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Perché la scienza non si comunica a suon di schiaffi

3 Gennaio 2017 9 min lettura

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Perché la scienza non si comunica a suon di schiaffi

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Tra gli argomenti scientifici oggetto di dibattito sociale i vaccini sono senz'altro tra quelli che più continuano ad attirare l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica. Nell'ultimo anno il problema del calo delle coperture vaccinali e i casi di meningite in Toscana, e non solo, hanno riacceso la discussione, spingendo molti, anche sui social media, a intervenire schierandosi a favore o contro i vaccini. (Valigia Blu ha dedicato al tema dei vaccini un vademecum, che cerca di rispondere ai principali errori e i luoghi comuni sull'argomento).

La diffusione di miti e bufale ha spinto scienziati ed esperti a cercare di sfruttare lo spazio dei social media per cercare di sottrarre il maggior numero di persone all'influenza dei gruppi antivaccinisti. Roberto Burioni, un medico docente universitario di microbiologia e virologia, gestisce una pagina su Facebook molto seguita.

Il 31 dicembre Burioni ha pubblicato questo post:

Il medico smonta, con una semplice ma efficace evidenza empirica, una bufala particolarmente odiosa (diffusa anche dal movimento neofascista Forza Nuova): quella secondo cui i casi di meningite che si stanno registrando in Italia sono causati dall'arrivo di migranti dall'Africa.

Come spesso succede, il post ha generato una discussione nei commenti. Burioni ha ritenuto di cancellare gli interventi (spesso a contenuto xenofobo) di chi evidentemente contestava o metteva in dubbio i dati riportati.

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Il post ha avuto numerose condivisioni. Ma a ricevere numerosi "likes" è stato anche questo commento, con cui Burioni ha motivato la scelta di eliminare alcuni commenti:

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Il commento ha avuto fino a questo momento più di 6mila "mi piace".  Segno che questo tipo di approccio viene apprezzato da molti, essendo forse considerato quello più giusto ed efficace di fronte a chi, per le motivazioni più diverse, non accetta le evidenze scientifiche che riguardano argomenti di particolare rilevanza sociale, come quello dei vaccini. Il Post su Facebook ha definito Burioni un "eroe".

Ma in questo commento Burioni, senza probabilmente avere l'intenzione di farlo, ha anche esposto la propria filosofia della comunicazione della scienza e la propria visione del rapporto tra scienza e società. Una filosofia e una  visione che può essere utile esaminare, al di là del tema del post e dei commenti cancellati.

La filosofia della comunicazione della scienza adottata da Burioni si può riassumere così: «io sono l'esperto, voi il pubblico. Io studio queste cose, voi no, perciò non è possibile alcuna discussione alla pari con me, cosa che può avvenire solo con altri esperti».

Questo approccio si può considerare una versione "estremizzata" di quello che nella comunicazione della scienza viene definito Public Understanding of Science (PUS).

Il punto di svolta nello sviluppo del PUS è stata la pubblicazione, nel 1985, di un rapporto della britannica Royal Society, elaborato da un gruppo di lavoro guidato dal genetista Walter Bodmer. Il rapporto constatava il pericolo di una sempre maggiore frattura tra scienziati e pubblico. Un rischio che si sarebbe dovuto evitare dal momento che la scienza, e le sue applicazioni, era ormai diventata da tempo un'impresa dalla quale dipendeva il benessere delle nazioni.

I sondaggi evidenziavano le scarse nozioni scientifiche della popolazione. Perciò, per i fautori del PUS, l'analfabetismo scientifico costituiva l'ostacolo principale nel percorso di avvicinamento del pubblico alla scienza. Colmare il deficit di nozioni avrebbe contribuito anche a suscitare una maggiore stima nei confronti della scienza e ad accettare le innovazioni tecnologiche prodotte grazie alla ricerca (per questo molti definiscono il PUS anche deficit model).

In sostanza: io ti spiego i vaccini o gli Ogm e tu, cittadino comune, non solo conoscerai la scienza dei vaccini o degli Ogm, ma accetterai e sosterrai anche l'impiego di queste applicazioni.

Il PUS, infatti, si basa sul presupposto che il pubblico, nei confronti della scienza, sia qualcosa di sostanzialmente monolitico, estraneo al proprio stesso contesto sociale. Spesso ostile alla scienza, comunque quasi sempre disinformato. Per questo quello del PUS non può che essere un modello di comunicazione  completamente unidirezionale. La conoscenza, una volta fissata, viene trasferita dagli scienziati al pubblico, visto come un contenitore passivo di nozioni.

Il PUS è stato per molto tempo il modello concettuale di riferimento nell'elaborazione delle iniziative di divulgazione promosse da governi e istituzioni. Con il passare degli anni, tuttavia, gli studi sulla comunicazione della scienza e sul rapporto tra scienza e società hanno dimostrato che alcuni dei pressuposti su cui si basa il PUS sono semplicistici. E le previsioni dei suoi fautori si sono rivelate ottimistiche.

Ad essere messa in discussione è stata la stessa concezione della comunicazione della scienza come di un'attività di mera spiegazione di fatti ed evidenze. I fatti, da soli,  possono non bastare a convincere il pubblico della validità di una teoria o di una ricerca. L'esposizione a una maggiore dose di informazione non solo può non bastare a mutare le opinioni del pubblico, ma talvolta può, al contrario, irrigidirle. Un fenomeno che è stato osservato proprio nel caso della comunicazione sui vaccini da parte delle istituzioni sanitarie.

Questo accade perché le persone non si comportano come recipienti vuoti da riempire con nozioni. Ma da soggetti che elaborano attivamente queste nozioni, sulla base anche delle proprie credenze ed esperienze personali. I fatti vengono collocati all'interno di quelli che vengono definiti frames, cioè quadri concettuali di riferimento che condizionano la propria opinione. Oltre i fatti, insomma, esistono i valori. E questi valori non sono elementi secondari nel modo con cui le conoscenze scientifiche passano dai centri di ricerca e dai dipartimenti universitari al grande pubblico. Per non parlare del ruolo che in questo percorso rivestono i media generalisti, dove non sempre i nuovi studi, e le loro implicazioni, vengono riportati e descritti correttamente.

Come scrive Massimiano Bucchi, studioso del rapporto tra scienza e società, c'è un sapere "laico" (proprio cioè dei non esperti), con cui il sapere scientifico deve confrontarsi:

Il sapere laico non è una versione impoverita o quantitativamente inferiore del sapere scientifico, ma qualitativamente diversa. La 'conoscenza fattuale' rappresenta soltanto uno degli ingredienti del sapere laico, in cui inevitabilmente si intrecciano altri elementi (giudizi di valore, fiducia nei confronti delle istituzioni scientifiche, percezione della propria capacità di utilizzare sul piano pratico la conoscenza scientifica) in un complesso non meno sofisticato di quello specialistico.

Inoltre, nota sempre Bucchi, è stato perfino rilevato che un maggiore livello di conoscenza non necessariamente porta il pubblico a condividere la stessa posizione della comunità scientifica, per esempio sulle biotecnologie.  La disponibilità di maggiori informazioni può spingere a nutrire posizioni ancora più "scettiche" e diffidenti nei confronti delle affermazioni degli scienziati.

E per quanto riguarda il rapporto di fiducia tra scienza e pubblico, vicende come l'epidemia di encefalopatia spongiforme bovina nel Regno Unito (la cosiddetta "mucca pazza") hanno dimostrato che una non corretta gestione, da parte delle istituzioni, della comunicazione del rischio e dell'incertezza scientifica può produrre una crisi di credibilità nei confronti delle istituzioni sanitarie, e quindi anche di quelle scientifiche.

I limiti del PUS hanno convinto non solo gli studiosi di comunicazione della scienza, ma anche gli stessi scienziati, ad abbandonare alcuni dei presupposti del modello precedente. Il PUS si è quindi evoluto nel PEST (Public Engagement in Science and Technology). Da un approccio "dall'alto verso il basso" si è passati a un modello di comunicazione che, come suggerisce l'espressione, pone l'accento sul coinvolgimento del pubblico, non più visto come recipiente passivo di nozioni ma come soggetto attivo nel processo di trasferimento della conoscenza.

Secondo questo nuovo modello la comunità scientifica non deve limitarsi a trasferire conoscenze con un approccio "paternalistico", ma deve discutere in modo trasparente e aperto, e alla pari, con il pubblico. Il pubblico diventa così un attore del processo decisionale, perché le implicazioni di numerosi campi della ricerca scientifica, dalla medicina all'ambiente, riguardano tutta la società, non solo gli esperti. La scienza diventa quindi un'impresa che non può non coinvolgere l'intera comunità perché richiede decisioni collettive, anche politiche (si pensi a referendum come quelli sull'energia nucleare o la fecondazione assistita).

Sono state prodotte diverse esperienze di PEST. Alcune prevedono, per esempio, la partecipazione di comitati, associazioni di pazienti, giurie di cittadini o l'organizzazione di consensus conferences dove persone comuni interrogano gli scienziati su un tema e le conclusioni vengono riportate pubblicamente in un rapporto.

Il coinvolgimento del pubblico, in alcuni casi, può addirittura spingersi a prendere la forma di una collaborazione tra scienziati e non-scienziati nella produzione di nuova conoscenza. Sono le esperienze cosiddette di citizen science: dai progetti di calcolo distribuito, a cui può partecipare chiunque possieda un computer collegato alla Rete, alla ricerca nel campo della zoologia e della biodiversità.

Alla base di questa concezione partecipativa del rapporto tra scienza e società c'è la convinzione, come scrive il sociologo della scienza Andrea Cerroni, che:

Nella società della conoscenza, tanto ai non scienziati è richiesto di formarsi e informarsi su questioni scientifiche sempre più presenti nella vita quotidiana, quanto agli scienziati è richiesto di inserirsi nei processi di formazione del consenso nell’opinione pubblica.

Il modello del PUS ha avuto il merito storico di indicare come vitale la questione della comunicazione pubblica della scienza e della sua importanza per tutta la società, sottolineando anche il rischio di un allontanamento tra scienziati e cittadini. E il superamento del PUS non significa, peraltro, che si debba abbracciare una forma di relativismo radicale, per cui non esistono i fatti e tutte le opinioni si equivalgono. Esiste ancora un deficit di conoscenze scientifiche in una larga fetta della società, che è necessario colmare.

Ma la nozione di "società della conoscenza", ricordata da Cerroni, dimostra la fallacia dell'affermazione con cui Burioni conclude il suo commento: «la scienza non è democratica». In questo caso si confonde la democrazia come processo elettorale, con la democrazia come partecipazione comunitaria. Come scrive il giornalista scientifico Pietro Greco, «la società della conoscenza è caratterizzata dall’espansione della scienza e dall’espansione della democrazia, in un processo in cui le due dimensioni non sono più separate». E aggiunge:

La scienza, anche in termini epistemologici, ha valori intrinsecamente democratici. Fin dalla rivoluzione del Seicento, i membri della comunità scientifica raggiungono un consenso razionale di opinione intorno ai fatti osservati nel mondo sulla base di un insieme di valori che Robert Merton ha riassunto nell’acronimo CUDOS (Comunitarismo, Universalismo, Disinteresse, Originalità e Scetticismo sistematico) e che noi potremmo tentare di sintetizzare in una frase: la conoscenza appartiene a tutti e la sua costruzione deve essere trasparente.

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Nella "società della conoscenza" esiste un nuovo diritto: quello alla cittadinanza scientifica. «Devono compartecipare alle scelte tutti coloro che hanno una posta in gioco (stakeholders). E quindi, nel caso della politica della ricerca complessiva, tutti i cittadini». "Comunicare tutto a tutti" è indispensabile per garantire questo diritto.

La scienza non è solo un insieme di nozioni ma anche un complesso di istituzioni e una comunità che si apre, e si deve sempre più aprire, verso l'esterno. Questo non è altro che l'estensione verso il resto della società, e la logica e storica conseguenza, della visione che ha prodotto la nascita, con la Rivoluzione scientifica, delle accademie, dove veniva promosso e favorito il libero dibattito tra i cultori delle scienze. È quindi evidente che una corretta comunicazione della scienza non può che essere lontana dalla visione della persona comune come di un soggetto che non può discutere "alla pari" con uno scienziato.

Il fisico Richard Feynman diceva, addirittura, che «scienza è credere nell'ignoranza degli esperti». Ora, possiamo anche non accogliere questo apparente paradosso e limitarci a evitare di negare il diritto di parola nei confronti di un esperto. Altrimenti il rischio è che la distanza tra «lo dice la scienza» e «lo dico io» si accorci fino ad annullarsi.

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