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Donare il corpo alla scienza dopo la morte. Si può fare ma in pochi lo sanno

6 Aprile 2024 9 min lettura

Donare il corpo alla scienza dopo la morte. Si può fare ma in pochi lo sanno

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In Italia si può decidere che il proprio corpo, una volta deceduti, sia utilizzato per la formazione medica e la ricerca scientifica nei centri di riferimento individuati dal ministero della Salute. Lo ha stabilito la legge del 10 febbraio 2020 sulla «disposizione del proprio corpo e dei tessuti post mortem a fini di studio, di formazione e di ricerca scientifica».

La legge prevede che il suo stesso contenuto sia divulgato alla cittadinanza e agli operatori sanitari attraverso una comunicazione istituzionale affidata alle Regioni e alle aziende sanitarie locali. Finora non c’è mai stata una campagna di portata nazionale, ma qualcosa si sta muovendo.

Conoscere per decidere

A gennaio 2024 la Regione Emilia-Romagna ha annunciato di aver sottoscritto un accordo di collaborazione con l'Università di Bologna per realizzare una campagna di comunicazione e informazione, finanziata dal ministero con quasi 500 mila euro. «Siamo stati coinvolti attraverso la commissione Salute della Conferenza Stato-Regioni», spiega Rossana De Palma, responsabile dell'area Qualità delle cure, reti cliniche e percorsi dell'Emilia-Romagna. «La nostra regione è stata indicata come capofila», prosegue la dirigente, «e il nostro compito, da qui ai prossimi mesi, in partnership con l'ateneo, è di produrre strumenti di comunicazione e formazione, che saranno poi condivisi con il ministero e, in una seconda fase, verranno diffusi a livello nazionale». La Regione curerà i messaggi per raggiungere il pubblico più ampio attraverso diversi canali, dai social alle brochure; mentre l'Università, riconosciuta dal 2021 come uno dei centri di riferimento per la conservazione e utilizzazione dei corpi, si dedicherà alla formazione degli studenti di medicina e dei professionisti della sanità.

«Mai la prima volta su un soggetto vivo»

«Io mi sono laureata in Medicina nel 1989, ma per fare un'esercitazione su un cadavere sono dovuta andare all'estero, dove era già scontato che si potesse donare il corpo alla scienza», ricorda Lucia Manzoli, responsabile del centro e direttrice del dipartimento di Scienze biomediche e neuromotorie dell'Università di Bologna. Qui nel 2014 è stata inaugurata la sala dove si fa la dissezione su cadavere, a cui l'estate scorsa si è aggiunta l’aula “Marcella Mengoli” di anatomia chirurgica robotica, all'interno di un programma di donazione pionieristico che ha anticipato la legge. «La Sala settoria l'abbiamo dedicata al professor Giovanni Mazzotti, scomparso prematuramente», racconta la docente, «che è sempre stato convinto dell'importanza per gli studenti di Medicina di sperimentare sin dal primo anno sul corpo umano, come se il donatore fosse il loro primo paziente».

Si intitola proprio “Il primo paziente. La donazione del corpo in graphic novel” la mostra  visitabile dal 9 aprile al 14 giugno all'interno della Collezione delle Cere Anatomiche “Luigi Cattaneo” di Bologna, nella quale sarà presentato il libro omonimo (ed. Tunuè), frutto della   collaborazione tra l'ateneo bolognese e l'Accademia di Belle Arti.

Né la simulazione al computer né, come si faceva in passato, gli esercizi chirurgici su animali vivi possono eguagliare la formazione su un corpo umano donato. «Il coinvolgimento riguarda non solo l'aspetto tecnico, ma anche quello etico», esplicita Raffaele De Caro, direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Padova, altro centro di riferimento per le donazioni individuato dal ministero, «e viene dalla consapevolezza di avere a che fare con una persona che ha scelto altruisticamente di contribuire alla formazione medica». A questo si aggiunge l'importanza di testare i dispositivi medici su un vero corpo umano, per verificarne il modello ingegneristico insieme al chirurgo che farà l'impianto, liberi di sbagliare – e quindi di imparare – senza il rischio di nuocere a una persona viva.

Cosa succedeva prima della legge 10 del 2020

Nel 2013 un parere del Comitato di bioetica ha definito eticamente non accettabile destinare alle attività didattiche e di studio i cadaveri dei quali nessuno chiedeva la sepoltura, riassumendo una sensibilità ormai matura in ambito universitario. Fino ad allora la cornice normativa era data dal regio decreto del 31 agosto 1933 n. 1592, che mirava «a evitare che un corpo venisse abbandonato a se stesso o che troppi cadaveri andassero a carico dei costi comunali», ricostruisce De Caro. D'altro canto, ricorda che quando era studente si usavano ancora scheletri umani acquistati da paesi asiatici. «Come docenti europei di anatomia clinica avevamo già da tempo condiviso l'intenzione di non accettare più corpi di persone che non avessero specificamente espresso in vita la volontà di donarsi», aggiunge De Caro, che è anche segretario generale della European Association of Clinical Anatomy.

La legge del 2020 è stata «pensata per creare una coscienza in Italia sulla donazione del corpo, sul valore etico di questo gesto, e non semplicemente per autorizzare le attività sulle parti di cadavere», spiega la professoressa Manzoli, sottolineando la peculiarità del farsi carico del corpo di una persona che in vita ha deciso di donarsi, di cui i centri di conservazione devono garantire la restituzione ai familiari in condizioni dignitose. Una bella differenza, insomma, con l'importazione di preparati anatomici dall'estero, una pratica diffusa e molto onerosa, nell'ordine di circa un milione di euro all'anno, secondo la ricostruzione fatta nel 2016 da Luigi Mastrodonato su Vice.

Come donare il corpo e cosa c'entra con il “testamento biologico”

Anche se per quasi novant'anni non abbiamo avuto regole chiare, gradualmente si è sviluppata una sensibilità sulla questione del consenso all'utilizzazione del corpo di un defunto, fino ad arrivare alla legge 10/2020 e al regolamento del 2023. Ora chi vuole che il proprio corpo sia conservato e utilizzato a fini di scienza e di studio può darne disposizione formale; allo stesso tempo, nessun corpo può essere più utilizzato senza il consenso della persona interessata (o dei genitori, nel caso dei minori), che è sempre revocabile.

La dichiarazione di consenso si fa nelle forme previste dalla legge 219 del 2017 sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT). «Le DAT devono essere depositate gratuitamente presso l’Ufficio di Stato civile del proprio Comune di residenza oppure consegnate a un notaio. È consigliabile avvisare anche i centri di riferimento», precisa Alessia Cicatelli, avvocata e membro di giunta dell'Associazione Luca Coscioni. Mentre per le DAT, spesso chiamate “testamento biologico”, la nomina di un fiduciario è facoltativa, in caso di donazione del corpo è obbligatorio indicare chi vogliamo che informi della nostra volontà il medico che accerterà il nostro decesso. A sua volta, il medico avviserà il centro di riferimento più vicino; questo dovrà verificare la nostra disposizione, conservata nella banca dati per le Dat, e prendere in carico il nostro corpo per un periodo massimo di 12 mesi, sostenendo le spese di trasporto, tumulazione ed eventuale cremazione.

È chiaro quindi che senza DAT non ci può essere donazione del corpo. Avere informazioni sulle leggi che regolano le une e l'altra è fondamentale per fare scelte consapevoli, usando gli strumenti giuridici disponibili.

Quante persone hanno espresso formalmente l'intenzione di donare il corpo alla scienza? Per avere un'idea dell'ordine di grandezza, basterà sapere che a sei anni dall'entrata in vigore della legge che ha riconosciuto il diritto alle DAT «ne sono a conoscenza solo 5 italiani su mille (dati 2022)», si legge sul sito dell'Associazione Luca Coscioni, che a gennaio denunciava il ritardo nel fare la campagna informativa prevista.

Dalle DAT alla donazione del corpo non c'è niente di scontato

«Chi fa le DAT è più preoccupato dell'accanimento terapeutico, del contenimento farmacologico del dolore, in generale della dignità del morire», spiega Ana Maria Vargas, direttrice scientifica della Fondazione Fabretti, impegnata a costruire consapevolezza sul fine vita. «Al nostro sportello sulle Dat riceviamo ancora poche domande sulla donazione del corpo alla scienza e noi operatori non riusciamo ancora a introdurre questo argomento, perché effettivamente su questo aspetto specifico il tabù resiste», ammette l'antropologa, «mentre stiamo assistendo a un ritorno della morte nel discorso e nello spazio pubblico, con iniziative molto partecipate in cui emerge il bisogno di confrontarsi e condividere, un bisogno forse accentuato dopo la pandemia e comunque diversificato per territori, come ricostruisce Asher Colombo in Morire all'italiana [Il Mulino, 2022], e non uniforme, come testimonia la difficoltà di comunicazione tra medici e pazienti in campo oncologico e la fatica delle famiglie a parlare dei loro lutti».

Siamo pronti a donare il corpo alla scienza?

In Italia «c'è una storia più che ventennale di persone che hanno chiesto da diverse prospettive una legge che intervenisse, perché sentivano che c'era un diritto negato», riassume Vargas. Era, ed è ancora, un’esigenza di pochi ed è difficile prevedere quanto si allargherà la disponibilità a donare il corpo, ma si può guardare a quello che è successo in Spagna, culturalmente vicina all'Italia nell'approccio al corpo del defunto. I primi programmi di donazione sono partiti negli anni Ottanta, sulla spinta delle università. «Anche se non è diventato un fenomeno di massa», osserva la studiosa, «è ormai abbastanza rilevante, tanto che i centri di riferimento sono saturi».

In Spagna si è consolidato un sistema ben regolato e trasparente, con siti web dedicati in cui si risponde senza giri di parole alle domande molto concrete che le persone si fanno prima di decidere, come «questa cosa avrà un costo? Cosa succede quando finisce il periodo di studio? Ci sarà un funerale? Come sarà e a carico di chi?». E la presenza di un'associazione nazionale di donatori che testimoniano le ragioni della propria scelta ha aggiunto valore all'informazione più tecnica.

Padova e Bologna: da pionieri a capofila della donazione

Per legge il ministero della Salute individua le strutture universitarie, le aziende ospedaliere di alta specialità e gli istituti di ricovero e cura di carattere scientifico che possono diventare centri di riferimento per la conservazione e l'utilizzazione dei corpi. Per ora quelli accreditati sono sette: le Università di Bologna, Padova e Brescia, l'Azienda ospedaliero-universitaria di Sassari, e tre IRCSS privati.

Nel centro del dipartimento di Neuroscienze della città veneta, guidata da Raffaele De Caro, sono custoditi 50 corpi donati. «Già prima della legge capitava che un cittadino, dopo un'esperienza positiva in ospedale, volesse mettere a disposizione il proprio corpo post mortem per la formazione dei futuri medici e operatori sanitari», riferisce De Caro, «e si rivolgeva a uno specifico centro per avere informazioni su come fare». Ci sono state persone con patologie neurodegenerative che hanno chiesto di donare al centro padovano per contribuire alle ricerche sul Parkinson e l'Alzheimer. Anche se la legge non permette di scegliere a quale centro donarsi, ma fa riferimento a quello territorialmente competente, in quelli di più lungo corso, come Bologna e Padova, le donazioni continuano ad arrivare anche da fuori regione. «Ormai riceviamo quattro disposizioni alla settimana», riferisce De Caro, «e, quando avviene l'evento morte, arrivano fino a 3-4 corpi al mese».

Il programma per le donazioni del Centro di Anatomia di Bologna è cresciuto grazie al passaparola tra donatori e studenti dei corsi di laurea in Medicina e delle Professioni sanitarie.«Dal 2013 abbiamo registrato oltre 430 intenzioni di donazione da parte di persone che vogliono essere utili anche dopo la morte», racconta la responsabile, Lucia Manzoli. «Da un lato siamo arrivati preparati all'uscita della legge», afferma Manzoli, «dall'altro no, perché, mentre prima avevamo un contatto diretto con in donatori, adesso, da quando il processo è stato portato su un piano nazionale ma ancora non esiste la banca dati destinata a queste donazioni, le persone già intenzionate a donare il proprio corpo l'hanno vissuta come uno stop e ci hanno chiesto di essere avvisate quando il sistema sarà perfezionato».

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Verso una campagna di informazione per tutti

In questa nuova situazione è ancora più importante, dunque, strutturare una campagna per informare la cittadinanza e responsabilizzare il personale sanitario. Nell'ambito dell'accordo con la Regione Emilia-Romagna, l'Università di Bologna si dedicherà al secondo aspetto e sta iniziando a definire gli strumenti per farlo. «Per valutare il livello di consapevolezza su questo tema, useremo il questionario Pro Dono», spiega Manzoli, «che abbiamo elaborato insieme al dipartimento di Sociologia dopo una serie di interviste rivolte a tutti coloro che in questi anni sono stati coinvolti nel nostro programma di donazione». Si sta pensando di coinvolgere i neolaureati in medicina già formati sulla donazione per animare incontri tematici nei quartieri e saranno avviati corsi di formazione per i medici e i pediatri di base, che sono i primi a cui i potenziali donatori si rivolgono, spesso senza trovare le informazioni che cercano.

«C'è bisogno di informare le persone sul significato di questo gesto così alto», conclude Lucia Manzoli, «e sulle sue specificità, perché è altra cosa rispetto alla donazione degli organi, che peraltro non è incompatibile e rimane prioritaria. Poi ci sono aspetti non banali per i familiari, che, nel momento più difficile, quello del distacco, possono trovarsi a pensare che il corpo della persona cara sarà in un altro luogo ancora per un anno».

Immagine in anteprima via Il Gazzettino

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