La scuola italiana alle prese col digitale fra disuguaglianze, ritardi e senza una vera visione
17 min letturaSu proposta di un nostro lettore e sostenitore abbiamo deciso di lavorare a un approfondimento sulla scuola. In questa seconda parte, abbiamo approfondito il tema della digitalizzazione e del digitale a scuola. Nella prima parte abbiamo analizzato invece i dati sugli investimenti fatti dallo Stato sulla scuola e ricostruito la situazione degli edifici scolastici. Successivamente pubblicheremo un terzo capitolo che si concentrerà su qual è l’idea di scuola per il presente e il futuro.
Prima parte >> Scuola italiana: gli investimenti dello Stato e la sicurezza degli edifici scolastici
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di Claudia Torrisi e Andrea Zitelli
«Se non è e non sarà anche digitale, la scuola non avrà futuro». Queste erano state le parole di Luca Attias nel novembre del 2018, poco dopo essere stato nominato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda digitale. Attias – che dal mese scorso ricopre la nuova carica di direttore del Dipartimento per la Trasformazione Digitale – aveva continuato affermando che «gli studenti devono essere accompagnati nell’uso consapevole delle tecnologie: la costruzione di cittadini che sappiano vivere il digitale deve iniziare a scuola, in modo da poter utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell'informazione».
Quello della digitalizzazione delle scuole italiane e dell’insegnamento dell’uso delle tecnologia è un percorso che parte da più di dieci anni fa, quando nel 2007 si era discusso di un "Piano Nazionale per la Scuola Digitale", cioè il programma di indirizzo del Ministero dell’Istruzione con "l’obiettivo principale di modificare gli ambienti di apprendimento e promuovere l’innovazione digitale nella scuola". Negli anni il piano è stato strutturato e sviluppato in più fasi: dal 2008 al 2012 è stata ad esempio studiata una strategia di investimenti per portare il digitale in classe, come la diffusione della Lavagna Interattiva Multimediale (LIM) nella didattica. Dal 2013 al 2014 si è investito invece per la connettività wireless nelle scuole e per la gestione di corsi di formazione sul digitale rivolti ai docenti.
Nel 2015 nel nuovo "Piano Nazionale Scuola Digitale" (PNSD) sono stati poi fissati degli obiettivi per gli anni a venire che prevedevano diversi passaggi:
1. Strumenti: cioè “tutte le condizioni che abilitano le opportunità della società dell’informazione, e mettono le scuole nelle condizioni di praticarle”.
2. Competenze, contenuti: stabilire "una matrice comune di competenze digitali che ogni studente deve sviluppare; sostenere i docenti nel ruolo di facilitatori di percorsi didattici innovativi, definendo con loro strategie didattiche per potenziare le competenze chiave”.
3. Formazione: “rafforzare la preparazione del personale in materia di competenze digitali, raggiungendo tutti gli attori della comunità scolastica; promuovere il legame tra innovazione didattica e tecnologie digitali”.
4. Accompagnamento: “innovare le forme di accompagnamento alle scuole, propagare l’innovazione all’interno di ogni scuola” anche grazie alle figure degli “animatori digitali”, cioè dei docenti che, “insieme al dirigente scolastico e al direttore amministrativo”, avranno “un ruolo strategico nella diffusione dell’innovazione a scuola, a partire dai contenuti del Piano”.
Circa tre anni dopo, nel giugno del 2018, con l’arrivo del nuovo governo sostenuto da Movimento 5 stelle e Lega, Nello Iacono su Agenda Digitale, si chiedeva quale sarebbe stato il futuro del il Piano nazionale scuola digitale, e spiegava che nel frattempo l’attuazione del piano risultava molto disomogenea “con scuole già avanti e con ottime esperienze e scuole molto indietro, quasi al palo”.
Le criticità e le problematiche del PNSD di questi anni sono state analizzate da Marco Gui, professore associato di Sociologia delle cultura e dei media all’università di Milano Bicocca, nel suo libro “Il digitale a scuola. Rivoluzione o abbaglio?” pubblicato lo scorso settembre. Gui parte affermando che in tecnologie digitali e formazione nel decennio 2007-2017, tenendo conto anche dei progetti locali, è stato stanziato in ambito scolastico circa 1 miliardo e mezzo di euro (circa 150 milioni di euro l’anno). Inizialmente, continua il docente, si puntava sull’introduzione delle tecnologie nelle classi, “superando il concetto di laboratorio informatico e concependo la classe come contesto per un uso costante della tecnologia”. Il piano, però, non chiariva ad esempio “quali fossero gli indicatori per valutarne il successo, al di là della diffusione strumentale della stessa tecnologia”.
All’epoca Fiorella Farinelli, esperta di problemi scolastici e formativi, sottolineava infatti che “agli insegnanti, agli studenti, alle famiglie non si dice perché, con quali obiettivi, all’interno di quali nuove strategie educative 16.000 classi di scuola media a partire dal 2009-2010 saranno dotate di altrettante lavagne interattive multimediali. O quali vantaggi possono derivare, oltre a un alleggerimento degli zaini e forse delle spese delle famiglie, da manuali parzialmente scaricabili da Internet”. “Come già in passato – continuava Farinelli – l’introduzione delle nuove tecnologie viene presentata come una politica dotata di per sé di immancabili effetti innovativi”.
Con il piano (PNSD) del 2015, prosegue Marco Gui, in parte si fa tesoro “dei dubbi emersi su un approccio basato principalmente sulla diffusione di strumenti tecnologici” e ad esempio al posto delle “pesanti” LIM, la scuola si apre a politiche per Bring Your Own Device (BYOD), cioè “porta il tuo dispositivo” con l’obiettivo “di ‘alleggerire’ le classi da strumentazioni informatiche costose e ingombranti, per promuovere una didattica digitale basata sull’integrazione dei dispositivi elettronici personali degli studenti e degli insegnanti (smartphone, tablet e PC portatili) con le dotazioni tecnologiche degli spazi scolastici”. Una politica confermata anche nel 2018 dal Miur, però con l’inserimento di alcuni paletti: “Regolamentare le modalità e i tempi dell’uso e del non uso, anche per imparare a riconoscere e a mantenere separate le dimensioni del privato e del pubblico”.
L’aspetto importante, spiega il docente nel suo libro, è che “nel nuovo piano la questione digitale diventa finalmente anche un problema organizzativo, di formazione degli insegnanti e soprattutto di competenza digitale”. Ma a restare, secondo Gui, è un problema comune alle politiche di introduzione delle Tecnologie per l’informazione e la comunicazione (TIC): “Si finanziano aule e scuole ‘aumentate’, ma cosa di debba fare esattamente in questi nuovi ambienti non è chiaro. In effetti, il piano prevedeva una raccolta sistematica di pratiche didattiche e un osservatorio sull’innovazione didattica, ma tali azioni non sembrano finora essere state messe in campo”.
In conclusione, per l'esperto, fino alla primavera 2019, si è registrato “uno stallo delle politiche italiane sull’informatica e sulla digitalizzazione” e una mancanza di “un framework comune per le competenze digitali e l’educazione ai media, pur previsto dal PNSD”. Il risultato è l’assenza “di un’azione educativa specifica della scuola rispetto all’innovazione tecnologica”, legata in particolare alla funzione di lettura critica della realtà.
La «sfida principale», afferma oggi il direttore del Dipartimento per la Trasformazione Digitale Luca Attias, è «quella di riuscire a introdurre in pianta stabile il digitale nella scuola italiana attraverso le giuste competenze digitali di docenti specializzati per fascia d’età».
Cosa dicono i dati del digitale a scuola
Volendo tracciare un quadro del processo di digitalizzazione della scuola italiana, la prima difficoltà con cui ci si scontra è la mancanza di dati freschi e disponibili. Un’analisi recente dello stato delle cose è stata pubblicata a febbraio del 2019 dall’AGCOM, con il rapporto “Educare digitale”. Lo studio fa riferimento principalmente a una rilevazione del MIUR sull’anno scolastico 2016/2017 su istituti principali e plessi scolastici di scuole primarie e secondarie.
Per valutare la digitalizzazione del “sistema scuola”, secondo l’Autorità Garante per le Comunicazioni, bisogna necessariamente partire dal “livello di infrastrutturazione” degli istituti, ossia dalla presenza o meno di connessioni di rete ad alta velocità. Sono infatti queste ultime, dice il rapporto, “a garantire una maggiore e più efficace integrazione del digitale nelle scuole”.
Secondo l’indagine del MIUR, circa il 97% degli edifici scolastici dispone di una connessione, ma non si specifica la dimensione, il grado o la distribuzione geografica di queste scuole. Prendendo in considerazione questo dato, tuttavia, salta all’occhio come esista in Italia un 3% di istituti senza alcun tipo di connessione. Si tratta, sottolinea l’AGCOM, di scuole “prevalentemente primarie e dislocate per la maggior parte nel Sud Italia”: un dato che “non è più sostenibile in una società sempre più digitalizzata”.
In ogni caso, il fatto che sia presente una connessione non basta, perché potrebbe, ad esempio, non essere adeguata o sufficientemente veloce per l’utilizzo di strumenti e servizi didattici. Ed è proprio su questo punto che il dato inizia a essere preoccupante: a livello nazionale, la percentuale di scuole connesse a una velocità superiore ai 30 Mbps è dell’11,2%, un numero decisamente inferiore rispetto al 97% di quelle genericamente connesse a Internet.
Secondo un’inchiesta pubblicata nel 2017 su AGI da Elisabetta Tola utilizzando i dati (richiesti tramite FOIA) di un questionario sottoposto ai dirigenti scolastici dall’Osservatorio sulla scuola digitale, circa il 13% degli istituti ha dichiarato di avere la fibra: 1.134 scuole, di cui 889 del primo ciclo e 225 del secondo ciclo.
Le scuole di grado superiore hanno solitamente connessioni più veloci e qualitativamente migliori: per il report AGCOM solo poco più del 9% delle scuole primarie ha una rete con velocità superiore ai 30 Mbps, l’11% delle secondarie di primo grado e il 23% delle secondarie di secondo grado.
L’inchiesta di AGI aveva rilevato come la maggior parte delle scuole fosse connessa via ADSL (il 74%), ma a velocità molto diverse a seconda delle situazioni. “C’è poi un 23% connesso via wireless. Per le scuole che si trovano in aree rurali o montane esistono anche alternative come la connessione via satellite o via ponte radio. Poche, per fortuna solo un centinaio, sono le scuole che dichiarano di essere connesse via modem a 56kbps. In qualche caso, coesistono nello stesso plesso diverse tipologie di connessione, per cui una parte della scuola può essere collegata via ADSL e un’altra con una connessione wireless”, scrive Tola.
Esistono poi delle differenze anche a livello geografico, che, secondo lo studio, dipendono perlopiù dal ruolo delle amministrazioni locali – quasi sempre proprietarie degli edifici scolastici e principali finanziatrici delle iniziative. Ad esempio l’Emilia-Romagna vanta oltre il 30% delle scuole connesse a più di 30 Mbps, rispetto all’11,2% della media nazionale. Come aveva spiegato a Tola Roberto Bondi, coordinatore del Servizio Marconi, l’unità operativa per lo sviluppo delle tecnologie innovative dell’Ufficio scolastico regionale dell’Emilia-Romagna, questa presenza della connessione veloce in quasi un istituto su tre è dovuto “a un accordo tra la Regione e le scuole, incluso nell’Agenda digitale regionale, per cui la struttura regionale adibita allo sviluppo della banda ultra-larga, Lepida, sta portando la fibra gratuitamente in tutte le scuole del territorio”.
Così come l’Emilia-Romagna, anche Lombardia e Friuli Venezia Giulia hanno alti livelli di connettività e innovazione didattica. Liguria e Toscana hanno una connessione elevata, ma un approccio didattico tradizionale e meno votato all’uso del digitale. L’esatto contrario accade in scuole di Molise, Campania, Umbria, Sicilia e Sardegna, dove l’innovazione didattica è alta, ma l’indice di connettività è al di sotto della media e inadeguato rispetto alle competenze degli insegnanti. Infine, ci sono le regioni con livelli sia di connettività che di innovazione didattica inferiori alla media nazionale: Basilicata, Calabria, Puglia, Abruzzo, Lazio e Veneto.
L’ultimo aspetto che incide sulla presenza o meno delle reti ad alta velocità è quello della dimensione delle scuole – proprio perché istituti più grandi possono avere maggiore influenza sulle amministrazioni locali. Dal rapporto emerge, infatti, che le scuole con connessioni migliori sono anche quelle con un maggior numero di studenti. La dimensione ha un ruolo anche nella presenza o meno di una figura di riferimento per il coordinamento delle attività riguardanti la digitalizzazione: dai dati emerge che il 58% delle scuole di media dimensione si è dotata di una strategia di coordinamento, percentuale che sale al 66% tra le più grandi. Tra le più piccole, invece, la stima sta a quasi la metà.
L’alta velocità della connessione Internet, comunque, non è un parametro sufficiente. Pensiamo, ad esempio, a una scuola con una buona rete Internet ma non disponibile nelle aule. Una situazione che non è inverosimile: le scuole con una connessione che copre tutti gli spazi disponibili sono il 74,6%. L’83,9% tra quelle secondarie di secondo grado, il 78% tra quelle secondarie di primo grado e il 71,4% tra quelle primarie.
Qui entra in gioco anche un problema di spese della scuola, che, ovviamente, non si ferma al canone pagato per avere la rete, ma include costi di gestione, manutenzione e aggiornamento. Il 75% degli istituti spende circa 3mila euro l’anno, ma molto, ovviamente, dipende dalla dimensione. Gli istituti più grossi – cioè con più di 1.200 studenti – sono per il 59% “basso spendenti” (meno di 3mila euro l’anno), il 26% “alto spendenti” (tra i 3mila e i 6mila euro), e il 15% che spendono oltre i 6mila euro all’anno.
La didattica digitale: poco diffusa e non aggiornata
Se andiamo ad analizzare l’effettivo uso degli strumenti digitali all’interno delle classi, il quadro si fa ancora più eterogeneo. La prima differenza sta, banalmente, tra le scuole in cui gli insegnanti li utilizzano quotidianamente, e quelle in cui lo fanno poco o niente. Secondo i dati AGCOM nel 17,6% degli istituti “l’attività didattica è svolta con tecnologie digitali dall’intero corpo docente quotidianamente, a fronte di uno 0,5% delle scuole in cui è completamente assente un approccio digitale alle lezioni dal momento che nessun docente utilizza tali strumenti”.
Guardando in generale agli insegnanti, il 47% utilizza strumenti digitali (connessione Internet, vari device online e offline) quotidianamente per le proprie attività didattiche, mentre il 5% non ne fa uso mai. Nelle scuole dotate di una connessione a banda ultra-larga, la media dei docenti che utilizza tutti i giorni strumenti digitali nella didattica sale al 51%.
Questo divario, secondo l’indagine OCSE “Talis”, potrebbe derivare dal livello di competenze digitali del corpo docente: se sono insufficienti, gli insegnanti sono meno portati a fare ricorso al digitale per la didattica. Il miglioramento delle competenze digitali è uno dei punti del Piano Nazionale Scuola Digitale, che, come soluzione, suggerisce anche un graduale inserimento nell’organico delle scuole di docenti più giovani.
Per AGCOM, “sarebbe opportuno intensificare le iniziative a sostegno dello sviluppo di competenze e di cultura digitale, in particolare quelle che mirano ad affinare le capacità tecniche di docenti e studenti, quelle volte all’apprendimento e all’approfondimento di nuove metodologie didattiche e pedagogiche, più costruttive e con le quali migliorare i processi di apprendimento, le esperienze e il saper fare”. Fondamentale, prosegue il rapporto, “è anche fare leva su un corpo docente più orientato al digitale e, quindi, tendenzialmente più giovane in termini di età anagrafica. Occorre sperimentare nuovi modelli formativi basati anche sullo scambio culturale con altri paesi partecipando a gruppi multidisciplinari, con lo specifico intento di creare un ambiente favorevole allo sviluppo della digitale della scuola (learning ecosystem)”.
Ma che tipo di attività vengono svolte a scuola con le tecnologie digitali? Principalmente consultazione di fonti e contenuti (lo fanno la maggior parte dei docenti nel 47,3% degli istituti), ma vengono utilizzate anche presentazioni per la didattica o strumenti digitali per la valutazione (29,3%). Sono meno diffuse attività di dialogo e condivisione tra insegnanti e alunni e di apertura della scuola verso l’esterno. Secondo l’AGCOM “queste evidenze suggeriscono che la propensione del corpo docente all’utilizzo del digitale risulta troppo spesso circoscritto all’interno di ciascuna classe, lasciando poco spazio all’utilizzo di tecnologie innovative finalizzato all’apertura delle classi, allo scambio e alla collaborazione trasversale tra i docenti e tra gli studenti, sia tra classi dello stesso istituto sia tra classi di istituti diversi”.
Un’altra questione riguarda gli strumenti digitali attualmente in dotazione alle scuole, non aggiornatissimi, né di ultima generazione. I dati dell’Osservatorio sulla Scuola Digitale di Skuola.net – raccolti attraverso le interviste di oltre 7 mila studenti di scuole medie e superiori – raccontano che attualmente più diffusa nelle aule è la Lavagna Interattiva Multimediale (LIM). Si tratta di uno strumento già superato in molte altre parti d’Europa, dove è stata sostituita da pc o tablet, uno per ogni studente, che permettono una didattica più interattiva e partecipata. Nella scuola italiana solo il 12% dei ragazzi può utilizzare un dispositivo personale: all’8% gliel’ha fornito gratuitamente la scuola, mentre il 4% lo ha avuto in comodato pagando un piccolo contributo.
Anche nel campo dei libri di testo il digitale sembra lontano: nel 77% dei casi le scuole utilizzano esclusivamente libri cartacei, non prendendo in considerazione gli e-book. Solo uno studente su 10 studia solo su testi digitali.
Negli istituti dove le infrastrutture tecnologiche sono arrivate, il problema è che non tutti riescono a impiegarle nella didattica di ogni giorno. Ad esempio, il 35% degli studenti dichiara di avere un’aula computer nella propria scuola, ma di non utilizzarla mai, il 6% non usa la LIM – anche se disponibile –, il 45% non può usare il telefono come supporto e integrazione per le spiegazioni dei docenti, e il 10% non ha mai assistito a una lezione con il supporto di materiale multimediale. Quest’ultima percentuale sale al 15% tra gli studenti del Sud Italia.
Secondo l’Osservatorio sulla Scuola Digitale si tratta di dati allarmanti, “soprattutto se contestualizzati con l’identikit dei ragazzi che frequentano le scuole oggi, ovvero la cosiddetta Generazione Z. Studenti nati nell’era digitale, con conoscenze su pc e smartphone elevate, ma non grazie alla scuola: il 47% non ha imparato quasi nulla di tutto ciò che sa delle nuove tecnologie grazie alla scuola. Questo anche perché in 2 casi su 3 la scuola non si è mai preoccupata di organizzare corsi specifici, volti a migliorare le conoscenze degli studenti su, ad esempio, coding, programmi, sistemi operativi e stampanti 3D. Né tanto meno sulla sicurezza e il comportamento adeguato da tenere online, visto che il 40% (48% al Sud), non ha mai avuto l’opportunità di seguire a scuola lezioni contro i rischi della Rete”.
Il digitale, comunque, incide anche nel rapporto tra la scuola e la famiglia. In questo senso, uno strumento è quello del Registro elettronico di classe, introdotto nel 2012 e Previsto dal Piano Nazionale Scuola Digitale, tramite il quale gli istituti comunicano con i genitori degli alunni “con l’intento di creare e rafforzare un senso di appartenenza scolastica, dando così vita ad una vera e propria community”. L’adozione del Registro elettronico, stando al rapporto AGCOM, è in crescita: è presente in circa l’84% delle scuole (era il 69,2% in un’indagine sull’anno scolastico 2014-2015), principalmente in quelle di grado superiore.
Per diffondere la cultura digitale, il MIUR ha previsto inoltre che ogni istituto individui un docente responsabile di coordinare e implementare le attività del Piano. Il ruolo è quello di “animatore digitale”, organizzando corsi di formazione, coinvolgendo gli studenti, definendo metodi didattici innovativi ecc. Ogni anno, per queste attività, vengono assegnate delle risorse. Dall’indagine però emerge che non tutti gli istituti hanno individuato un coordinatore, in particolare le scuole primarie.
Quali sono gli effetti delle TIC sull’educazione e il ruolo dei docenti
Da tempo, studi e ricerche indagano quali effetti abbia prodotto nell’apprendimento l’introduzione delle Tecnologie per l’informazione e la comunicazione (TIC). Ancora oggi si punta a capire come l’insegnamento, interagendo con le nuove tecnologie, possa portare miglioramenti nella didattica scolastica.
Nel maggio dello scorso anno, Pierangelo Soldavini sul Sole 24 Ore, riportava ad esempio, le conclusioni di una ricerca che ha coinvolto 1.390 docenti di 45 scuole primarie in tutta Italia e oltre 1.300 bambini tra 6 e 11 anni e che è stata condotta da ImparaDigitale e dal Cnis dell'Università di Padova con il supporto di Acer for Education. Secondo il rapporto, il digitale è una realtà di cui la scuola “deve necessariamente utilizzarne i vantaggi per una didattica e una carica motivazionale e inclusiva”.
Il giornalista spiega che la ricerca sfata diversi luoghi comuni: “Alla verifica sperimentale la capacità di scrittura e di lettura non vengono compromesse, anzi statisticamente chi usa il digitale fa meno errori ortografici e sbaglia di meno nel dettato e nella lettura”. Secondo i docenti sentiti per la ricerca, inoltre, il digitale può avere anche un’elevata efficacia nell'affrontare bisogni speciali e disturbi dell'apprendimento.
Ma la velocità e la fluidità permessa dalla tecnologia risultano vantaggiose “rispetto alla carta solo se mediate dalla individualizzazione della didattica”, continua la ricerca. Un dato che mostra come il ruolo del docente, come mediatore e accompagnatore nel percorso didattico, risulti ancora decisivo.
Un’ulteriore ricerca – «Digitale sì, digitale no», di Acer, Centro studi ImparaDigitale, Cnis, Università Bocconi e Università di Padova –, presentata poche settimane fa, sottolinea come i docenti si siano troppo spesso concentrati sui device e sull'uso del digitale perdendo di vista il processo didattico. Anche perché, si legge in un altro report dello scorso giugno di Nestla Italia, fondazione dedicata all'innovazione, “durante molte delle interviste condotte con gli insegnanti si è avuta la sensazione che il cambiamento tecnologico sia qualcosa che accade ‘agli insegnanti’ piuttosto che ‘tramite gli insegnanti’. Accade troppo spesso che alle scuole vengano imposti programmi di cambiamento verticali, che lasciano gli insegnanti (...), relegati a figure il cui lavoro consiste ‘in gran parte nell’implementare protocolli ed eseguire istruzioni’”.
Problematiche sono presenti anche a livello europeo, come spiega la “Relazione di monitoraggio del settore dell'istruzione e della formazione” (2019) della Commissione europea: oltre alla mancanza di attrezzature (o il loro malfunzionamento), a ostacolare l’uso di tecnologie nella scuola, gli insegnanti indicano anche l’assenza di modelli di insegnamento su come usare le TIC e le loro insufficienti capacità personali (secondo il rapporto della Commissione in Unione europea gli insegnanti che hanno affermato di avere una buona preparazione nell’uso delle tecnologie per l’insegnamento sono stati il 39,4%).
In questo contesto, Marco Gui in un articolo sul Corriere della Sera solleva anche un ulteriore questione e cioè quella di affiancare al mero uso diretto delle tecnologie nella didattica anche la riflessione sulle tecnologie stesse perché “prima ancora di formare studenti che studino con le tecnologie, abbiamo il dovere di preparare studenti che siano riflessivi e critici” per capire problematicità e opportunità delle tecnologie e “saperle utilizzare in modo consapevole nella vita quotidiana”. Al contrario, denuncia il docente, finora “le politiche pubbliche hanno sostenuto quasi esclusivamente introduzioni tecnologiche hardware e software, oltre che formazione sui singoli strumenti. L’educazione ai media è stata pesantemente sotto-finanziata rispetto all’urgenza con cui si presenta”.
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Gli studenti, il mito “dei nativi digitali” e le sfide di oggi
Come si legge nell’indagine PISA 2018 (Programme for International Student Assessment) – pubblicata recentamente dall’OCSE per valutare “in quale misura gli studenti di quindici anni nel mondo hanno acquisito le conoscenze e le competenze chiave essenziali per la piena partecipazione alla società” – le nuove tecnologie hanno avuto un impatto rilevante nel modo in cui le persone leggono e scambiano informazioni, con la digitalizzazione che ha portato alla nascita di nuove forme di testo scritto.
Oggi, continua lo studio, gli studenti, rispetto al passato, possono trovare on line molte più risposte alle loro domande e questo comporta la necessità di una “competenza digitale” per capire quando un’informazione è falsa o vera, giusta o sbagliata o come gestire la propria identità digitale (la "competenza digitale" è infatti tra le 8 competenze necessarie stilate dall'Ue). Un aspetto a cui se ne aggiunge un altro: “Tra il 2012 e il 2018, il tempo medio che i quindicenni hanno trascorso su Internet, in un tipico giorno feriale, è più che raddoppiato, passando da meno di due ore a circa quattro ore (di cui una a scuola)”, si legge nell’indagine PISA, in riferimento all’Italia.
Questo però non significa che ogni giovane, essendo “nativo digitale”, abbia anche competenze innate in un uso consapevole e critico delle nuove tecnologie e dei nuovi media. Come scrive la sociolinguista Vera Gheno su Micromega, si pensa che chi “ha avuto modo di crescere con un cellulare in mano sin dalla più tenera età, sia naturalmente predisposto all’uso corretto degli strumenti digitali”, ma “una ricerca del Nielsen-Norman Group riguardo al modo in cui gli adolescenti usano la rete ha recentemente rilevato (ma il primo studio di questo tipo risale al 2004) che gli adolescenti non sono infallibili come molti pensano (...)”: “Sono abituati a muoversi velocemente online, spesso sono meno cauti dei più grandi e prendono decisioni subitanee, non riflettute e compiono errori. E il motivo di questi errori, conclude lo studio, risiede in tre fattori: competenze di lettura insufficienti, strategie di ricerca meno sofisticate e livelli di pazienza largamente inferiori agli adulti”. “I ragazzi – conclude Gheno – non hanno dunque un vantaggio automatico nell’impiego della tecnologia e hanno bisogno pure loro di una formazione apposita”.
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Un quadro che, come si è detto prima, mostra così la necessità di una didattica attenta a un’“educazione ai media”. Fino ad oggi, invece, racconta il libro “Media education in Italia. Oggetti e ambiti della formazione” (2019), questo tipo di attività educativa è stata contraddistinta da “una sostanziale organicità mancata” che ha portato a un suo sviluppo in Italia “a macchia di leopardo”: “Delineata da ricerche e intense attività di spiccato interesse in alcuni contesti, come ad esempio alcune scuole o enti del terzo settore dove è forte l’impegno da parte di alcuni operatori (ad esempio alcuni insegnanti, dirigenti, educatori), ad aree in cui tutto questo è assente, indice del fatto che manchi una vera e propria strategia di implementazione”.
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In conclusione, avverte la Commissione europea nel suo rapporto sull'istruzione e la formazione, le sfide poste dall’educazione digitale a scuola sono varie e riguardano sia l’ambito lavorativo che quello sociale. Dal punto di vista del mercato del lavoro, c'è un gap da colmare con un aumento di posti che richiedono alti livelli di competenza nell'uso della tecnologia e molte nuove professioni basate su competenze digitali specializzate. Da un punto di vista sociale, la sfida è invece quella dell'inclusività: un divario tra coloro che non hanno competenze digitali (o solo di base) e quelli che ce le hanno alte potrebbe aggravare le diseguaglianze già esistenti nella società ed escludere ulteriormente alcune parti della popolazione.
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