La lentissima marcia per l’innovazione e la digitalizzazione della scuola italiana
19 min letturaA marzo scorso il mondo della scuola italiana è entrato in una sorta di universo parallelo dove sono state letteralmente mandate per aria decenni di abitudini e pratiche consolidate, di ritualità, di modalità formative, anche di equilibri e rapporti tra chi insegna e chi impara. Uno shock collettivo che ha travolto milioni di bambini e ragazzi, i loro insegnanti e le loro famiglie. Non è stato però, come si ama ripetere, l’effetto drammatico di un’emergenza imprevedibile. Al contrario, le ragioni sono molto chiare e difficilmente, date le scelte politiche e culturali fatte negli ultimi 30 anni, avrebbe potuto andare in un altro modo. La digitalizzazione di un paese non si improvvisa, tutto qui.
L’assenza della transizione digitale della società italiana, e della scuola con lei, posizionata addirittura in retroguardia per quanto possibile, oggi la paghiamo a carissimo prezzo di stress, senso di inadeguatezza, perdita del controllo testimoniata dalle migliaia di post disperati e afflitti di altrettanti insegnanti sui vari social media. Ma le radici, ragioni, motivazioni e responsabilità sono molto chiare, profonde e vanno indietro negli anni. Ed è molto importante inquadrarle, anche solo per leggere quello che è successo in questi mesi sotto una luce non solo emergenziale, come vorrebbero fare in troppi. Alla pandemia, siamo arrivati impreparati in termini sanitari e di organizzazione sociale, e non avremmo dovuto (come abbiamo ben discusso anche qui su Valigia Blu). Alla Dad pure. E qui, tutto sommato, era pure più semplice evitarlo.
Diciamo subito che nessuno, nemmeno gli entusiasti delle tecnologie digitali, auspica una scuola vissuta interamente a distanza. Che la Dad sia sempre e comunque, anche nella migliore delle organizzazioni possibili, una scelta forzata e incomparabile rispetto all’esperienza scolastica in presenza, non è in discussione. Ma certo, se si ha idea di cosa significa fare scuola usando bene le opportunità, gli strumenti e gli approcci culturali resi possibili dalle tecnologie digitali, si vive anche la Dad meno come una disfatta e più come una soluzione temporanea per lavorare con i propri studenti in un periodo molto complicato.
L’informatica a scuola, questa sconosciuta
La prima menzione dell’idea di introdurre una formazione alle tecnologie informatiche a scuola è già di fine anni ‘90. Luigi Berlinguer, successivamente Ministro dell’Istruzione e autore di una discussa e molto avversata riforma della scuola, ne parla esplicitamente in alcuni documenti di lavoro ministeriali preparatori. La legge Berlinguer, che introduce un riordino dei sistemi scolastici, viene promulgata nel 2000 dal suo successore, il linguista Tullio De Mauro e cancellata subito dopo da Letizia Moratti. Berlinguer, facendo esplicitamente riferimento alla necessità di trasformare il modello della scuola da trasmissione-acquisizione di conoscenze a quello basato su una sollecitazione dell’intelligenza critica, della ricerca, dell’approfondimento, della coniugazione più stretta tra il momento cognitivo ed intellettuale e quello applicativo e di indagine, aveva proposto una riorganizzazione del sistema scolastico sulla base di un rinnovato rapporto con la società e la cultura contemporanea (art. 3 della legge, tra le finalità ci sono “l’apprendimento di nuovi mezzi espressivi” e il “consolidamento dei saperi di base, anche in relazione alla evoluzione sociale, culturale e scientifica della realtà contemporanea”). La sua legge fa poi un riferimento esplicito all’introduzione di un’alfabetizzazione informatica già dal ciclo scolastico di base, la scuola primaria.
Sono gli anni del processo Bologna (1999) e della strategia di Lisbona (2000) in cui l’Europa si accorda per darsi l’obiettivo di sviluppare una società della conoscenza che renda i cittadini europei capaci di stare al passo con gli enormi cambiamenti in atto: la fine della guerra fredda e del bipolarismo; la nascita di un modello economico centrato sulla globalizzazione e la diffusione delle tecnologie dell’informazione funzionali e centrali a questo nuovo sistema. A Lisbona i capi di Stato temono che l’Europa non sia pronta, che i suoi sistemi formativi siano troppo ancorati a modelli non più attuali e inadatti a formare cittadini con la cultura e le competenze (una parolaccia per molti sostenitori dell’idea di una scuola unicamente finalizzata alla costruzione e condivisione di sapere e non a finalità di impiego, ma tant'è) utili a entrare nel mondo del lavoro contemporaneo.
In particolare, Lisbona sottolinea una mancanza di qualificazione accentuata nell’ambito delle tecnologie dell’informazione. L’Europa si dà in quell’occasione l’ambizione di diventare “l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. Tra i punti esplicitamente menzionati nel Trattato si parla della necessità di “dare a ogni cittadino le competenze necessarie per vivere e lavorare in questa nuova società dell’informazione” e “garantire a tutte le scuole dell’Unione l’accesso a Internet e alle risorse multimediali entro la fine del 2001 e garantire altresì che tutti gli insegnanti necessari fossero in grado di usare Internet e le risorse multimediali entro la fine del 2002”. Si parla di “trasformare le scuole e i centri di formazione, tutti collegati a Internet, in centri locali di apprendimento plurifunzionali accessibili a tutti, ricorrendo ai mezzi più idonei per raggiungere un’ampia gamma di gruppi”. Inutile sottolineare che gli obiettivi erano di fatto già stati raggiunti da alcuni paesi dell’Unione, segnatamente la Finlandia e la Svezia, che hanno in un certo senso fatto da benchmark per gli altri.
Nel 2003 Letizia Moratti fa la sua, di riforma. Riprendendo e adattandoli al proprio orientamento politico e a una netta propensione verso un’aziendalizzazione e privatizzazione dell’istruzione, introduce le lingue, l’informatica e una visione più imprenditoriale nella scuola. Sono le famose tre I di berlusconiana memoria, ovviamente ancora una volta promessa rimasta incompiuta. Si fa esplicitamente riferimento alla necessità di una didattica adeguata ai tempi nonché a quella di collegare la cultura scolastica con quella d’impresa. Sarà forse anche per questo che si è finito con il sovrapporre l’idea di educazione al digitale con quella di una deriva aziendale e privatistica della scuola, portandosi appresso, nel rifiuto di quest’ultima, anche la prima. Le successive riforme, Fioroni nel 2007 e infine quella che invece delinea il mondo della scuola odierna, la riforma Gelmini del 2008, non fanno alcun passo avanti significativo nel campo della digitalizzazione e si occupano di altro.
La legge di riforma Gelmini ha sollecitato molte critiche tra docenti e ricercatori degli ambiti pedagogici per diversi motivi, in gran parte ampiamente condivisibili che hanno risposto con diverse controproposte. Nella “Lettera a un ministro della pubblica istruzione. 7 critiche, pedagogicamente fondate, alla riforma della scuola primaria”, pubblicata in “Ricerche di Pedagogia e Didattica” nel 2009, un gruppo di ricercatori e studenti del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna fornisce alcune chiavi di lettura critiche. Rimanendo nello specifico dei riferimenti alla strategia di Lisbona, e quindi alla costruzione di una società e un’economia della conoscenza, gli autori citano esplicitamente il ruolo “dell’apprendimento, lifelong e lifewide, di competenze strategiche che permettano ai cittadini della società della conoscenza di affrontare i repentini e continui cambiamenti (...) tra cui la più importante sembra essere la meta-cognizione, l’imparare a imparare; il continuo sviluppo e la rapida diffusione in scala globale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) che influenza, da un lato, e rende possibile, dall’altro, fenomeni socio-economici (per es. la globalizzazione) legati all’attivazione di relazioni, di comunicazioni e di scambi non più condizionati dai fattori spazio e tempo, ma anche la costruzione di sempre nuova conoscenza”.
I ricercatori sottolineano anche come le nuove tecnologie “non devono essere utilizzate solo per il raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo economico e politico, ma anche per promuovere una maggiore equità e giustizia sociale e una migliore democrazia a livello locale e internazionale”. E ancora tornano sullo stesso punto suggerendo di pensare proprio alla scuola come al luogo dove si possano sviluppare “sia le competenze strategiche richieste dalla società dell’informazione, delle tecnologie, della meta-cognizione e del continuo cambiamento, sia stimolare apprendimento e socializzazione aperti all’ambiente e all’esperienza.”
Ecco, qui sta, probabilmente, già tutta la riflessione necessaria a promuovere un uso intelligente delle tecnologie a scuola in una visione integrata della didattica: non c’è alcun bisogno di opporre l’uso della tecnologia all’idea, francamente ormai ampiamente fuori tempo e fuori luogo, di un approccio alla scuola esclusivamente basato su metodologie e strumenti tradizionali considerati da molti, ancora da troppi insegnanti e dalle loro associazioni e sindacati di riferimento come superiori, di maggiore qualità, più adatti a un apprendimento approfondito che non dovrebbe essere svilito dalle tecnologie. Il documento bolognese però dice anche un’altra cosa molto chiaramente: al di là delle dichiarazioni di intento, infatti, sia la riforma Moratti che quella Gelmini si sono consumate nel contesto di una continua riduzione delle risorse messe a disposizione della scuola, con tagli del numero di insegnanti e dei finanziamenti. Bisognerebbe, dicono gli autori della Lettera, investire in creatività e cooperazione e di fronte alla crisi finanziaria sarebbe necessario sostenere la crescita di tutta la società non facendo prevalere solo i più competitivi.
Sulla riforma si espresse con una certa chiarezza anche Sergio Mattarella che negli anni ‘90, da Ministro della pubblica istruzione, aveva introdotto il sistema modulare alle scuole primarie, con più maestri per classe. In un articolo pubblicato nel settembre 2009 sul quotidiano Europa, Mattarella spiega la ratio dietro quella scelta, di avere più maestri per classe, era “il grande ampliamento dell’ambito dei saperi che la scuola elementare era chiamata a impartire ai bambini verso il duemila. Bambini che, già allora e oggi molto di più, giungono alla scuola elementare con numerosi elementi di conoscenza acquisiti dalla tv e dai mini computer; bambini chiamati ad affrontare la realtà del loro futuro con il bisogno di padroneggiare conoscenze e strumenti molto più articolati di quanto si proponeva ai bambini di decenni addietro”
I primi piani per la scuola digitale
Come hanno raccontato anche Claudia Torrisi e Andrea Zitelli qui su Valigia Blu, una primordiale versione del Piano Nazionale della Scuola Digitale, noto come PNSD, arriva al MIUR nel 2007. L’anno dopo, mentre la Gelmini porta avanti la sua riforma, si avvia anche Azione LIM, un programma quadriennale per la diffusione della lavagna interattiva multimediale nelle scuole. Vengono acquistate e distribuite 35mila LIM e formati più o meno 72mila docenti. La LIM però rimane, in larghissima parte, utilizzata solo come lavagna e non ne vengono sfruttate le potenzialità interattive fino a questi giorni. In parte anche per la strana scelta, ripetuta anche con altri strumenti digitali dai registri elettronici alle piattaforme di cloud per esempio, di far sì che le scuole acquistino le LIM da ditte diverse, con software proprietari diversi talvolta o spesso incompatibili tra loro. E se questo non è necessariamente un problema per un docente che lavora in una sola scuola, per molti dei docenti precari o per quelli che prestano servizio in scuole diverse, diventa davvero poco appetibile l’idea di fare un grosso lavoro di produzione di materiali multimediali, digitali, interattivi che poi non si possono portare in altre classi e scuole.
Questi sono anche gli anni in cui iniziano le sperimentazioni di una pedagogia più laboratoriale che spostano l’asse dalla tradizionale lezione trasmissiva all’idea che gli studenti studino (o guardino, in formato video) la lezione a casa avendo accesso anche a diversi materiali proposti dai docenti e poi questa venga rielaborata, discussa, assieme a problemi e criticità, nel tempo in classe che diventa così luogo di collaborazione, discussione, dove magari sono gli studenti stessi a portare contributi aggiuntivi, a proporre interpretazioni e loro approfondimenti e via dicendo. Un docente che dunque diventa anche facilitatore della discussione, un partecipante esperto in un certo senso, più che solo erogatore di conoscenza. I primi esperimenti di flipped classroom arrivano dagli Stati Uniti, ma in realtà molti ricercatori ravvisano già in metodi pedagogici ben precedenti, tra cui ad esempio il metodo Montessori, alcuni degli elementi poi ripresi appunto da chi propone questo genere di rovesciamento della didattica. In particolare, l’idea montessoriana che l'educazione debba essere incentrata sulle necessità del bambino e che l'educatore abbia un ruolo di guida e sostegno è senz’altro alla base anche della classe capovolta. Oggi le esperienze di classe capovolta sono parecchie anche da noi, ma sempre largamente minoritarie, quasi eccezionali nel panorama della scuola italiana.
Dal 2009 al 2012, il MIUR lancia l’Azione Cl@ssi 2.0 con lo slogan “non più la classe in laboratorio ma il laboratorio in classe”. A questo progetto prendono parte 416 classi di vari ordini scolastici coinvolte nella realizzazione di ambienti di apprendimento innovativi con circa 10 milioni di euro investiti in attrezzature e formazione. Nel 2010 Azione Editoria digitale scolastica lancia un progetto per la produzione di contenuti digitali in 20 istituti scolastici e nel 2011 Azione Scuol@ 2.0 coinvolge 14 istituti scolastici per “percorrere una linea di innovazione molto avanzata” attraverso strategie che coniugano “l’innovazione nella programmazione didattica con nuovi modelli di organizzazione delle risorse umane ed infrastrutturali dell’istituzione scolastica”. L’anno dopo, siamo al 2012, un accordo tra il Miur e le regioni per promuovere la digitalizzazione sul territorio assegna altre 1931 LIM, forma 905 Cl@ssi 2.0 e 23 Scuole 2.0. C’è anche Azione Centri Scolastici Digitali (CSD) che finanzia 45 iniziative a sostegno di scuole nelle piccole isole o nelle zone montane. Sul fronte della formazione, nasce l’Azione Poli Formativi, dove sono alcune istituzioni scolastiche a diventare referenti nelle province e regioni per fare formazione tra pari a docenti di altre scuole. I docenti formatori, che poi diventeranno gli animatori digitali, sono volontari: nel 2013 ci sono 25mila docenti che chiedono formazione e 2473 che si sono offerti come tutor in tutta Italia. C’è qualche altra linea di finanziamento: una specifica per portare il wifi alle scuole, vengono finanziati 1554 progetti e una per progetti nelle regioni del Sud, per un totale di 3600 scuole.
Nasce poi, all’interno dell’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (INDIRE) la rete italiana di Avanguardie educative, che inizialmente conta 22 scuole, per portare avanti progetti di cambiamento e trasformazione del modello trasmissivo della scuola, sfruttando le opportunità offerte dagli strumenti digitali e creando nuovi spazi, tempi e modi di apprendimento connettendo i saperi della scuola con quelli della società della conoscenza. Questa rete è cresciuta e oggi comprende 1200 istituti tra le capofila e quelle che aderiscono cercando di attuare almeno un progetto innovativo tra quelli indicati.
Così arriviamo al 2015. Alla legge 107, voluta dal governo Renzi e raccontata come la legge della Buona Scuola. E alla versione più compiuta del Piano Nazionale Scuola Digitale. Ora, facciamo un piccolo esercizio di conto. I numeri indicati sono quelli che bastano, agli estensori del PNSD, per dire che “la buona scuola digitale esiste già” e per parlare, addirittura, di radicamento della transizione digitale nel sistema educativo italiano. In Italia però ci sono circa 34mila scuole attive, con più di 8 milioni di studenti di ogni ordine e grado e più o meno un milione di docenti. Parlare di embrione di scuola digitale, quando gli esperimenti citati non sono arrivati che a poche migliaia di scuole e classi, forse, è più onesto. Definirlo radicamento di una dimensione già consistente, dire che la buona scuola digitale c’è già è francamente abbastanza patetico.
Il PNSD e la sua attuazione
Ciò nonostante, fatta questa ricognizione enfatica ampiamente descritta nelle sue prime pagine, il PNSD renziano si lancia con grande entusiasmo nel ‘consolidare’ l’azione di trasformazione digitale attraverso una serie di circa 35 linee di finanziamenti, piani, progetti.
Molte di queste iniziative sono a bando. Lo sottolineo, perché tanti dirigenti e docenti di diverse scuole con i quali ho parlato in questi anni sostengono che il fatto che i fondi siano assegnati a bando e non dopo attenta rilevazione dei bisogni ha portato alla situazione paradossale che a ricevere sostegno e finanziamenti siano non di rado quelle scuole che per ragioni diverse - personale particolarmente versato nella scrittura di progetti o esistenza di relazioni sul territorio con enti, fondazioni e finanziatori privati - riescono già a fare molti progetti. In altre parole, dove esistono risorse umane molto allenate e risorse territoriali già attivate si rischia di avere maggiore capacità di attrazione dei fondi rispetto ad altre realtà che queste risorse non le hanno.
Nelle intenzioni dichiarate del PNSD la transizione digitale della scuola italiana non doveva essere una questione meramente tecnologica. “Si tratta prima di tutto di un’azione culturale, che parte da un’idea rinnovata di scuola, intesa come spazio aperto per l’apprendimento e non unicamente luogo fisico, e come piattaforma che metta gli studenti nelle condizioni di sviluppare le competenze per la vita” si legge nell’introduzione al piano, in modo che le tecnologie diventino “abilitanti, quotidiane, ordinarie, al servizio dell’attività scolastica, in primis le attività orientate alla formazione e all’apprendimento, ma anche l’amministrazione, contaminando - e di fatto ricongiungendoli - tutti gli ambienti della scuola: classi, ambienti comuni, spazi laboratoriali, spazi individuali e spazi informali. Con ricadute estese al territorio.”
Il Piano, forse la sua principale debolezza, non fa un ragionamento sul piano della cultura educativa. Gli obiettivi sono dichiaratamente quelli di costruire e rafforzare ancora una volta competenze da aggiornare “per rispondere alle sfide di un mondo che cambia rapidamente, che richiede sempre di più agilità mentale, competenze trasversali e un ruolo attivo dei giovani.” E fa una vera e propria chiamata a tutto il personale scolastico “per abbracciare le necessarie sfide dell’innovazione: sfide metodologico-didattiche, per i docenti, e sfide organizzative, per i dirigenti scolastici e il personale amministrativo.” Con una serie di azioni previste per rafforzare sia le infrastrutture che la formazione dei docenti.
Eccoci al 2020, a inizio pandemia
A leggerlo ora, quel Piano irrita ancor più di quanto già non facesse al momento della sua pubblicazione. E non, per essere chiari fin da subito, perché chi scrive abbia nulla contro la transizione digitale. Al contrario. Un malloppone corposo, 140 pagine piene di buone intenzioni, di qualche strumento concreto ma privo, per la maggior parte, di un inquadramento realmente culturale nonostante le premesse, di riferimenti teorici, di ragionamenti sullo stato attuale (allora come adesso) della scuola, delle vere risorse sia economiche, che educative, formative e umane messe in campo.
Nessun riferimento onesto allo stato penoso della gran parte degli edifici scolastici (di cui abbiamo parlato molto anche qui), spesso nemmeno raggiunti da una rete in banda larga, o a malapena coperti in un’aula o due da un wifi tremolante. Nel corso di diversi reportage sul campo, insegnanti molto appassionati di innovazione e animatori digitali mi hanno fatto vedere la centralina della fibra, che arrivava magari pure alla scuola. Nel senso che arrivava al cancello. Ma poi, la scuola non aveva i soldi per fare un contratto con gli operatori e portare il wifi in tutte le aule. E quindi magari la rete c’era in una o due aule, ma non copriva i tre piani e le decine di aule di tante nostre scuolone, costruite in altri tempi e mai riviste, ristrutturate, migliorate. Nemmeno messe in sicurezza, ma questa è una storia almeno in parte diversa.
Al di là della spesa in istruzione e formazione, c’è comunque un immenso problema infrastrutturale e di connettività che nel 2020 ha fatto vedere tutta la sua dimensione. Solo un quarto delle famiglie italiane è raggiunta da una banda larga ad almeno 100Mbps, e complessivamente la banda larga fissa raggiunge l’80% delle famiglie lasciando dunque un quinto della popolazione a navigare molto lentamente.
Secondo l’indice DESI 2020 della Commissione Europea che misura la digitalizzazione dell’economia e della società, l’Italia era al 25esimo posto nell’Unione prendendo in considerazione un insieme di parametri. In termini specifici, come connettività era al 17esimo. Ben al di sotto della media europea, mentre se parliamo di costi, connettersi in rete nel nostro paese costa ben più della media europea sia per le linee fisse che per quelle mobili.
Il piano Banda Ultra Larga è ancora molto indietro rispetto agli obiettivi raggiunti, come chi scrive ha raccontato in diversi articoli nel corso degli anni (l’ultimo sul tema qui, su Il Bo Live): oggi abbiamo circa metà del paese che naviga a più di 30Mbps, quindi diciamo con una velocità sufficiente a stare in rete utilizzando piattaforme e contenuti multimediali e interagendo con diverse persone in call. L’altra metà però va ben più lenta per non parlare di circa 11 milioni di persone (il 18% della popolazione italiana, quasi un quinto) che vivono in zone montane e che hanno molto raramente accesso a una rete veloce, come abbiamo raccontato in modo dettagliato anche qui, dove anche la rete mobile in molte zone è altalenante e poco affidabile (i dati sono del rapporto La montagna in rete, pubblicato lo scorso anno da UNCEM, l’Unione nazionale comuni comunità e enti montani).
Insomma, a valle di tutti questi piani e riforme, come siamo atterrati a marzo 2020, quando il paese si è chiuso e la scuola doveva passare in modalità digitale? Su un’ala sola, più o meno… storti e fuori pista, ecco.
Competenze e attrezzature delle scuole
Al di là di tante dichiarazioni, incluse quelle ambiziose del PNSD, negli anni il nostro paese ha speso sempre meno in educazione, in scuola, in formazione. Guardando ai dati di Education at a glance, il rapporto annuale che OCSE fa sul mondo dell’educazione, i dati del 2020 dicono che la media della spesa in educazione rispetto al totale della spesa pubblica è dell'11% (dati 2017) nei diversi paesi OCSE. Nel nostro siamo appena sopra l’8% (ne avevamo parlato su Valigia Blu in questo focus di fine 2019). In termini di PIL, siamo passati dall’investire il 4,2% nel 2005 al 3,8% nel 2016. E visti gli andamenti del nostro PIL in questo intervallo di tempo, la spesa è rimasta invariata in termini assoluti e quindi diminuita in termini reali: 64 miliardi di euro spendevamo nel 2005 e più o meno la stessa cifra oltre 10 anni dopo, nel 2016.
Un dato chiave, che emerge da tutti i rapporti, è anche quello che ci dice che gli insegnanti italiani sono tra i più anziani d’Europa e tra i meno pagati. Lo dicevamo appunto nell’articolo già citato di fine 2019, “Il nostro paese è quello con la classe docente più vecchia d’Europa: nel 2017 ben più della metà degli insegnanti (il 58% contro il 37% della media europea) delle scuole primarie e secondarie aveva più di 50 anni e il 17% (contro il 9% della media europea) ne ha più di 60.” Gli insegnanti italiani guadagnano in media circa l’80% di quello medio dei loro colleghi europei e soprattutto la differenza tra stipendio all’entrata e all’uscita è molto ridotta.
Nel 2017, dopo aver fatto una richiesta di dati al MIUR assieme a Riccardo Luna, allora direttore di AGI, abbiamo pubblicato una fotografia dell’attuazione del PNSD a due anni dall’entrata in vigore che davvero restituiva una fotografia sconfortante: “Le sessanta ore di coding non ci sono ancora. La connessione in fibra ottica in tutte le scuole entro il 2018, promessa e poi rinviata al 2020, è ferma a poco più di una scuola su dieci.” Contestualmente, a due anni dall’approvazione del PNSD, nel settembre 2017, non erano stati inviati ancora i contributi alle scuole per la connettività impegnati due anni prima né il piccolo fondo da mille euro l'anno per scuola per coprire il lavoro degli animatori digitali, nel frattempo arrivati a circa 8000. Il MIUR ci aveva confermato poi che la prima tranche di pagamenti era stata inviata nel corso dell’autunno 2017.
In quel momento, comunque, sembrava che davvero le intenzioni di spingere sulla digitalizzazione fossero serie. Si era parlato anche di una massiccia iniziativa di formazione nelle scuole contro la disinformazione e le fake news. Ma poi è cambiato (ancora) il ministro, dalla Fedeli siamo passati a Fioramonti che ha introdotto la famosa ora di educazione civica che include un terzo di educazione digitale. Con il governo gialloverde prima e giallorosso poi la scuola non è però riuscita ad acquisire alcuno spazio davvero consistente nell’attenzione politica, tanto che il ministro grillino ha deciso di lasciare il suo posto in polemica con i bassi finanziamenti previsti dalla legge di bilancio 2019. E siamo arrivati alla ministra Azzolina.
Quando poi siamo entrati in pandemia questa situazione si è concretizzata in dati ormai tristemente noti. Con un allargamento della forbice delle disuguaglianze, un meccanismo che ha reso ancora più difficile e pesante il bilancio in termini di possibilità formative, di accesso e di distanza tra chi ha potuto, tutto sommato, continuare a fare scuola in un modo o nell’altro e chi la scuola non l’ha vista proprio più. Perché non è vero che per tutti i bambini e ragazzi italiani la scuola non ha mai chiuso, come amano ripetere a mo’ di slogan diversi soggetti, sia in ambito politico che nel mondo della scuola. E non ci riferiamo solo al dato davvero vergognoso che riporta dell’esclusione quasi completa di almeno un quarto degli alunni con disabilità. Anche per un numero affatto piccolo di altri studenti, la scuola ha proprio chiuso, non c’è stata e non ha potuto garantire quella continuità non solo didattica ma di esperienza umana di conoscenza e di sviluppo sia individuale che collettivo che dovrebbe essere alla base del diritto all’istruzione.
ISTAT, nel rapporto annuale 2020, ha mostrato chiaramente che nel settore dell’istruzione e della conoscenza, “l’Italia ha affrontato lo shock della pandemia in una situazione di svantaggio consistente nel confronto con gli altri paesi avanzati, sia in termini di livelli di scolarizzazione che di digital divide”. In primo luogo, siamo uno dei paesi con più alto tasso di dispersione scolastica (nella media UE27 quasi 8 adulti su 10 hanno un diploma di scuola superiore, mentre nel nostro paese questo numero scende a poco più di 6 su 10 e simili differenze ci sono anche per quanto riguarda la percentuale dei laureati). E siamo un paese che usa meno i servizi digitali di altri: Internet è regolarmente utilizzato dal 74% degli italiani tra i 16 e i 74 anni, tre su quattro, ma dall’85% delle persone della stessa età nella media europea. Soprattutto, in Italia il 20% degli adulti ha elevate competenze digitali contro il 33 della media europea (ma si arriva al 50% in Danimarca, Olanda, Svezia, UK, Finlandia e al 40% circa in Germania e in Spagna).
Dati confermati e ampiamente commentati nel rapporto Learning at a distance focalizzato sul caso italiano e pubblicato a febbraio di quest’anno, nel quale UNICEF riporta che i bambini italiani durante il lockdown dello scorso anno hanno perso in media 65 giorni di scuola, in confronto ai 27 giorni persi negli altri paesi ad alto reddito (in molti paesi europei le scuole non hanno mai chiuso nel corso della cosiddetta I ondata dell’epidemia). Sono stati circa 3 milioni i bambini e ragazzi italiani che hanno avuto difficoltà a connettersi alla Dad per mancanza di connettività o di strumenti e dispositivi.
A luglio dello scorso anno, Openpolis pubblicava un nutrito report sulle povertà educative in cui parlava anche, ma non solo, di disuguaglianze digitali. Il report ci ha ricordato che ad esempio più di 4 bambini e ragazzi su 10 vive in una abitazione sovraffollata dove è dunque difficile fare una Dad nelle migliori condizioni. Più di un ragazzino su dieci non ha un pc a casa, quasi due su dieci in certe zone del Sud del paese per un totale di 850mila ragazzini tra i 6 e i 17 anni. Ma poi, 6 su 10 hanno sì un dispositivo in casa solo che non è necessariamente per un loro uso personale, dal quale poter fare dad per ore ogni giorno. Solo 6 ragazzi su 10 vivono in famiglie dove c’è un computer per persona.
Alle difficoltà tecniche, almeno in termini di dispositivi, si è cercato di porre rimedio in emergenza, con lo stanziamento di 150 milioni di euro tra decreto Cura Italia e risorse Pon per acquisto di computer, tablet e strumenti per la didattica a distanza da dare in comodato d’uso alle famiglie che ne avevano necessità. Il vero problema poi è però l’insieme di condizioni al contorno che rendono questa situazione un immenso amplificatore di disuguaglianza: la connettività che dipende molto dal dove si vive. E soprattutto le condizioni socio-economiche e culturali, la casa, gli ambienti, la possibilità di avere genitori disponibili e in grado di aiutare e supportare in attività a distanza laddove tutto è stato improvvisato e attivato senza alcuna preparazione precedente. In molti, moltissimi, hanno cercato di imparare in corsa e adattarsi come hanno potuto. In molti, comunque sempre troppi, non ce l’hanno fatta.
E in un paese dove il sistema di istruzione pubblica, gratuita, accessibile e universale è stato l’orgoglio per decenni e ha fatto addirittura da modello in tanti altri luoghi del mondo, questa è davvero una situazione inaccettabile.
Immagine anteprima via skyneshe