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Scuola, cosa dicono gli studi sui contagi e cosa cambia con le varianti

12 Aprile 2021 23 min lettura

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Scuola, cosa dicono gli studi sui contagi e cosa cambia con le varianti

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Scuole aperte fino alla prima media anche nelle “zone rosse”. Questa decisione del governo italiano ha suscitato un acceso dibattito, tra chi si è detto favorevole sottolineando l’importanza culturale e sociale della didattica in presenza per gli studenti e chi, pur riconoscendo questa necessità, è preoccupato per le conseguenze negative che una parziale riapertura della scuola in una situazione epidemiologica ancora grave può causare. 

Cosa ha deciso il governo Draghi

Cosa dicono gli studi e i dati mancanti sulla scuola

Una pandemia nella pandemia: il rischio varianti

Cosa ha deciso il governo Draghi

Con il decreto legge del 1 aprile, il governo Draghi ha stabilito che a partire dal 7 aprile e fino alla fine del mese l’attività scolastica e didattica degli alunni della scuola d’infanzia, di quella primaria e del primo anno della scuola secondaria torna in presenza anche dove il contagio da nuovo coronavirus Sars-CoV-2 è più diffuso rispetto ad altri territori. 

La presenza in classe degli alunni fino alla prima media anche nella zona rossa non è un’esclusiva di questo decreto. Il dpcm del 3 novembre scorso del precedente governo Conte II, dopo l’inizio dell’anno scolastico a settembre, prevedeva la stessa cosa. Situazione poi cambiata con il decreto del 2 marzo del nuovo governo Draghi, che ha stabilito, dopo un’analisi dei dati che vedevano una ripresa dei contagi, che nelle zone rosse le attività scolastiche e didattiche delle scuole di ogni ordine e grado si dovevano svolgere esclusivamente con modalità a distanza. Ora la situazione è variata di nuovo. 

Rispetto al passato, a cambiare è il fatto che la didattica in presenza fino alla prima media in zona rossa “non può essere derogata da provvedimenti dei presidenti delle Regioni e delle  province  autonome di Trento e Bolzano e dei Sindaci” a meno che non si verifichino “casi di eccezionale e straordinaria necessità” dovuti “alla presenza di focolai o al rischio estremamente elevato di diffusione del virus o di sue varianti nella popolazione scolastica” e “sentite le competenti autorità sanitarie”. Per gli studenti della seconda e terza media e quelli delle superiori in zona rossa prosegue invece la didattica a distanza (DAD). Nelle “zone gialle” e quelle “arancioni” le attività scolastiche per il secondo e terzo anno delle medie si svolgono integralmente in presenza, mentre le scuole superiori “adottano forme flessibili nell'organizzazione, affinché sia garantita l'attività didattica in presenza ad almeno il 50%, e fino a un massimo del 75%”, degli studenti. 

Al termine delle vacanze pasquali sono quindi tornati a scuola in presenza complessivamente 5,6 milioni su (circa il 66% degli 8,5 milioni di alunni iscritti nelle scuole statali e paritarie: due su tre), con 2,9 milioni (il 34,5% del totale) in DAD, “con la consueta alternanza del 50% per gli studenti delle superiori nelle regioni in cui è consentito”, si legge sul sito Tuttoscuola. Con il passaggio di diverse regioni dal rosso all’arancione nell’ultima settimana, a partire da lunedì 12 aprile gli studenti in classe saranno poco meno di 6,6 milioni

via Tutto Scuola

Durante la conferenza stampa dello scorso 26 marzo, il presidente del Consiglio Mario Draghi, nel presentare le nuove misure e restrizioni previste dal decreto, ha affermato che la decisione sulla scuola è arrivata perché è stata registrata una diminuzione del «tasso di crescita dei contagi» all’interno di un quadro complessivo comunque «critico e preoccupante» (sulla pressione ospedaliera e riguardo ai morti per COVID-19): «La volontà è che se ci fosse stato uno spazio l’avremmo utilizzato per la scuola». Draghi ha inoltre aggiunto che «nel frattempo è uscita una serie di evidenze scientifiche [senza precisare a quali si riferisse, ndr] che mostrano come la scuola, fino alla prima media, di per sé, sia una fonte di contagio in misura molto limitata. Mentre ciò che è fonte di contagio è tutto il resto che avviene intorno alla scuola, in primis il trasporto, le attività parascolastiche. Più si alza l’età scolastica, più queste attività aumentano». 

Lo stesso giorno, intervistato dal Corriere della Sera, il presidente dell’Istituto superiore di sanità (ISS) e portavoce unico del Comitato tecnico scientifico (CTS) Silvio Brusaferro ha affermato: «La scuola è sempre stata una priorità non solo in Italia. Anche l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha attivato un tavolo di lavoro su questo tema. In situazioni in cui l'incidenza è elevata si deve ricorrere alla didattica a distanza, però rendere possibile ai ragazzi il ritorno sui banchi è l'obiettivo principale. Un elemento importante è l'età. Nelle fasce più giovani l'infezione circola meno e c'è minore rischio di trasmissione agli adulti. È un argomento di dibattito a livello internazionale. Gli studi ci dicono che sono importanti le misure di prevenzione nella didattica in presenza e che per evitare l'aumento dell'incidenza serve uno stretto controllo sulle attività che girano attorno alla scuola, prima e dopo». «A questo – ha aggiunto Brusaferro – si aggiunge la vaccinazione del personale scolastico. Un ulteriore fattore favorevole a una riapertura permanente. Si spera di non dover più tornare indietro». Secondo gli ultimi dati ufficiali disponibili forniti dal governo italiano, al 10 aprile, il personale scolastico vaccinato con una prima dose è circa il 72% del totale, mentre con anche la seconda dose lo 0,95%.

Cosa dicono gli studi e i dati mancanti sulla scuola

Nella sua risposta, il presidente dell’ISS ha elencato alcuni degli argomenti più discussi che alimentano il dibattito nazionale e internazionale sulla riapertura o meno delle scuole durante questa pandemia. Su Valigia Blu ci siamo occupati più volte nel corso dell’ultimo anno di queste tematiche: il contagio nei minori, il loro ruolo nella diffusione del virus, quello delle scuole e le possibili modalità di riaperture in sicurezza delle attività scolastiche in presenza. Si tratta di questioni che sono ancora in fase di studio a livello internazionale e dati sicuri e consolidati che forniscono certezze su come muoversi a livello decisionale mancano. 

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Per quanto riguarda la situazione in Italia, a fine del 2020, è stato pubblicato dall’Istituto superiore di sanità un report dal titolo “Apertura delle scuole e andamento dei casi confermati di SARS-CoV-2: la situazione in Italia”. Il documento analizza l’andamento epidemiologico nazionale e regionale dei casi in età scolare (3-18 anni) tra il 24 agosto e il 27 dicembre 2020, quindi comprendente la seconda ondata di contagi che ha colpito l’Italia. In questo periodo, l’applicazione della didattica a distanza nelle scuole è stata modificata più volte, per via di ordinanze Regionali (e DPCM) a seconda dell’andamento del contagio e della differenziazione dei territori tra zona rossa, arancione e gialla. 

Modalità didattica per regione per scuole di ogni ordine e grado. Fonte dei dati: ordinanze regionali. Via ISS

L’ISS spiega che da fine agosto a fine dicembre sono stati diagnosticati 1.783.418 casi positivi di nuovo coronavirus, di questi 203.350 (l’11%) in età scolare (3-18 anni). La percentuale dei casi di nuovo coronavirus in bambini e adolescenti ha registrato un aumento dal 21 settembre al 26 ottobre (con un picco del 16% tra il 12 e il 18 ottobre) per poi tornare ai livelli precedenti con un andamento simile a quello della popolazione generale.

Confronto del numero casi (barre) e media mobile (linea) in età scolare e totale giornaliero in Italia. Via ISS

Le percentuali di casi in età scolare rispetto al numero dei casi in età non scolare sono variate da regione a regione, oscillando tra l’8,6% della Valle d’Aosta e il 15,0% della provincia autonoma di Bolzano. La maggior parte dei casi in età scolare (cioè il 40%) si è verificata negli adolescenti tra i 14 e i 18 anni, poi nei bambini delle scuole primarie di 6-10 anni (il 27%), negli alunni delle scuole medie di 11-13 anni (il 23%) e nei bambini delle scuole per l’infanzia di 3-5 anni (il 10%). 

Il sistema di monitoraggio ha inoltre rilevato 3173 focolai in ambito scolastico, cioè il 2% di quelli riscontrati a livello nazionale. Gli autori del rapporto specificano però che i numeri dei focolai sono contraddistinti da limiti ascrivibili “sia ai diversi criteri di classificazione dei focolai scolastici adottati a livello regionale che alla ridotta capacità di tracciamento dei contatti” a causa dell’aumento dei casi “che ha limitato la possibilità degli operatori sanitari di effettuare indagini accurate”. Per questi motivi, il numero di focolai scolastici è da considerare “sottostimato” e non sono inoltre disponibili informazioni sul numero di casi coinvolti in ciascun focolaio.

Nel complesso, si legge nel rapporto, dopo la riapertura delle scuole nel mese di settembre 2020, “l’andamento dei casi di nuovo coronavirus nella popolazione in età scolastica ha seguito quello della popolazione adulta, rendendo difficile identificare l’effetto sull’epidemia del ritorno all’attività didattica in presenza”. “Quello che si può notare – continuano gli autori – è che pur con le scuole del primo ciclo sempre in presenza, salvo che su alcuni territori regionali, la curva epidemica mostra a partire da metà novembre un decremento evidenziando un impatto sicuramente limitato dell’apertura delle scuole del primo ciclo sull’andamento dei contagi. L’incidenza giornaliera è risultata sovrapponibile fino al 20 ottobre per poi aumentare nelle persone non in età scolare rispetto a quelle in età scolare”. 

Nel lasso di tempo analizzato, le scuole in Italia non hanno quindi rappresentato i primi tre contesti di trasmissione in Italia, “che sono nell’ordine il contesto familiare/domiciliare, sanitario assistenziale e lavorativo”. Purtroppo, però, specifica l’ISS “la forte pressione sui dipartimenti di prevenzione verificatasi nel mese di novembre, a causa dall’intensificarsi dell’epidemia e del conseguente forte aumento dei casi in tutta la popolazione, ha portato in alcune aree a un ritardo nella notifica e nell’aggiornamento delle informazioni sui casi individuali e anche le informazioni presenti nel sistema di sorveglianza sulla possibile esposizione al virus del personale scolastico” sono risultate spesso carenti ed incomplete.

Gli autori concludono che allo stato delle conoscenze disponibili fino al momento della pubblicazione “le scuole sembrano essere ambienti relativamente sicuri, purché si continui ad adottare una serie di precauzioni ormai consolidate quali indossare la mascherina, lavarsi le mani, ventilare le aule, e si ritiene che il loro ruolo nell’accelerare la trasmissione del coronavirus in Europa sia limitato”. Lo studio però non arriva a conclusione certe, specificando che “sono necessarie ulteriori ricerche sull’efficacia della chiusura delle scuole e di altre pratiche di distanziamento sociale per informare i decisori politici. Sarebbe importante una conoscenza più approfondita di come COVID-19 colpisce bambini e giovani, poiché il ruolo delle misure scolastiche nel ridurre la trasmissione del virus dipende dalla suscettibilità dei bambini alle infezioni e dalla loro contagiosità una volta infettati. Tuttavia, gli studi osservazionali potrebbero non essere in grado di valutare l’impatto della sola chiusura delle scuole se le chiusure sono attuate a livello nazionale e contemporaneamente ad altre misure di mitigazione”. 

Sempre sulla situazione del contagio nelle scuole in Italia, a fine marzo, su Lancet Regional Health - Europeuna delle recenti pubblicazioni affiliate della rivista scientifica Lancet – è stato pubblicato uno studio in peer review, cioè revisionato da altri ricercatori prima della pubblicazione, intitolato “A cross-sectional and prospective cohort study of the role of schools in the SARS-CoV-2 second wave in Italy”. Per le loro analisi, gli autori, tra le varie fonti, hanno utilizzato il database del Ministero dell’Istruzione italiano, comprendente i dati di  7976 istituti scolastici pubblici (il 97% del totale), che rappresentano 7.376.698 studenti, 775.451 insegnanti e 206.120 membri del personale non docente. Il periodo dell’analisi è andato dal 12 settembre all'8 novembre 2020. Lo studio ha preso anche in considerazione i dati di incidenza di Sars-CoV-2 nelle scuole nel periodo tra il 23 novembre e il 28 novembre 2020 in un campione di 6827 istituti pubblici (81,6% del totale) e 7035 istituti privati ​​(55,6% degli istituti totali). I tassi di incidenza di Sars-CoV-2 sono stati calcolati dagli autori “indipendentemente dal fatto che l'infezione fosse avvenuta all'interno o all'esterno del contesto educativo”. 

I risultati di questo studio hanno mostrato che l'incidenza dei positivi tra gli studenti è stata inferiore a quella della popolazione generale, “indipendentemente che si analizzassero le scuole elementari e medie, o le scuole superiori”: 66 casi ogni 10mila abitanti alle scuole elementari e medie, 98 casi ogni 10mila abitanti nelle superiori mentre nella popolazione generale sono stati 108 i positivi ogni 10mila abitanti. L'incidenza di nuovi positivi tra gli studenti delle scuole elementari e medie è stata mediamente inferiore del 38,9% rispetto alla popolazione generale in tutte le regioni italiane tranne che nel Lazio. Per quanto riguarda le scuole superiori, l'incidenza di nuovi positivi tra gli studenti è stata inferiore del 9% a quella della popolazione generale. In tre regioni, invece, (Lazio, Marche ed Emilia-Romagna) è risultata più alta. Tra gli insegnanti e il personale non docente l'incidenza è invece stata 2 volte superiore a quella osservata nella popolazione generale (220 casi ogni 10mila abitanti). Lo studio ha inoltre visto che anche nel periodo 23-28 novembre, “durante il picco della seconda ondata di COVID-19”, gli studenti sono risultati meno infetti degli adulti negli istituti scolastici e che, nel complesso, era ampiamente diffuso un sistema di quarantena dopo la scoperta di casi di positività. Infine, gli autori non hanno trovato un'associazione in Italia tra le date di apertura della scuola e l'aumento dell’indice Rt, cioè il tasso di contagiosità, così come la chiusura delle scuole non avrebbe influenzato la discesa dello stesso indice. 

Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, questo lavoro sarebbe dietro alla scelta del governo Draghi di riaprire le scuole in presenza almeno fino alla prima media anche nelle zone rosse. Lo studio, però, ha ricevuto diverse critiche da parte di vari esperti e ricercatori sull’attendibilità del metodo di analisi e l’affidabilità dei dati utilizzati. Scrive Il Post: “Una delle critiche più condivise riguarda la scarsa attendibilità del periodo analizzato, dal 12 settembre all’8 novembre, una fase molto precoce della seconda ondata, quando il rischio di contagio era inferiore per tutta la popolazione rispetto a quanto sarebbe successo dopo. Con i dati risalenti a mesi fa, inoltre, non è possibile verificare l’impatto delle nuove varianti del coronavirus, più contagiose. La scarsa conoscenza delle varianti è stato uno dei problemi più rilevanti della cosiddetta terza ondata”. “Lo studio, poi, – si legge ancora – non sembra valutare con attenzione il fatto che i bambini hanno una maggiore probabilità di essere asintomatici: contagiati ma senza sintomi, sono difficili da individuare e potrebbero sfuggire al tracciamento, ma potrebbero comunque contribuire a diffondere il virus a scuola e in famiglia”. 

Inoltre, come ha evidenziato l’epidemiologo Roberto De Voglio, esistono altri studi che inducono a pensare un ruolo differente della scuola nel contagio da nuovo coronavirus rispetto a questo lavoro: “In precedenza, oltre a uno studio su Euro Surveillance che aveva dimostrato che la trasmissione all’interno delle scuole medie e superiori Italiane avviene soprattutto tra gli studenti di età compresa tra i 10 e 18 anni, un’analisi cross-nazionale pubblicata su Lancet Infectious Diesases, riguardante centinaia di paesi inclusa l’Italia, ha concluso che la riapertura delle scuole può effettivamente aumentare il numero di riproduzione”. Un altro studio pubblicato recentemente su Science, analizzando diversi interventi restrittivi decisi durante la prima ondata in 41 paesi, tra cui l’Italia, ha stimato che “la chiusura sia delle scuole che delle università è stata costantemente altamente efficace nel ridurre la trasmissione all'avvento della pandemia”. Gli autori specificano comunque che per via di certi limiti in queste analisi, queste stime “non dovrebbero essere viste come definitive ma piuttosto come un contributo a un corpo diversificato di prove, insieme ad altri studi”.

C’è poi da considerare anche un’altra questione di base riguardo ai dati disponibili sulla scuola in Italia. Durante la conferenza stampa dello scorso 2 aprile, il presidente dell’ISS, Silvio Brusaferro, alla domanda su quali evidenze scientifiche il governo avesse deciso la parziale riapertura delle scuole in zona rossa, ha spiegato: «Ci sono moltissime pubblicazioni (...) e ci sono ovviamente molte raccomandazioni, anche dall’Organizzazione mondiale della sanità, che cercano di focalizzare il tema scuola. Il dato reale è che dati precisi sulla scuola in sé non ci sono». Come ricorda sempre il Post, la mancanza di dati affidabili era emersa anche lo scorso 26 gennaio durante una riunione del Comitato tecnico scientifico (CTS) (il verbale è stato pubblicato nei primi giorni di marzo) quando Stefano Merler, ricercatore della Fondazione Bruno Kessler che ha lavorato all’analisi dei dati dell’epidemia, presentando al CTS un modello matematico per misurare l’impatto della riapertura delle scuole, aveva detto che “non esistono stime di trasmissibilità nelle scuole e quindi non è possibile analizzare l’effetto della riorganizzazione scolastica alla ripresa delle attività didattiche dopo la scorsa estate. Al momento, è possibile basarsi solo sul numero dei contagi che avvengono in età scolare, senza avere evidenza se questi siano avvenuti all’interno delle scuole, prima dell’ingresso negli istituti scolastici o nelle attività periscolastiche”. 

Sempre a fine 2020 il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) ha pubblicato un rapporto (che abbiamo ripreso in un approfondimento a un anno dalla scoperta del nuovo coronavirus Sars-CoV-2 in Cina) che fa il punto sulle conoscenze disponibili su Covid-19 e minori e sul ruolo delle scuole nella diffusione del virus 

Per quanto riguarda il primo punto, secondo quanto si legge nel documento, le persone tra 1 e 18 anni hanno tassi di sviluppo della malattia, ospedalizzazione grave e morte inferiori rispetto a tutti gli altri gruppi di età. Questo, però, non significa che i bambini e gli adolescenti non si contagino e non possano trasmettere il virus a loro volta. Dai dati ripresi dall’ECDC, i bambini al di sotto dei 12 anni risultano essere meno suscettibili all'infezione da SARS-CoV-2 e di trasmettere il virus meno degli adolescenti e degli adulti. Tra i 10 e i 12 anni, poi, secondo alcuni studi, intorno al periodo della pubertà, ci sarebbe un aumento di rischio nel contrarre e trasmettere il virus. Tuttavia, scrive l’ECDC, non è ancora possibile determinare con certezza se i bambini al di sotto dei 12 anni abbiano meno probabilità di essere infettati o di sviluppare la malattia. Servono studi più robusti che traccino la trasmissione del nuovo coronavirus in famiglia, nella cerchia dei contatti, nei contesti scolastici e lavorativi e nella popolazione in generale. 

Passando poi al ruolo delle scuole nella diffusione del virus, l’ECDC specifica innanzitutto che esiste un consenso generale sul fatto che la chiusura delle scuole per contrastare la pandemia da COVID-19 dovrebbe essere usata come ultima risorsa perché “l'impatto negativo sulla salute fisica, mentale e sull'istruzione degli alunni e l'impatto economico sulla società supererebbero probabilmente i benefici”. Nel rapporto si legge che la conclusione raggiunta finora dalla letteratura scientifica è che la trasmissione di SARS-CoV-2 nelle scuole è relativamente rara. L’ECDC specifica però che esiste un limite in queste indagini e cioè che spesso non sono considerati i casi asintomatici. Inoltre, “è difficile accertare se la trasmissione è avvenuta all'interno della scuola o in contesti comunitari”, rendendo complicato determinare il tracciamento dei casi indice e dei loro contatti. Probabilmente, poi, si legge nel rapporto, esiste anche una sottostima dei contagi negli ambienti scolastici a causa dei problemi e criticità nel tracciamento dei casi che molti paesi hanno sperimentato. 

Il rapporto spiega inoltre che non esistono strumenti per valutare solo l’efficacia della chiusura delle scuole nel contrastare il contagio del nuovo coronavirus. Questo perché “spesso le chiusure scolastiche sono state introdotte insieme a un'ampia gamma di misure di mitigazione aggiuntive”. Nonostante però queste limitazioni e una certa eterogeneità tra i risultati, molti studi di modellazione concludono che la chiusura delle scuole può ridurre la trasmissione di SARS-CoV-2 quando fa parte di una serie di altre misure di contrasto al contagio: “Quando le scuole riaprono in concomitanza con il rilassamento di altre misure di distanziamento, gli studi di modellazione indicano che potrebbe esserci un successivo aumento dei casi”. Questo documento dell’ECDC avverte però di non tenere conto delle nuove varianti del nuovo coronavirus SARS-CoV-2.

Una pandemia nella pandemia: il rischio varianti

Tra gennaio e febbraio del 2021 si è infatti posta al centro del dibattito scientifico la questione dell’ampia diffusione di diverse varianti del nuovo coronavirus nel mondo. Questo fatto ha destato notevoli preoccupazioni tra gli esperti perché il timore è che alcune di queste mutazioni di Sars-CoV-2 possano allontanare la data della fine della pandemia o rendere i vaccini disponibili contro la COVID-19 meno efficaci.

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Le varianti su cui si concentrano i timori maggiori sono varie: la B.1.1.7, scoperta nel Regno Unito, B.1.351 rilevata per la prima volta in Sud Africa, la P1 inizialmente identificata in viaggiatori brasiliani in un aeroporto in Giappone e la B.1.427 e la B.1.429 scoperte in California. Secondo l’ultimo report prodotto dall’Istituto superiore di sanità, “in Italia al 18 marzo scorso la prevalenza della cosiddetta ‘variante inglese’ era del 86,7%, con valori oscillanti tra le singole regioni tra il 63,3% e il 100%. Per quella ‘brasiliana’ la prevalenza era del 4,0% (0%-32,0%), mentre le altre monitorate sono sotto lo 0,5%”. 

Queste varianti, in base a un aggiornamento del 2 aprile scorso pubblicato dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC) statunitensi, “sembrano diffondersi più facilmente e rapidamente rispetto ad altre varianti, il che può portare a più casi di COVID-19. Un aumento del numero di casi metterà a dura prova le risorse sanitarie, porterà a più ricoveri e potenzialmente a più morti”. Una situazione che ha spinto diversi specialisti a chiedere un'attenzione ulteriore nel contrasto al virus, anche per quanto riguarda i giovani e la scuola. Secondo Michael Osterholm, direttore del Center for Infectious Disease Research and Policy all’Università del Minnesota negli Stati Uniti d’America, «tutte le misure di prevenzione programmate per i bambini nelle scuole con questo virus non sono più applicabili. Dobbiamo elaborare uno sguardo completamente nuovo su tale questione». 

Si tratta di una sfida che stanno affrontando anche diversi altri paesi. In Germania, ad esempio, secondo quanto si legge nel rapporto del 6 aprile dell’Istituto Robert Koch – ente tedesco che si occupa del controllo e della prevenzione delle malattie infettive nel paese – nelle ultime settimane i numeri di casi di infezioni di nuovo coronavirus sono nuovamente aumentati in tutte le fasce d'età, particolarmente nei bambini e negli adolescenti. L’istituto spiega che i contagi si stanno verificando attualmente in famiglia, sempre più negli asili nido, nelle scuole e negli ambienti professionali, mentre è diminuito il numero di focolai nelle case di cura e di riposo per anziani e che attualmente la variante B.1.1.7 è predominante nel paese. A partire dal 20 di febbraio le varie tipologie di scuole negli stati federati tedeschi (länder) hanno riniziato ad aprire gradualmente dopo mesi di chiusura. Sul sito ufficiale del governo federale si legge che al termine delle vacanze pasquali (che variano dai singoli länder), ogni stato federato dovrà valutare se le scuole potranno offrire o meno una didattica in presenza. “Fondamentalmente – continua il comunicato – il governo federale e i Länder mirano a mantenere le scuole aperte dove è possibile” e per questo, visto l’aumento dei numero di contagi, “è importante garantire adeguate strategie di protezione”. Ad oggi è stato deciso di effettuare due volte a settimana test regolari nelle scuole e negli asili nido, agli insegnanti e agli alunni. L’obiettivo è quello di identificare e bloccare possibili nuovi focolai. Al di là di questo, nuove linee guida uniformi a livello nazionale per l'apertura e la chiusura delle scuole non sono state ancora concordate.

A differenza di molti altri paesi europei, la Francia ha tenuto le scuole aperte a partire dallo scorso giugno, dopo il primo lockdown nazionale, puntando a restrizioni di altri settori. Una decisione che, secondo il ministro per la Pubblicazione Istruzione, Jean-Michel Blanquer e il segretario di Stato incaricato per gli affari europei, Clément Beaune, ha reso orgoglioso il paese. Questa politica ha però ricevuto critiche da parte di diversi esperti sulla sua gestione.

Lo scorso gennaio Dominique Costagliola, epidemiologa dell’Inserm, l'istituto nazionale francese per la ricerca sulla salute e la medicina, ha dichiarato: «Non critico il fatto di lasciare aperte le scuole, lo capisco perfettamente. Quello che è sbagliato è fingere che non stia succedendo nulla [in termini di contagi, ndr]. Perché ti lascia libero di non fare nulla, di non spendere soldi [per implementare nuove misure di mitigazione, ndr]. Le proposte sono state fatte, ma sono state rifiutate perché ci è stato detto che andava tutto bene». Nel mese di marzo le classi e le scuole chiuse in Francia per nuovi contagi hanno registrato un aumento considerevole. Per questo motivo, il 28 marzo, il governo ha deciso di aggiornare il protocollo sanitario nelle scuole per garantire la sicurezza degli studenti e del personale scolastico a causa dell'evoluzione della circolazione del virus e delle sue varianti: “Distanza fisica di 2 metri in mensa, indossare la mascherina per adulti e alunni dalla prima elementare, ventilazione rafforzata dei locali”. Due giorni dopo, visto il forte aumento dei casi e il sovraffolamento delle terapie intensive, il presidente della Repubblica Emmanuel Macron ha annunciato nuove misure restrittive a partire dal 3 aprile, tra cui anche la chiusura degli asili nido e delle scuole per tre settimane con un prolungamento delle vacanze pasquali fino al prossimo 26 aprile.

Nel Regno Unito, a partire dall’8 marzo, le scuole hanno iniziato a riaprire in date differenti, dopo mesi di didattica a distanza per via del terzo lockdown partito lo scorso 6 gennaio. Come si legge sul Financial Times, la loro riapertura ha svolto un ruolo significativo nel rallentare il costante declino dei casi di coronavirus nel Regno Unito verificatosi nelle ultime settimane, anche se il lockdown e la forte campagna vaccinale hanno ridotto drasticamente i ricoveri ospedalieri e le morti per COVID-19. Ma anche altri fattori, tra cui un aumento dei test per individuare le persone positive, sono alla base di questo rallentamento. «Ogni cambiamento che si verifica quando si esce lentamente dal lockdown potrebbe avere un effetto sui livelli di infezione», ha dichiarato al quotidiano Lawrence Young, virologo dell'Università di Warwick. «Stiamo iniziando ora a vedere l'impatto degli studenti tornati a scuola». La preoccupazione di diversi esperti del paese è che se maggiore è il tasso di infezione, maggiore è anche la frequenza di mutazioni casuali che potrebbero produrre nuovi ceppi del virus potenzialmente più pericolosi. Tre le nuove misure pensate per il ritorno a scuola, il governo del Regno Unito ha previsto test volontari due volte a settimana per alunni, le loro famiglie e gli insegnanti.

Proprio sul rientro in sicurezza degli alunni, lo scorso 10 marzo su Lancet è stata pubblicata un’analisi da parte di diversi esperti inglesi, americani e australiani in cui si afferma che l’apertura delle scuole senza ulteriori misure adeguate di mitigazione potrebbe rischiare di accelerare la pandemia, anche per via di una maggiore presenza delle varianti: “Le argomentazioni secondo cui le scuole non contribuiscono alla trasmissione nella comunità e che il rischio complessivo per i bambini è molto basso hanno significato che le mitigazioni nelle scuole hanno ricevuto una bassa priorità”. Per gli esperti è invece necessario concentrarsi sugli spostamenti da casa a scuola (e viceversa), con orari scaglionati. All’interno delle scuole viene consigliato ad esempio di dividere le classi numerose in gruppi più piccoli, di utilizzare spazi grandi come palestre, aule magne, cortili e spazi all’aperto. Nelle aule, poi, le finestre dovrebbero essere tenute sempre aperte e si consiglia l’adozione di strumenti per misurare la qualità dell’aria all’interno della stanza. Inoltre, si invita all’utilizzo della mascherina, anche per i bambini dai cinque anni in su.

In Italia, per il ritorno in classe degli alunni, il governo sta preparando un protocollo unico a livello nazionale sulla scuola per uniformare le diversità a livello territoriale. Il documento, riporta il Sole 24 Ore, prevederebbe il divieto di ogni forma di riunione, gruppo o qualunque incontro in grado di generare assembramenti: “Benché la scuola sia per i giovani il punto più importante di socializzazione insieme alla famiglia, il distanziamento negli istituti dovrà essere seguito e applicato senza eccezioni. Toccherà ai dirigenti scolastici garantire il rispetto di tutte le regole. In pratica, l’unico momento di aggregazione tra gli studenti con le previste distanze deve essere soltanto quello in classe. L’unico, non altro”.

Ma nel frattempo all’esecutivo sono arrivate richieste di nuove misure di contrasto al virus fuori e dentro gli ambienti scolastici. Il comitato Nazionale IdeaScuola, ad esempio, in un documento del 10 aprile ha elencato una serie di misure su cui le autorità potrebbero investire, come ad esempio la riduzione degli alunni e conseguentemente aumento del distanziamento, uno screening effettuato due volte a settimana, un tracciamento tempestivo e l’installazione di sistemi di sanificazione dell’aria. Alessandro Ferretti, ricercatore presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino che collabora con IdeaScuola, ha ricordato inoltre che «le scuole non sono tutte uguali: ci sono quelle con le classi ampie e le finestre che si possono tenere bene aperte e ci sono quelle anguste in cui si respira male. Si può scegliere di intervenire lì lasciando aperte le altre». 

L’attuazione di queste possibili misure sembra però incontrare svariate difficoltà. Antonello Giannelli, presidente dell’associazione nazionale Presidi ha dichiarato a Il Messaggero: «Non abbiamo avuto alcuna informazione sul tracciamento per gli studenti, non c’è un’iniziativa in tale senso e temo che il problema sia nella difficoltà dell’organizzazione logistica per fare i tamponi». «Anche per quel che riguarda i mezzi di trasporto pubblico non è cambiato molto – continua Giannelli –. C’è la paura di ritrovarci a dover chiudere tutto di nuovo, un nuovo stop che andrebbe a bloccare tutto di nuovo. Per questo siamo pronti a recepire eventuali nuove regole qualora il Cts decidesse di darne». Anche sulle classi sdoppiate non sembra ci siano novità, scrive Alessandro Giuliani su Tecnica della scuola: “Il piano di ampliamento degli spazi è quello che, assieme alla riduzione del numero di alunni per classe e all’incremento sostanzioso dei trasporti, richiede più investimenti e maggiore tempo. Tutte manovre che potrebbero beneficiare dell’assegnazione prossima dei fondi del Recovery fund”.

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Mentre la campagna di vaccinazione prosegue con ritmi differenti in tutto il mondo, uno degli obiettivi più urgenti è quello di provare a rendere più sicuri i luoghi al chiuso visto che, come spiega Nature, risultano quelli a maggior rischio di contagio: “Per mesi, le autorità sanitarie hanno individuato gli spazi interni con scarsa ventilazione come potenziali hotspot di infezione. E il primo marzo, l'Oms ha pubblicato un’attesa tabella di marcia per migliorare la ventilazione in questi spazi. Il documento stabilisce obiettivi e misure specifici che le imprese e altri luoghi possono adottare per migliorare la ventilazione e rendere gli edifici più sicuri”. Uno dei problemi maggiori ad esempio è che i governi e le aziende stanno spendendo milioni di dollari per la disinfezione delle superfici, nonostante le prove indichino che sia raro che Sars-CoV-2 passi da una persona all'altra attraverso superfici contaminate, mentre pochi paesi hanno investito in misure per migliorare la qualità dell'aria all’interno di luoghi e spazi chiusi.

In conclusione, il ruolo di bambini e adolescenti e delle scuole nei contagi è ancora al centro del dibattito scientifico internazionale. Fino al 2020, le persone tra 1 e 18 anni hanno riscontrato tassi di sviluppo della malattia, ospedalizzazione grave e morte inferiori rispetto a tutti gli altri gruppi di età. Questo, però, non significa che i bambini e gli adolescenti non si contagino e non possano trasmettere il virus. Secondo diversi enti ed esperti la chiusura delle scuole per contrastare la pandemia dovrebbe essere usata come ultima risorsa perché l'impatto negativo sulla salute fisica, mentale e sull'istruzione degli alunni e l'impatto economico sulla società supererebbero probabilmente i benefici. Secondo la letteratura scientifica la trasmissione del virus negli ambienti scolastici è relativamente rara, ma esistono diversi limiti in queste indagini che rischiano di sottostimare il contagio a scuola. Inoltre, come dichiarato dall'Istituto superiore di sanità, non esistono dati precisi sulla scuola, risultando non possibile capire se i contagi siano avvenuti all’interno delle scuole, prima dell’ingresso negli istituti scolastici o nelle attività periscolastiche. Le varianti del virus, alcune delle quali sembrano più trasmissibili, potrebbero poi cambiare il quadro finora visto. Diversi paesi hanno così pensato nuove misure per provare a mettere in sicurezza gli ambienti al chiuso, che risultano essere quelli a maggior rischio di contagio. In Italia è stato chiesto al governo Draghi di fare altrettanto, ma l’attuazione di queste possibili nuove misure per la scuola sembra incontrare difficoltà e ritardi. 

Foto di Ecole polytechnique from Paris, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons

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