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Perché la scuola-azienda non è la soluzione

27 Giugno 2021 8 min lettura

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Perché la scuola-azienda non è la soluzione

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Probabilmente un giorno capiremo che i peggiori danni all’immaginario sulla scuola li hanno fatti in Italia i film e le serie americani, quelli in cui vengono descritti i meravigliosi istituti upper class degli USA, dove alunni educatissimi e in divisa elegante frequentano classi sciccose in cui si legge un grande romanzo a settimana, si studiano STEM come se piovesse, e poi, a fine corso, il più scarso finisce matricola ad Harvard.

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Così si spiega almeno in parte la proposta dell’ADi (Associazione Docenti e Dirigenti Italiani), che negli ultimi anni ha avuto una visibilità mediatica notevole grazie alle sue proposte di riforma della scuola in senso neoliberista, ora rilanciate e ricapitolate in una intervista su Orizzonte Scuola dalla presidente della associazione, Alessandra Cenerini.

Il punto di partenza di ADi è quello di sempre: la scuola italiana non va. Ma invece di chiedersi per quale ragione in molte zone del nostro paese i risultati siano carenti, e collegare questo fatto al livello socio economico di determinate zone e classi sociali del paese, come fanno da sempre gli studi e i rapporti in materia (per altro, disponibili in rete) la soluzione proposta da ADi è invece quella di trasformare le scuole in sorta di aziende autonome e indipendenti, in cui docenti “Superman” devono fare fronte da soli a tutte le problematiche degli alunni. Niente riduzione del numero di alunni per classe o aumento del numero di docenti di sostegno o di potenziamento, niente piani di sostegno economico a famiglie e territori in difficoltà: invece una scuola in cui i docenti sono scelti direttamente dal Dirigente scolastico, fanno “carriera” diventando middle management come in azienda, hanno contratti flessibili per orario (anche se non è ben chiaro cosa si intenda), e ovviamente non sono più minimamente sindacalizzati o consci dei propri diritti.

Ma analizziamo nello specifico il luminoso futuro delle nostre scuole/aziende, proposta per proposta.

“Come ADi abbiamo maturato la convinzione che,  per rilanciare l’educazione, occorra sperimentare situazioni di autonomia avanzata a partire da dove ci sono  idee e volontà di innovazione, ben presenti nel nostro Paese, ma soffocate dalla burocrazia centralistica. L’approdo è stato un disegno di legge che non propone una rivoluzione, ma piuttosto integra e arricchisce l’attuale sistema di istruzione: un Istituto “diversamente pubblico”, che si affianca ai modelli vigenti, un Istituto Scolastico ad Autonomia Speciale, ISAS, che si propone come manifestazione di vitalità del sistema e di realizzazione di autentica autonomia.[…]

  • il Consiglio di Istituto assume le caratteristiche di Consiglio di Amministrazione,
  • l’istituto gode di massima libertà nella costruzione del curricolo,
  • gestisce un budget, compreso quello per il personale, senza vincoli di destinazione, calcolato sul costo medio dello studente,
  • pratica l’ assunzione diretta del personale,
  • prevede una pluralità di figure docenti,
  • articola in modo più funzionale profili e competenze del personale ATA,
  • si dà un’organizzazione tecnica articolata funzionale al progetto e ridistribuisce le funzioni del collegio ad organismi tecnici competenti.”

Come al solito, va detto anche se non è specificato, quando si parla di scuola si parla essenzialmente di superiori, da quanto si capisce. Ma non è chiaro, però, come l’istituzione di scuole autonome sia per quanto riguarda i programmi che l’assunzione di personale potrebbe garantire una uniformità e un livello accettabile di istruzione per tutti gli studenti. Infatti già ora, con l’autonomia scolastica impostata ancora ai tempi della riforma Berlinguer, si nota un crescente divario: le scuole dei territori più ricchi economicamente funzionano, guarda un po’, meglio di quelle che si trovano nei contesti disagiati, perché, banalmente, i territori più ricchi hanno più risorse, attraggono facilmente personale più qualificato (un docente qualificato preferisce insegnare in un comodo liceo di centro città che in un professionale in un quartiere disagiato o in un paesino sperso nel nulla).

La “massima libertà nella costruzione del curriculum” sembra a tutta prima una cosa bellissima, ma nella pratica significa che a seconda della scuola in cui riesce ad iscriversi (anche se magari l’indirizzo è lo stesso) uno studente potrà avere una ampia scelta di corsi ampiamente qualificanti, mentre l’altro avrà il minimo garantito dal budget previsto con il costo medio per studente del punto due. Chissà quanti genitori con figli iscritti in queste scuole di “serie B” troveranno la cosa così fantastica. Anche perché le scuole nei quartieri “alti” o in territori ricchi avrebbero comunque pochi posti, e non è pensabile del resto che ragazzi delle superiori possano trasferirsi in altre città per studiare. Anche perché la cosa avrebbe un costo proibitivo per le famiglie.

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L’assunzione diretta del personale è anche qui un’altra di quelle proposte che sembrano fantastiche, perché permette di selezionare i “migliori” insegnanti. Ora, nella realtà, l’insegnante migliore non esiste, perché il processo educativo è sempre frutto di interazione fra alunno e un gruppo di docenti (anzi, fra l’alunno e l’intero ambiente scolastico, e quindi persino con quelli che docenti non sono, e tutti noi abbiamo nel cuore nella nostra carriera scolastica almeno un saggio bidello che ci ha dato lezioni fondamentali sulla vita), e quindi non sempre selezionare i “migliori” sulla carta garantisce un risultato ottimale. Ma anche se fosse, i migliori li potrà selezionare il Dirigente che si trovi a capo di un istituto posizionato ancora una volta “bene”: nel quartiere giusto, che si raggiunge bene, con gli indirizzi di scuola più richiesti dalle famiglie bene e con alunni che danno pochi problemi. Gli altri istituti, anche se con il massimo della autonomia, non selezioneranno i “migliori” insegnanti perché, molto banalmente, gli insegnanti più qualificati manco presenteranno richiesta o accetteranno cattedre lì, anche perché poi alla fine lo stipendio sarà sempre quello, e quindi, fatta salva una vocazione al martirio, perché dovrebbero i docenti “migliori” scegliere posti dove si deve combattere con le unghie e con i denti e magari anche lontano da casa?

L’ultimo punto è un capolavoro: il collegio docenti oggi è raro che faccia grandi cose, ma è l’unico spazio di discussione democratica rimasta nella scuola. Togliamolo e in pratica gli insegnanti non avranno più nessuna voce per proporre nuove pratiche didattiche o almeno per provarci. Diventano dipendenti passacarte che legano l’asino dove vuole il padrone. Perfetta situazione per stroncare anche quel poco di motivazione che hanno gli insegnanti.

E non finisce qui. La proposta dell’ADi evita anche l’unica cosa che da sempre gli insegnanti chiedono, ovvero la riduzione degli alunni per classe. Non ci vuole un genio per capire che lavorare in una classe 'pollaio' con 30 o 35 alunni, di cui alcuni con disabilità e con vari disturbi dell'apprendimento, è una cosa, lavorare in una di 15 è tutt’altro. Soprattuto perché il docente di alcune materie di classi così se ne può trovare anche una decina.
Ma per l’ADi no, il problema non è questo. Infatti Cenerini ci informa che:

La prima è che dobbiamo guardare ai dati, che ci dicono che il rapporto docente/allievi in Italia è più basso sia della media OCSE sia di quella europea. Ciò significa che il tema della riduzione del numero di allievi per classe va assunto in modo meno semplicistico.

Ecco, guardando i dati però, viene fuori che nelle altre nazioni non vengono contati nel numero degli insegnanti quelli di religione (che non sono previsti) né i colleghi di sostegno (perché altrove gli alunni con disabilità sono messi in istituti speciali, mentre il fatto che in Italia siano inseriti nelle classi normali è sempre stato considerato a livello internazionale una pratica di eccellenza per l’integrazione). Se si tolgono queste due categorie, il numero dei docenti italiani è sotto quello degli altri paesi, e questo vuol dire che avremmo davvero bisogno di ridurre il numero di alunni per classe e per altro in nazioni come la Finlandia, che vengono sempre citate come esempi da seguire, il numero di alunni per classe è più basso, come del resto in quasi tutta Europa.

Invece Cenerini continua:

La seconda è che questa richiesta è legata alla tradizionale rigida organizzazione delle classi concepite come monadi separate, anziché gruppi flessibili che si compongono e scompongono in grandi o piccoli gruppi secondo un’innovativa e personalizzata impostazione didattica.

Questo è interessante, perché appare un po’ un gioco di prestigio. Se io abolisco la classe, il numero degli alunni però resta tale, e se resta tale anche il numero dei professori, alla fine avrò sempre gruppi numerosi come un 'pollaio'. Solo più dinamici perché si spostano di aula ogni due per tre.

La terza riguarda una più efficace ed efficiente allocazione delle risorse. In altri Paesi di fronte all’opzione fra diminuire gli allievi per classe o aumentare le retribuzioni degli insegnanti si è deciso per la seconda. In “Una scuola di prima classe”, Andreas Schleicher, direttore dell’educazione all’OCSE, scrive: ”I Paesi che scelgono di avere classi più numerose possono permettersi di pagare meglio i propri docenti. Se l’insegnante è ben retribuito, il reclutamento nella professione è più competitivo”, il che significa avere migliori insegnanti.

Altro interessante non sequitur: il problema è pagare di più gli insegnanti o che gli alunni apprendano meglio? Perché se un insegnante si ritrova con una classe più numerosa, anche se viene pagato di più, per quanto sia bravo miracoli non ne può fare: avrà meno tempo per seguire gli alunni. A meno che oltre a uno stipendio maggiorato non gli regalino anche un giratempo come su Harry Potter per moltiplicare le ore della giornata. Attendiamo notizie da Hogwarts, a questo punto.

La quarta ed ultima considerazione è che questa tematica va affrontata alla luce del grandissimo calo demografico, di fronte al quale è bene non cadere nella trappola di scelte contingenti che si trasformano in definitive, con la creazione dell’annoso e dispendioso problema dell’allocazione dei soprannumerari.

Qui la visione è semplicistica. Il calo demografico, per altro, non si sa quanto agirà automaticamente sulla formazione delle future classi dei vari indirizzi superiori. Paradossalmente potremmo avere il calo demografico ma un boom di iscrizioni in certi tipi di scuole, che si ritroveranno ingorgate, a scapito di altre. Per altro, se gli alunni saranno meno, sarebbe finalmente l’occasione per poter fare classi più piccole. Ma questa ipotesi non viene nemmeno presa in considerazione. Perché?

Inoltre in Italia vista l’età media del personale docente, molti insegnanti andranno in pensione prima che il calo demografico abbia effetto. Quindi anche lì, bisogna vedere come si bilanceranno le cose.

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Insomma, alla luce dei dati, le proposte dell’ADi non è chiaro quali benefici apporterebbero alla scuola italiana, mentre i rischi sembrano concreti, soprattutto per le ricadute negative che una autonomia scolastica troppo spinta potrebbe avere sul diritto allo studio della parte più debole dal punto di vista economico e sociale della popolazione. Il rischio è che se oggi la scuola italiana non va benissimo, con questo tipo di riforme potrebbe andare notevolmente peggio.

Sicuri che vogliamo rischiare?

Foto anteprima Juraj Varga via Pixabay

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