Perché la scrittrice irlandese Sally Rooney è accusata di antisemitismo e cosa c’è di vero in queste critiche
9 min letturaLo scorso 12 ottobre, la scrittrice irlandese Sally Rooney ha negato alla casa editrice israeliana Modan Publishing House i diritti di traduzione del suo ultimo romanzo, Beautiful World, Where Are You.
Rooney ha spiegato le motivazioni alla base del diniego in una nota trasmessa al quotidiano britannico The Independent, in cui ha annunciato la propria adesione alla campagna globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele (BDS, Boycott, Divestment, Sanctions).
Avviata il 9 luglio del 2005 da 171 organizzazioni non governative palestinesi, la campagna BDS è stata promossa allo scopo di esercitare pressione sullo Stato di Israele affinché ponga fine alle violazioni contro i palestinesi e rispetti il diritto internazionale e i diritti umani, civili, sociali e politici del popolo palestinese, compreso il cosiddetto “diritto al ritorno”.
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Nel rivendicare la propria scelta, Rooney ha citato il rapporto Threshold Crossed: Israeli Authorities and the Crimes of Apartheid and Persecution, pubblicato dall’organizzazione non governativa internazionale Human Rights Watch (HRW) lo scorso 27 aprile.
Il documento si configura come un deciso atto d’accusa nei confronti di Israele, che secondo HRW sta compiendo crimini contro l'umanità mettendo in atto politiche di apartheid e persecuzione per prevaricare i palestinesi.
Un’indagine che negli ultimi mesi ha fatto molto discutere e che, a detta dell’autrice, “ha confermato ciò che i gruppi palestinesi per i diritti umani affermano da tempo: il sistema israeliano di dominazione razziale e segregazione contro i palestinesi soddisfa la definizione legale di apartheid secondo il diritto internazionale”.
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Rooney ha applicato sin da subito tutte le accortezze del caso per sgombrare il campo da ogni possibile fraintendimento: si è detta orgogliosa di aver avuto la possibilità di tradurre in ebraico i suoi due precedenti romanzi – Conversations with friends e Normal people, entrambi affidati alla curatela della traduttrice Katyah Benovits – e ha ringraziato l’intero team di lavoro coinvolto nella pubblicazione di quei libri per aver sostenuto il suo lavoro.
La scrittrice ha anche specificato che, nei prossimi mesi, vorrebbe riuscire a portare a termine un nuovo accordo per tradurre Beautiful World, Where Are You in ebraico, ma che per il momento ha scelto di interrompere i rapporti con Modan Publishing House, dato che collaborare con una casa editrice che non ha mai preso pubblicamente le distanze dalle prevaricazioni israeliane nei confronti dei palestinesi rappresenterebbe, di fatto, una violazione dei principi che ispirano la campagna BDS.
Inoltre, Modan ha pubblicato diversi libri in collaborazione con il Ministero della Difesa israeliano; di conseguenza, come ha notato Daniel Finn su Jacobin, sembrerebbe incarnare alla perfezione quel tipo di azienda che i promotori della campagna BDS avevano in mente quando hanno chiesto il boicottaggio delle istituzioni culturali israeliane che “sono complici nel sistema di oppressione che ha negato ai Palestinesi i loro fondamentali diritti garantiti dal diritto internazionale, o hanno ostacolato l'esercizio di questi diritti, compresi la libertà di circolazione e la libertà di espressione”.
Nonostante l’atteggiamento estremamente prudente di Rooney, da quando la notizia è diventata di pubblico dominio la scrittrice è diventata il bersaglio di una feroce campagna, fronteggiando da un lato le accuse che la tacciano di antisemitismo e, dall’altro, quelle che pongono enfasi sul suo “doppiopesismo”, dato che non ha intrapreso azioni simili per impedire la traduzione di Beautiful World, Where Are You in altre lingue usate nelle nazioni autoritarie.
"I romanzi di Sally Rooney sono disponibili in cinese e russo", ha scritto la critica letteraria Ruth Franklin in un tweet. “Non le importa degli uiguri? O dei giornalisti che sfidano Putin? Giudicare Israele con uno standard diverso dal resto del mondo è antisemitismo”.
Dello stesso tenore le critiche espresse da Yoseph Haddad, ex membro delle Forze di difesa israeliane e attualmente CEO di Together – Vouch For Each Other (un’organizzazione fondata nel 2018 e animata dall’obiettivo di “cambiare le menti e i cuori dei giovani arabi israeliani”), che non ha esitato a etichettare Sally Rooney come antisemita.
Jonathan Sacerdoti, corrispondente di i24News, un’emittente israeliana con sede a Tel-Aviv, è intervenuto nella questione chiedendosi se Rooney rifiuterà anche gli editori russi, arabi e cinesi.
Anche la giornalista musicale Eve Barlow (che si è autodefinita a più riprese come “sionista”) ha accusato pubblicamente Rooney: "Mi aspetto che persone come Sally Rooney siano antisemite. Non è una novità. Sarei sorpresa se non lo fossero", ha scritto, rincarando la dose attraverso la pubblicazione di meme specificamente dedicati alla faccenda.
L’indignazione non è montata soltanto sui social, ma anche su alcuni giornali: Jake Wallis Simons, vicedirettore del Jewish Chronicle (il più antico quotidiano ebraico al mondo), ha accusato Rooney di essersi schierata “contro gli ebrei” in un articolo pubblicato sul Daily Telegraph e intitolato “Sally Rooney’s Israeli boycott is nothing but a futile millennial gesture”, rincarando la dose sui propri canali social, dove ha scritto che “se Sally Rooney si preoccupasse davvero dei diritti umani e dei valori della democrazia, della libertà di parola e dei diritti delle donne e delle minoranze, *sosterrebbe* Israele e impedirebbe che i suoi libri vengano tradotti in arabo o cinese”.
Un urlo di sdegno che ha trovato qualche cassa di risonanza anche in Italia: in un’intervista concessa al Foglio e ripresa integralmente dal sito israele.net, il giornalista israeliano Ben-Dror Yemini – che lavora per il quotidiano Yedioth Ahronoth – ha dichiarato che “Questi scrittori occidentali sono gli utili idioti del jihad. Non vedono la realtà? Preferiscono essere ciechi, come negli anni Trenta. Allora si chiamavano nazisti, oggi woke”.
A sollevare un tipo di obiezione differente dalle precedenti è stato, invece, Anshel Pfeffer, giornalista di Haaretz e corrispondente del periodico britannico The Economist, storico avversatore della campagna BDS. In un lungo e partecipato thread sul suo profilo Twitter, Pfeffer ha argomentato che l’atteggiamento di Rooney potrebbe trasformarsi in un incentivo indiretto a quella siege mentality – ossia lo stato mentale collettivo in cui un gruppo percepisce di essere costantemente oppresso o isolato – che, da tempi non sospetti, rappresenta il vero e proprio core business della retorica che la destra israeliana impiega per fare proselitismo.
Pfeffer ha scritto che “Il libro di Sally Rooney non sarà pubblicato in ebraico perché non esiste un editore ebraico ‘conforme al BDS’. Per esserlo, dovrebbe accettare di non vendere i suoi libri in Israele e agli israeliani che rappresentano la stragrande maggioranza del mercato della letteratura in lingua ebraica”, chiedendosi “perché Rooney non pubblica una traduzione gratuita a sue spese o non cerca altri publishers?”.
Dal punto di vista di Pfeffer, dunque, il comportamento della scrittrice irlandese sarebbe inficiato da una contraddizione di fondo che investirebbe l’intero movimento BDS che, da 16 anni a questa parte, scegliendo di non limitare le proprie richieste di sabotaggio alle colonie illegali e al sostegno all’occupazione abusiva dei territori per indirizzarle a Israele nel suo complesso, non avrebbe fatto altro che foraggiare una “mentalità da fortino assediato” che, de facto, ha finito per fare il gioco delle destre sioniste e ghettizzare la sinistra.
Tuttavia, per quanto approfondito, utile al dibattito e ben congegnato, anche il ragionamento di Pfeffer mostra dei limiti evidenti – ad esempio, ha completamente bypassato i legami tra la casa editrice, Modan, e il ministero della Difesa israeliano e ha ignorato ogni riferimento alla volontà di Rooney di individuare una “via di fuga” che possa consentirle di tradurre il nuovo romanzo in ebraico (la stessa scrittrice non ha mai escluso pubblicamente la possibilità di una “traduzione gratuita”).
Alle accuse isolate ha fatto riscontro una mobilitazione online che, negli ultimi giorni, si è ingrandita sempre di più: dal 12 ottobre – la data in cui Rooney ha reso pubblica la nota – un'app utilizzata dal governo israeliano per coordinare l'indignazione dei suoi sostenitori sui social sta chiedendo agli utenti di pubblicare commenti denigratori nei confronti della scrittrice e di denunciare il più possibile la sua condotta “antisemita”, che a suo parere non starebbe producendo altro effetto se non quello di alimentare sentimenti antiebraici in tutto il mondo, come dimostrerebbero dei manifesti apparsi in alcune fermate degli autobus londinesi che, giocando sul titolo del primo romanzo dell’autrice, Persone normali, hanno coniato lo slogan “Normal People Boycott Israel”.
Un moto di delegittimazione che ha vissuto un culmine giovedì scorso, quando Steimatzki e Tzomet Sfarim, le due più grandi catene di librerie israeliane con più di 200 punti vendita nel paese, hanno deciso di ritirare i romanzi di Rooney già tradotti in ebraico dalle loro filiali e dagli store online, in quella che ha rappresentato la prima azione concreta di “contro-boicottaggio” da parte dell’industria editoriale israeliana.
Una reazione spropositata rispetto al reale tenore della dichiarazione di Rooney, che non ha espresso alcun tipo di avversità nei confronti della comunità ebraica, della sua lingua e della sua cultura – limitandosi a contestare, in maniera del tutto legittima, la discriminazione istituzionale che i cittadini palestinesi subiscono in Israele e nei territori palestinesi occupati. Non a caso, nella nota, la scrittrice si è preoccupata di specificare che “Naturalmente, molti stati diversi da Israele sono colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani. Questo era vero anche per il Sudafrica durante la campagna contro l'apartheid. In questo caso specifico, sto rispondendo all'appello della società civile palestinese, compresi tutti i principali sindacati palestinesi e i sindacati degli scrittori" – un punto cruciale della dichiarazione evidentemente ignorato da chi, negli ultimi giorni, l’ha accusata di avversare in modo selettivo Israele.
Inoltre, chi ha seguito con un minimo di attenzione la vicenda “politica” di Rooney non dovrebbe rimanere spiazzato per via del suo appoggio alla campagna BDS, dato che l’autrice è una sostenitrice della causa palestinese da tempi non sospetti.
Quando, nel 2019, la città di Dortmund scelse di revocare il premio Nelly Sachs per la letteratura alla scrittrice britannica di origini pachistane Kamila Shamsie a causa del suo impegno dichiarato nel movimento BDS (in quell’occasione, Shamsie negò i diritti di traduzione di due suoi romanzi a una casa editrice israeliana), Rooney firmò una lettera aperta in sua difesa, affiancandosi a un gruppo composito di autori e autrici, tra cui Noam Chomsky, Amit Chaudhuri, William Dalrymple, Yann Martel, Jeanette Winterson e Ben Okri.
Ai tempi, anche Shamsie motivò la propria scelta in una nota, utilizzando grossomodo le stesse accortezze di Rooney. Scrisse:
“Sarei molto felice di essere pubblicata in ebraico, ma non conosco nessun editore (di narrativa) ebraico che non sia israeliano, e mi rendo conto che non esiste un editore israeliano che sia completamente svincolato dallo Stato. Non voglio oltrepassare la linea tracciata dalla società civile palestinese, che ha chiesto a tutti coloro che vogliono contribuire al cambiamento di non collaborare con organizzazioni che siano in qualche modo complici dello Stato israeliano”.
Ecco perché, a ben guardare, i j’accuse nei confronti di Rooney hanno tutto l’aspetto di una specie di refrain delle accuse piovute addosso a Shamsie due anni fa. In entrambi i casi, la strategia adottata è la stessa: agitare in una modalità del tutto strumentale lo spauracchio dell’antisemitismo per mettere a tacere delle critiche legittime alle continue violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele, e che nulla hanno a che vedere con la comunità ebraica globalmente intesa (diversamente, non si spiegherebbe quale motivazione possa aver spinto le autrici a trovare delle soluzioni alternative per tradurre i loro romanzi in ebraico).
Quelli di Rooney e Shamsie non sono casi isolati: dal 2005 a oggi le adesioni del mondo della letteratura al movimento BDS sono state diverse. Uno dei precedenti più famosi è quello della giornalista e scrittrice canadese Naomi Klein, che nel 2009 riuscì a trovare una soluzione per pubblicare in ebraico il suo saggio The Shock Doctrine senza tuttavia violare le condizioni del boicottaggio, affidandone la traduzione a un editore indipendente svincolato da Israele, Andalus, che riuscì a contattare sfruttando la rete di contatti degli attivisti BDS – una presa di posizione che, ai tempi, catalizzò l’attenzione mediatica, poiché Klein proviene da una famiglia ebraica.
Ad accomunare Rooney e Shamshie – e Klein prima di loro – è una visione critica nei confronti dello Stato di Israele, ma molto accorta e ponderata, che non concede alcuno spiraglio all’antisemitismo. Una visione che può essere legittimamente contestata, ma non assimilata a un qualche pregiudizio di tipo razziale o a un non meglio precisato intento discriminatorio nei confronti di un’intera etnia; diversamente, il rischio è quello di fornire un appoggio aprioristico all’occupazione dei territori palestinesi, silenziando ogni voce critica nei confronti delle politiche adottate e degli abusi perpetrati dal governo israeliano.
In conclusione, è importante sottolineare che diversi segmenti della società israeliana hanno fornito il proprio sostegno alla campagna BDS: ad esempio, nel 2016, 22 antropologi – tutti cittadini di Israele – hanno appoggiato il boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane. Peraltro, nel corso degli anni, l’appello lanciato dalle organizzazioni palestinesi nel 2005 è stato raccolto da numerose organizzazioni in tutto il mondo, di varia ispirazione politica e religiosa, comprese organizzazioni ebraiche come Jewish Voice for Peace o Rete Ebrei contro l'occupazione.