutta la spesa pubblica esprime di fatto il ‘peso’ della voce di spesa dedicata alla scuola nell’insieme degli investimenti dello stato. Complessivamente l’Italia spende in istruzione poco più di 64 miliardi nel 2016, poco più in valore assoluto rispetto al 2005, con soli due picchi di aumento in questo periodo, negli anni 2008 e 2009, quando la spesa totale in istruzione si è aggirata attorno ai 71 miliardi di euro. Poi è scesa progressivamente ogni anno fino al 2016.
Il grafico sopra, per ragioni di scala non permette di apprezzare molto la differenza tra l’investimento italiano e ad esempio quello svedese (aumentato di quasi il 50% nello stesso periodo, passando da 20 miliardi a 34 miliardi di euro equivalenti) o quello tedesco, passato da 102 miliardi nel 2006 a 151 nel 2016. E dato che si tratta di spesa in valore assoluto, è evidente che i paesi spendono di più o di meno anche in proporzione alla propria popolazione scolastica, come vedremo tra poco. Eppure, nella sostanza, dice che la Svezia ha deciso di potenziare il suo sistema scolastico in modo significativo, così come hanno fatto Germania e Finlandia. Il nostro paese no.
Se vogliamo pesare il dato della spesa in istruzione relativamente al PIL, e quindi alla ricchezza prodotta nel paese, il trend è ancora più evidente: l’Italia passa dal 4,2% nel 2005 al 3,8% nel 2016. Una contrazione piuttosto significativa, soprattutto quando la confrontiamo con gli altri paesi presi in considerazione. La Svezia, la Finlandia e la Germania hanno aumentato, negli stessi anni, gli investimenti di quasi un punto percentuale. La Spagna che aveva molto investito fino al 2011, ha poi ridotto molto gli investimenti ma è comunque rimasta a un tasso più alto di quello italiano.
Il peso reale degli investimenti nel confronto però si può avere guardando alla spesa per grado di istruzione e per studente, perché naturalmente i PIL dei paesi sono molto diversi e così anche le popolazioni scolastiche. Per operare questi confronti, utilizziamo i dati OCSE pubblicati su Education at a glance (ultimi dati disponibili del 2016), che sono del tutto confrontabili con quelli della World Bank ma consentono confronti più precisi perché forniscono ad esempio il numero di studenti immatricolati nelle scuole primarie e secondarie e all’università (quindi nella cosiddetta istruzione terziaria).
In questo caso ci concentriamo sui dati del 2016, e vediamo che l’Italia è allineata con Francia e Spagna nelle spese relative alla scuola primaria, mentre Germania, Finlandia e Svezia spendono molto di più. Ma le differenze si apprezzano molto di più quando passiamo alle spese in istruzione secondaria, dove finiamo in fondo alla scala, e soprattutto in quella terziaria dove veniamo ampiamente distaccati dagli altri paesi. Questi dati sono al netto delle spese in ricerca e sviluppo, che se fossero considerate vedrebbero l’Italia investire in Università proporzionalmente ancora di meno rispetto agli altri paesi.
Il dato del basso investimento va letto anche insieme a quello, drammatico per quanto riguarda il nostro paese, dell’abbandono scolastico, che ancora nel 2018 si attestava secondo la Commissione Europea sul 14,5% nella popolazione 18-24 anni, contro il 10% della media europea. Complessivamente, c’è un 24%, della popolazione tra i 25 e i 34 anni in possesso di un solo titolo di studio di scuola secondaria inferiore, quindi la terza media.
Aggiungiamo che solo il 27,8% della popolazione italiana tra i 30 e i 34 anni ha una laurea, contro il 40,7% della media europea.
In altre parole, quasi un quarto della popolazione che è in entrata sul mercato del lavoro ci arriva con una formazione del tutto inadeguata ad affrontare un mondo del lavoro in continuo mutamento che richiede capacità di formazione e di adattamento continuo per l’intero corso della vita adulta. E meno di un terzo ha una formazione universitaria utile a sviluppare tutte quelle competenze e professionalità necessarie ad innovare, programmare, costruire una visione di futuro.
Insegnare, un lavoro soddisfacente ma poco apprezzato e riconosciuto
Il già citato Education and training monitor della Commissione Europea del 2019 si concentra principalmente sugli insegnanti, figura chiave ovviamente dell’intero sistema educativo. Tra tutti i fattori che incidono sull’ambiente scolastico, secondo questo rapporto, gli insegnanti sono quello che pesa di più. Una considerazione probabilmente condivisa anche a buon senso dalla gran parte di noi. In media, in Europa, oltre il 60% della spesa pubblica in istruzione va a coprire il costo degli stipendi degli insegnanti.
La Commissione Europea indica come prioritari gli investimenti nella formazione degli insegnanti lungo l’intero corso della professione, anche per riuscire a fronteggiare le richieste e le necessità della scuola contemporanea, sempre più multiculturale, multilingue, con il bisogno di lavorare molto sull’educazione e la cultura digitale. Al tempo stesso, in molti paesi europei la classe docente sta invecchiando e ha necessità di un ricambio, e ci sono intere discipline per le quali il reclutamento di insegnanti è davvero problematico, come ad esempio nelle materie scientifiche, in matematica e nelle discipline ingegneristiche. In Italia, ad esempio, è previsto un ricambio di quasi il 50% della classe docente di scuola primaria e secondaria nei prossimi anni.
Il nostro paese è quello con la classe docente più vecchia d’Europa: nel 2017 ben più della metà degli insegnanti (il 58% contro il 37% della media europea) delle scuole primarie e secondarie aveva più di 50 anni e il 17% (contro il 9% della media europea) ne ha più di 60. In generale in Europa e anche in Italia c’è un enorme problema a reclutare insegnanti uomini, per cui soprattutto nelle primarie europee si raggiungono percentuali dell’85% di insegnanti donne, con una bassissima diversità del corpo docente.
In Italia, secondo questo rapporto, in generale gli investimenti soprattutto nell’educazione secondaria e terziaria, sono ben al di sotto della media europea e gli insegnanti, parlando di scuole primarie e secondarie, hanno un salario pari all’80% di quello medio dei loro colleghi europei. Come vediamo dal grafico qui sopra, il costo del salario medio (espresso in dollari americani) di un insegnante italiano con più di 15 anni di esperienza è superiore solo a quello francese ma ben al di sotto di quello degli altri paesi. Certo il costo lordo non dice esattamente quanto entra in tasca a un insegnante a fine mese, perché il costo del lavoro può essere anche molto diverso tra paese e paese, ma aiuta a dare una indicazione. In più, il sistema di reclutamento e di stipendio degli insegnanti è diverso tra i vari paesi, e ci sono paesi come ad esempio l’Olanda che negli ultimi dieci anni hanno introdotto sperimentazioni come quella del salario differenziato.
Interessante però è la nota che rileva che gli insegnanti italiani sono tra quelli più soddisfatti del proprio lavoro rispetto ai colleghi europei, ma che solo una piccola percentuale ritiene di essere valorizzato per quello che fa. In media, in Europa, solo il 18% degli insegnanti si sente apprezzato socialmente e valorizzato come professionista. Un dato positivo, quello italiano, che dice come molti nostri insegnanti lavorino con passione e con assoluta dedizione, nonostante il quadro attorno a loro sia effettivamente molto difficile e le risorse molto scarse.
E in futuro?
Contrariamente a quanto dichiarato dal governo in occasione dell’approvazione della legge sulla Buona Scuola, l’ultima riforma consistente della scuola italiana, la cifra investita dall’Italia in istruzione non è aumentata dopo il 2015, e anzi nell’anno successivo è addirittura ulteriormente diminuita. Un ulteriore record negativo che porta addirittura, come fa notare il Sole 24 Ore in una serie di articoli sul tema pubblicati a giugno di quest’anno, la spesa in istruzione attorno o al di sotto, negli ultimi anni, della spesa per il debito pubblico italiano.
Di fronte a questo panorama decisamente poco consolante, ci si aspetterebbe forse un guizzo d’orgoglio e interesse da parte di chi sostiene che la scuola è il fondamento di una democrazia. E in effetti le dichiarazioni pubbliche del ministro Fioramonti sono tutte tese a definire l’ottenimento di 3 miliardi di euro in più per la scuola dalla tassazione di alcuni beni di lusso o dalla famosa "sugar tax" sulle bibite e merendine, che per ora pare slittare. Per ora rimangono dichiarazioni, e quello che fa fede è il "Documento di programmazione finanziaria" (DEF).
Nella versione approvata dal governo giallo-verde lo scorso anno, la spesa per istruzione è appena accennata e non viene dettagliata in alcun modo. Il documento è stato poi recentemente aggiornato dall’attuale governo e in questa nuova versione l’istruzione è solo apparentemente più presente: si parla di generici investimenti per “Migliorare i risultati scolastici, anche mediante adeguati investimenti mirati, e promuovere il miglioramento delle competenze, in particolare rafforzando le competenze digitali” per il 2019, e di “Promuovere la ricerca, l’innovazione, le competenze digitali e le infrastrutture mediante investimenti meglio mirati e accrescere la partecipazione all’istruzione terziaria professionalizzante.” tra gli obiettivi 2020. Nella sezione dedicata all’istruzione, a pag. 87, si citano inoltre i seguenti impegni:
- Per garantire una maggior funzionalità e qualità del sistema nazionale di istruzione e formazione si rende opportuno ripensare i percorsi di formazione e abilitazione del personale docente. A tal fine verrà presentato alle Camere un disegno di legge collegato alla manovra di finanza pubblica.
- Nell’ambito della procedura di autorizzazione al reclutamento del personale docente per l’anno scolastico 2019/2020, a luglio è stato dato il via libera all’assunzione fino a 53.627 docenti, per la copertura di altrettanti posti vacanti e disponibili in dotazione organica. Entro la fine del 2019 sarà bandito un concorso ordinario per coprire 16.959 posti della scuola dell’infanzia e primaria.
Nel documento programmatico di bilancio 2020, si legge l’indicazione che “La spesa per istruzione in rapporto al PIL si attesta in media al 3,4% nel quinquennio 2015-2019”. Sempre nel piano DEF di lungo periodo si prevede che questo dato scenderà attorno al 3,3% nel 2025 e addirittura al 3,1% nel 2035. Una riduzione motivata sulla carta dalla contrazione della popolazione scolastica, ma che riflette anche una visione strategica ben precisa: l’istruzione non è una priorità nel pensiero di chi elabora una visione di lungo periodo degli investimenti pubblici.
Vecchie e insicure: la situazione delle scuole italiane
31 ottobre 2002: un terremoto fa crollare la scuola di San Giuliano di Puglia, in Molise. E uccide 27 bambini e un’insegnante. La scuola è l’unico edificio del paese, una comunità di poco più di 1000 abitanti, a crollare. Nonostante si sia già iniziato a parlare di edilizia scolastica, soprattutto dopo il terremoto in Umbria del 1997, la tragedia di San Giuliano segna un punto chiave nella discussione pubblica italiana sullo stato delle scuole. Cittadinanzattiva, per esempio, inizia a chiedere informazione sulla sicurezza degli edifici al Ministero dell’Istruzione, che non risponde. Lo stesso fanno i genitori di San Giuliano, riuniti in comitato. E la discussione diventa pubblica.
Pochi mesi dopo, il governo presieduto da Silvio Berlusconi approva un primo finanziamento per effettuare una verifica della vulnerabilità sismica degli edifici pubblici italiani, con le scuole come priorità. Sembra l’inizio di una fase nuova. E invece. Anno dopo anno slittano i termini, le verifiche non vengono effettuate, gli enti locali si fanno prendere da altre emergenze, l’anagrafe dell’edilizia scolastica rimane vuota e non aggiornata.
Nel 2012 assieme a un gruppo di colleghi ho realizzato la lunga inchiesta #scuolesicure pubblicata su Wired. Cercavamo i dati delle verifiche effettuate, le somme dei fondi stanziati, informazioni aggiornate sulle scuole. Niente. Dirigente dopo dirigente abbiamo costantemente trovato un muro e abbiamo finito con il pubblicare la mappa dell’ignoranza, una delle prime esperienze di datajournalism in Italia.
Intanto in Italia c’erano stati altri terremoti: l’Aquila, 2009 e Emilia 2012. E il crollo del soffitto del liceo Darwin a Rivoli, Torino. Ma le scuole sembravano non importare a nessuno.
Ho continuato a scavare anche anni dopo, quando finalmente l’anagrafe è stata pubblicata, con tanti buchi e informazioni spesso troppo vaghe per capire davvero come stavano le nostre scuole. Nel 2017 ho fatto un altro pezzo di inchiesta per AGI, grazie anche a un FOIA, una richiesta di accesso agli atti, voluta dall’allora direttore Riccardo Luna. In quell’occasione abbiamo così capito che qualcosa in più era stato fatto, dal governo Renzi.
Poi un nuovo stop e soprattutto, di nuovo, la difficoltà ad avere informazioni. Addirittura, un sito chiave come cantieriscuole.it, che finalmente teneva traccia dei lavori in corso e dei finanziamenti spesi per ogni scuola, con il dettaglio di quello che veniva fatto, è stato chiuso a pochi mesi dall’insediamento del primo governo Conte.
E arriviamo al presente. Con un’anagrafe quasi completa, ma tuttora priva dei dati geografici precisi (ci sono gli indirizzi delle scuole, ma non le coordinate, e quindi è molto complicato costruire delle mappe precise e aggiornate).
Qui sotto, una timeline che ricostruisce le tappe principali della vicenda della valutazione dello stato di sicurezza delle scuole, dei vari finanziamenti e delle decisioni prese, sulla carta. Di quello che è stato fatto e di quello che non è stato fatto.
La fotografia complessiva è davvero sconsolante: in un paese che ha più di metà del territorio altamente sismico, sono state verificate circa 2 scuole su 10 per quanto riguarda la vulnerabilità sismica e 6 scuole su 10 non hanno nemmeno un certificato di agibilità. Non è facile tenere traccia dei finanziamenti, perché i soldi arrivano da 12 fondi diversi e le graduatorie sono dinamiche: dopo lo stanziamento i fondi vanno agli enti locali, che a volte co-finanziano, a volte no, a volte non riescono a fare i bandi, a volte spendono di più o di meno.
Ma almeno ora è tutto online, e con un po’ di pazienza è possibile almeno avere un’idea della situazione. Che è vergognosa, davvero. Ma sulla quale è necessario continuare a tenere alta l’attenzione.
Immagine di Juraj Varga da Pixabay