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Nella copertura mediatica della COVID-19 mancano le voci delle scienziate e delle esperte

4 Luglio 2020 9 min lettura

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Nella copertura mediatica della COVID-19 mancano le voci delle scienziate e delle esperte

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A metà aprile il giornalista scientifico Donald G. McNeil Jr. ha pubblicato un lungo e documentato articolo sul New York Times sui possibili scenari della pandemia di COVID-19 per il prossimo anno. Per scriverlo, McNeil aveva consultato circa una ventina di esperti di salute pubblica, medicina, epidemiologia e storia. Ma al di là della ricchezza di informazioni su possibili futuri lockdown, casi e vaccini, un’altra cosa è balzata all’occhio dell’epidemiologa a e comunicatrice scientifica americana Tara C. Smith: dei 19 esperti citati nell’articolo solamente due erano donne, e le citazioni a loro attribuite riguardavano la famiglia.

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Non è una questione che riguarda solo quell’articolo, né solo il New York Times, ovviamente. Come scrive la giornalista Teresa Carr su NiemanLab, “una volta che inizi a notare il predominio dell’esperto maschio (e tipicamente bianco), è difficile non vederlo”. Basti pensare che, ad esempio, in Italia numerose ricerche dimostrano come già in situazioni di normalità le donne siano raramente chiamate dai media in qualità di esperte di qualche argomento. Secondo i risultati nazionali del Global Media Monitoring Project 2015, vengono invitati uomini nell’82% dei casi.

Questo è diventato ancora più evidente durante la pandemia: sui principali quotidiani e giornali vengono citati quasi esclusivamente medici, virologi, epidemiologi uomini. Sono gli stessi che vengono interpellati come fact-checker per smentire notizie o false credenze che si diffondono o che, ad esempio, nelle trasmissioni televisive in onda a qualsiasi ora sulla televisione italiana si confrontano e talvolta smentiscono a vicenda su possibili scenari, predizioni future e andamento dell’epidemia. O che rivendicano i risultati dei modelli scelti nelle varie regioni dove sono chiamati come consulenti. Tutti (o quasi) maschi, sollecitati a esprimersi sui media anche in campi non di loro competenza specifica. Il che secondo Caroline Buckee, professoressa associata di epidemiologia alla T.H. Chan School of Public Health di Harvard, non solo fa emergere come le donne siano messe da parte e ignorate, ma «rischia di minare la fiducia pubblica nella scienza stessa».

Le scienziate donne sono meno visibili anche nel proliferare di pubblicazioni scientifiche di questi mesi. Dall’analisi di database e server di preprint (dove vengono messi online studi che ancora non sono stati sottoposti a peer-review), emerge che le donne stanno avviando meno progetti, inviando meno documenti, pubblicando meno ricerche e facendo meno richiesta per finanziamenti rispetto agli uomini. Stando a uno studio pubblicato da Ana-Catarina Pinho-Gomes, ricercatrice al George Institute for Global Health dell'Università di Oxford, ai primi di giugno sulle riviste mediche erano stati pubblicati circa 1.370 paper su COVID-19 di 6.722 autori, ma solo il 34% di questi è composto da donne. Ed è un problema che va ben oltre la parità di genere, perché ha conseguenze sulla comprensione stessa del nuovo coronavirus, lasciando fuori questioni che sono rilevanti per le donne nella ricerca.

La questione, comunque, è generale. Secondo uno studio pubblicato ad aprile 2018 sulla rivista scientifica PLOS Biology, le donne si dedicano sempre di più a discipline come scienza, tecnologia, ingegneria, matematica e medicina (STEMM) all’università, ma continuano a rappresentare una minoranza tra i ruoli accademici più apicali, vengono promosse più lentamente e spesso abbandonano questo tipo di carriera. “Le pubblicazioni accademiche sono il metodo primario di disseminazione del sapere scientifico e anche la principale unità di misura della produttività della ricerca”, si legge nelle studio. Questo influenza le prospettive di carriera e la visibilità delle donne, che compaiono molto meno. Su 115 discipline STEMM analizzate dallo studio, in 87 le donne rappresentavano meno del 45% degli autori, in 5 superavano il 55% e nelle restanti 23 appena il 5%.

L'idea che le donne nella scienza debbano affrontare barriere sistemiche non è certo una novità, ma durante la pandemia queste barriere sembrano essere diventate quasi insormontabili. «Il sistema di pesi e contrappesi finalizzato a promuovere il merito e proteggere contro la costante preferenza verso uomini bianchi è crollato», ha spiegato a NiemanLab la professoressa Buckee, sottolineando come la situazione di emergenza e il caos della pandemia abbiano scatenato reti maschili di lunga data, con collegamenti rapidi e veloci ai vertici politici, anch’essi perlopiù composti da uomini.

Una delle questioni, infatti, riguarda il fatto che non solo i media, ma anche la politica si rivolge quasi esclusivamente a figure maschili quando è in cerca di autorità scientifiche.

Secondo il Women in Global Health, le donne compongono solo il 20% della commissione di emergenza dell'Organizzazione Mondiale della Sanità su COVID-19 e il 16% di quella congiunta con la Cina. Solo il 10% dei membri della task force degli USA contro il coronavirus è rappresentato da donne. Come si legge in un articolo pubblicato sul British Medical Journal che ha esaminato 24 task force nazionali, dai dati disponibili sugli enti decisionali su COVID-19 solo tre raggiungono la parità di genere o hanno più donne che uomini tra i membri.

In Italia le task force di esperti volute dal governo per affrontare le varie fasi dell’emergenza sanitaria contemplavano poche donne – se non nessuna. Dopo proteste e petizioni, la presenza femminile è stata in qualche modo integrata perlomeno di facciata, ma la questione è molto più profonda. Ed è ben rappresentata dalla risposta data dal capo della Protezione civile Angelo Borrelli a chi gli ha segnalato la mancanza femminile nelle squadre di esperti: «I membri del comitato tecnico-scientifico vengono individuati in base alla carica, come ad esempio il capo della Protezione civile o il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità. Se queste cariche fossero state ricoperte da donne avremmo avuto nel comitato tecnico scientifico una componente femminile adeguatamente rappresentata».

Per Antonella Viola, docente dell’Università di Padova e direttrice scientifica dell’Istituto di ricerca pediatrica Città della Speranza, una delle poche donne a essere interpellate dai media italiani in questo periodo, «la scienza in Italia ha dimostrato di essere conservatrice, arretrata e sessista: i tavoli di confronto, così come le task force schierano solo maschi». Le donne scienziate e mediche «sono escluse dalla visibilità, nonostante il lavoro d’eccellenza sul campo. E hanno pagato il prezzo più alto, sia per il carico di lavoro professionale e di cura durante il lockdown, sia per l’invisibilità in cui sono state relegate».

L’Expert Women Project (EWP) della City University di Londra ha analizzato la presenza di esperti ed esperte sui principali media britannici a marzo 2020, rilevando una media di 2,7 uomini per ogni donna. «A marzo, in un periodo di incertezza e speculazioni, sono stati intervistati quasi tre volte più uomini esperti che donne», ha spiegato al Guardian Lis Howell, professoressa emerita di giornalismo all’università britannica e direttrice dell’EWP. «Questi uomini sono per lo più politici o consulenti chiamati dai governi», ha aggiunto, «probabilmente riflette il fatto che ai livelli più alti il gabinetto ha un rapporto di cinque uomini e una donna».

Mentre scriveva l’articolo su NiemanLab, Carr ha contattato la corrispondente da Bruxelles del NYT Martina Stevis-Gridneff, chiedendole come mai il suo pezzo sugli eroi scientifici del nuovo coronavirus in Europa fosse privo di nomi femminili. La giornalista ha risposto di aver lavorato a lungo per trovare donne, ma le persone che stavano cercando dovevano avere certe caratteristiche, ossia far parte della comunità scientifica ed essere volti pubblici promossi dai governi per rispondere alla crisi sanitaria. E nei paesi coinvolti nell’articolo, queste persone erano sempre e solo uomini.

Eppure né l’epidemiologia né tanto meno la medicina sono campi esclusivamente maschili o dominati dalla presenza di uomini. Le donne sono citate meno o non citate affatto – per non parlare di quelle appartenenti a minoranze etniche. Come spiegato da Angela Rasmussen, ricercatrice associata alla Mailman School of Public Health della Columbia University, gli esperti maschi sono semplicemente più visibili: «Ci sono più uomini tra cui scegliere. E tendono ad essere più diretti e più disposti ad andare davanti a una telecamera e prendersi meriti».

In un commento pubblicato sul sito Times Higher Education, un gruppo di trentacinque scienziate impegnate su COVID-19 ha denunciato le difficoltà della categoria, che si trova a combattere in questo momento contro il nuovo coronavirus e contro vecchi schemi patriarcali: “Anche nelle nostre stesse istituzioni le voci di uomini meno qualificati sono amplificate rispetto a quelle di donne esperte, perché sono state individuate attraverso reti informali maschili, o si sono fatti strada sui social o in interviste in TV e vengono quindi percepiti come ‘di alto profilo’”.

Non includere le donne nel dibattito pubblico su COVID-19, però, “è una distorsione della realtà”, che non fa che “perpetuare l’invisibilità delle donne nella scienza e nelle posizioni di leadership, minando la nostra capacità di essere prese seriamente come esperte e fallendo nel fornire modelli alle donne più giovani. Ma influisce anche sulle nostre carriere, mentre ci sforziamo di mostrare l’impatto del nostro lavoro a possibili finanziatori, colleghi o quando siamo in cerca di assunzioni o promozioni”.

I dati del Ministero dell'Istruzione mostrano come le donne compongano circa il 40% del personale docente e ricercatore degli atenei italiani: sono il 50% dei titolari di assegni di ricerca, il 38,55% dei docenti a contratto, quasi il 43% dei ricercatori a tempo determinato. Le percentuali si assottigliano avvicinandosi a ruoli più apicali. Tra i docenti di ruolo, le donne rappresentano il 37%: sono il 49,15% dei ricercatori tempo indeterminato, il 38% dei professori di seconda fascia e sfiorano quasi il 24% di quelli di prima fascia. Dagli stessi dati emerge come la sproporzione sia invertita tra il personale non docente - collaboratori linguistici, tecnici amministrativi - dove le donne raggiungono il 59,6%.

A settembre 2019 sono state pubblicate dalla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI) le Linee guida per il Bilancio di Genere negli Atenei italiani per implementare e monitorare la diffusione e l’utilizzo del Bilancio di Genere "quale strumento fondamentale per inserire la parità di genere nella più ampia strategia di sviluppo degli Atenei". La necessità di portare la questione di genere al centro dell'attenzione, si legge sul sito della CRUI, "è evidente se si considera che in Italia, le donne rappresentano solo il 20 % dei professori ordinari e, tra i Rettori italiani, solo il 7% sono donne. Le forbici che descrivono le carriere di donne e uomini all’interno degli Atenei provano inoltre il c.d. fenomeno del 'tubo che perde': al progredire della carriera universitaria, il numero di donne diminuisce e l’Università perde le relative risorse. La diseguaglianza di genere causa dunque un problema di perdita di capacità e cattivo utilizzo di risorse pubbliche".

Le donne nella scienza svolgono molto più degli uomini lavoro accademico “poco visibile”. Sono impegnate nell’insegnamento, in attività di mentoring o in compiti operativi, piuttosto che solo nella scrittura di paper scientifici o nel compilare application per finanziamenti. Durante la pandemia, questo spesso significa spesso lavorare a un ritmo elevatissimo per tenere insieme tutto, sommato alle aspettative che con il lockdown hanno pesato sulle madri lavoratrici.

Come donne coinvolte nella ricerca su COVID-19”, scrivono le scienziate, “ci è diventato chiaro come le nostre competenze valgano poco quando si parla di veri processi decisionali durante questa emergenza sanitaria. Siamo frustrate che il nostro lavoro sia trascurato e mal rappresentato dai media”.

Da tempo vengono proposte possibili soluzioni, tra cui la modifica dei criteri di promozione, opportunità di finanziamento dedicate, più diversità tra i relatori di panel accademici (e non solo) e una maggiore consapevolezza tra i giornalisti. Nella scelta degli esperti e degli scienziati da sentire è importante focalizzarsi sulle fonti più qualificate, che possano meglio confrontarsi con le domande a cui si vuole dare una risposta. Ma è responsabilità del giornalista anche assicurarsi che vengano rappresentati tutti i punti di vista rilevanti rispetto all’argomento di cui si sta parlando. E non si dà un quadro fedele della scienza se mancano le voci delle donne.

Ci sono già liste di esperte da interpellare – in Italia ad opera del progetto “100Esperte” - così come di autrici di paper scientifici. Sono risorse, affermano ancora le scienziate su Times Higher Education, che esistono proprio perché da anni combattiamo per far progredire la scienza nonostante le barriere patriarcali. Adesso vorremmo concentrarci nel combattere COVID-19”.

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Aggiornamenti

Aggiornamento 6 luglio 2020: Abbiamo aggiunto i dati di genere degli atenei italiani pubblicati dal Ministero dell'Istruzione e lo studio della rivista PLOS Biology sulla presenza di autrici nelle pubblicazioni scientifiche delle discipline STEMM.

Foto in anteprima via Pixabay.com

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