Schwa, asterisco e linguaggio inclusivo: proviamo a rispondere alle critiche più frequenti
12 min letturaDopo aver pubblicato il nostro articolo sulla petizione contro lo scevà e "pro lingua nostra", abbiamo ricevuto moltissimi commenti, in particolare su Facebook. Se di alcuni ci ha davvero stupito l’aggressività, la predisposizione a trattare l’argomento come si fosse di fronte a una terribile minaccia, abbiamo in ogni caso registrato come l'argomento scateni dibattiti accessi.
Questo si è ripetuto anche con un secondo articolo, che si concentrava su una certa tendenza a individuare nemici o minacce dietro un simbolo, "ə". Ci è sembrato utile approcciare costruttivamente queste reazioni, individuando i punti chiave degli argomenti critici.
Di seguito vi proponiamo un elenco ragionato, cui abbiamo cercato di rispondere su più piani. Siamo consapevoli che non si tratta soltanto di una questione tecnica legata a grammatica o morfologia, e convinti che sia importante tenere aperta una discussione il più civile possibile. Se leggendo vi sembra che manchino alcuni argomenti, a prescindere dalla vostra posizione in merito, vi preghiamo di segnalarceli. Saremo felici di aggiornare poi l’articolo provando a rispondere anche a quest’ultimi.
1. "Non si possono imporre i cambiamenti linguistici dall’alto"
Generalmente è proprio così. Questa obiezione sintetizza bene il rapporto tra un insieme di regole linguistiche condivise (come la grammatica di una lingua) e il loro utilizzo effettivo, che nel tempo può portare a mutamenti di quelle regole (ad esempio il passaggio dalle lingue latine al volgare).
Certo, esistono nella storia, anche recente, casi di imposizioni dall’alto di varia natura. Come per esempio la Riforma ortografica del tedesco del 1996, nata con l’obiettivo di dare maggiore omogeneità alla lingua usata in vari paesi (Germania, Austria, Svizzera e Liechtenstein. Nel francese la concordanza per prossimità tra aggettivi e sostantivi in caso di generi diversi è stata invece cambiata nel 1651 con il maschile sovraesteso, genere ritenuto da taluni “più nobile”. Ci sono poi i casi limiti in cui una lingua è avversata per questioni politiche, e quindi se ne ostacola l’insegnamento o la diffusione per colpire le comunità che l’utilizza.
Tuttavia se parliamo di forme inclusive, queste non sono mai state create a tavolino dall’alto, o imposte come una forma di autoritarismo. Nascono in contesti LGBTQ+ e transfemministi in particolare nell’ultimo decennio. In italiano, una delle prime risorse rintracciabili che parlano dello scevà è il sito Italiano Inclusivo, attraverso il quale Luca Boschetto nel 2015 propone lo scevà per il singolare e lo “scevà lungo” per il plurale.
Di recente la Norvegia, attraverso lo Språkråd (un consiglio consultivo sulle questioni linguistiche) ha proposto di introdurre un pronome neutro “hen”, accanto a quelli maschili e femminili. Ciò è avvenuto dopo anni di dibattiti all’interno delle comunità di esperti, e constata la diffusione spontanea di “hen” tra i parlanti. Questo è un classico esempio di cosa si intende con le formule “la lingua la fanno i parlanti” e “la grammatica arriva dopo”. Precedentemente era stata la Svezia a introdurre il pronome neutro “hen”, nel 2015, sulla scia di un dibattito iniziato all’incirca all’inizio del secolo. In Svezia hanno tuttavia una sorta di consiglio superiore della lingua svedese, mentre l’italiano ne è privo, quindi è difficile esercitare un simile dirigismo linguistico nel nostro paese.
2. "Nessuno in Italia usa il genere neutro"
In realtà nelle comunità LGBTQ+ o più in generale in contesti in cui si fa attenzione alle questioni di genere, molte persone usano il genere neutro. Ci sono case editrici che lo adottano, come per esempio Effequ, Asterisco Edizioni o Edizioni Minoritarie. L’anno scorso inoltre il Comune di Castelfranco Emilia ha annunciato l’utilizzo del genere neutro solo nelle loro comunicazioni social con un post su Facebook, anche se poi la sperimentazione è stata interrotta. Ci sono poi autori più mainstream che hanno iniziato a usarla in determinati contesti, come i fumettisti Sio o Zerocalcare, o la scrittrice Michela Murgia. Nel 2019 il traduttore e streamer Fabio Bortolotti in un articolo su Outcast ha spiegato la decisione di adottare lo scevà per la localizzazione del videogame Neo Cab. Un caso autorevole si ha sul sito Treccani, dove nella sezione dedicata al magazine Il Chiasmo l’intervista in esperanto a Javier Alcalde è stata tradotta utilizzando lo scevà.
Perciò anche se non esistono dati sull’estensione dell’utilizzo (che percentuale di popolazione, in che contesti, e così via) questa affermazione è semplicemente falsa.
3. "Il genere grammaticale non coincide con il genere delle persone"
Il genere grammaticale è tendenzialmente convenzionale per concetti astratti (“la giustizia”, “il bello”) e oggetti inanimati (“Il sasso”, “la casa”), anche se oggi c’è chi dice che nemmeno in questo caso il genere sia del tutto irrilevante.
Per quanto riguarda animali ed esseri umani, questo è molto meno casuale. Spesso, infatti, sceglieremo il genere grammaticale corrispondente al (presunto) genere semantico dell’animale e dell’essere umano a cui si fa riferimento.
4. "Simboli come scevà o l’asterisco non si possono pronunciare"
Nemmeno le emoji si possono pronunciare, eppure in certi contesti scritti le usiamo 😉
Battute a parte, lo scevà rappresenta proprio uno specifico suono, quindi al contrario di altre soluzioni si può pronunciare. Esiste da poco persino un intero audiolibro con lo scevà pronunciato.
Senza contare che, parlando di genere neutro, alcune comunità utilizzano la “u”, che è una vocale a tutti gli effetti. Se l’ostacolo principale fosse questo, sarebbe facilmente aggirabile.
5. "Lo scevà è un segno inesistente nel nostro alfabeto"
Questo è vero, però allo stesso tempo bisogna domandarsi: e quindi? Lo scevà può essere visto come un esperimento linguistico vòlto a dare visibilità a una diversità a oggi invisibile agli occhi dei più. Qualora dovesse arrivare "a norma" (cosa poco probabile, e non certo sul breve periodo), potrebbe diventare parte dell'alfabeto, così come a un certo punto sono diventate parte dell'alfabeto la “Y” o la “W”. Esiste poi il precedente dell’azero, lingua che ha adottato come lettera del proprio alfabeto proprio lo scevà.
6. "La lingua dell'Iran degli ayatollah e dell'Afghanistan dei talebani è il persiano, lingua senza desinenza alcuna di genere. Perciò introdurre il genere neutro non renderà la società più inclusiva"
Anche l'ungherese, il finnico o il turco sono lingue tendenzialmente prive di genere. È evidente che non basta agire sul piano linguistico per cambiare una società, ma occorre riconoscere che esiste una correlazione tra questa, la lingua e il pensiero, che si influenzano a vicenda. La diffusione della parola “femminicidio” non ha eliminato la violenza contro le donne, tuttavia ha permesso di aumentare la consapevolezza sul fenomeno, di farlo “vedere” meglio: di creare, attraverso la lingua, una finestra su un panorama di oppressione che altrimenti sarebbe stato più facile occultare (i “raptus” i “delitti passionali” e così via). E questo non è solo un fatto linguistico, perché altrimenti dovrebbe funzionare in automatico con la parola “maschicidio”.
Infine, sulla questione dell'inclusività abbiamo lingue e comunità che stanno portando avanti esperimenti simili all’italiano. Oltre ai già citati norvegese e svedese, abbiamo tra gli altri tedesco, francese, spagnolo e portoghese.
7. "È una questione ideologica, la lingua non c’entra nulla"
La lingua è veicolo di idee e ideologie. Persino le definizioni dei vocabolari, che in astratto consideriamo "tecnici" od "oggettivi" non sono esenti da questo aspetto. Recentemente, per esempio, la scrittrice e Premio Strega Helena Janeczek ha mostrato come la definizione della parola “ambaradan” sul sito Treccani sia edulcorata rispetto alla realtà storica di quanto avvenne.
Per venire a casi più recenti, anche la scelta di come scrivere la capitale dell’Ucraina - “Kyiv” o “Kiev” - è tutt’altro che neutra. La prima forma segue la pronuncia ucraina, la seconda quella russa, ed è storicamente la variante più diffusa. Tuttavia la prima è anche un modo per riconoscere il diritto all’autodeterminazione del popolo ucraino, e quindi dopo lo scoppio della guerra molte testate d'informazione nel mondo hanno iniziato a usare “Kyiv”.
Quando poi, relativamente al linguaggio inclusivo, si parla in termine di “deriva”, “corruzione” o “pericolo”, di “minoranza” che, alla stregua di un’oscura cabala, vuole “imporre” il proprio volere, non si sta creando un sistema di etichette negative? Non si sta dipingendo, in tutto o in parte, chi utilizza queste forme come agente di “corruzione” e quindi come qualcosa di degenere che agisce per distruggere l’ordine sociale (anche solo per le norme linguistiche)? Questa operazione è neutra e puramente descrittiva?
8. Dislessici e persone neurodivergenti hanno problemi con asterisco e scevà
Qualsiasi cambiamento alla norma ortografica può creare problemi alle persone dislessiche, ad alcune persone neurodivergenti o anche anziane. È singolare, però, che chi ricorre a questo argomento non dica “la ‘u’ non dà questi problemi, utilizziamola al posto di asterisco e scevà” per indicare il genere neutro”. Di solito, invece, si preferisce cercare precedenti autorevoli, come per il caso della Francia, dove il ministro dell’educazione Jean-Michel Blanquer ha vietato con una circolare l’uso del punto mediano come forma inclusiva, dopo aver spiegato i problemi che crea agli studenti dislessici.
Perché piuttosto non ascoltare direttamente le persone coinvolte, ad esempio le comunità LGBT+ neurodivergenti? Invece di mettere un gruppo marginalizzato contro l’altro, o di trattarli come fossero oggetto del discorso e non soggetti, impariamo da loro. Tra le fonti che per esempio si possono seguire c’è Fabrizio Acanfora, che si occupa di diversità e inclusione “dall’interno”, essendo lui stesso autistico (secondo la definizione identity first, che lui stesso richiede per sé).
Soprattutto per le obiezioni di natura tecnologica (assenza dello scevà sulle tastiere, software di trascrizione) è inoltre errato porre questi limiti come insormontabili. Le tastiere possono cambiare, e infatti quelle Android e quelle degli iPhone hanno inserito nel corso dell’ultimo anno gli scevà tra le alternative alle “e”; i software possono essere aggiornati, o se ne possono creare di nuovi. Più complicato è aggiornare i lettori vocali di testi, necessari per le persone cieche o ipovedenti; tuttavia, questo è un limite tecnologico che può venire superato, qualora ci fossero volontà e interesse per farlo.
9. Ormai non si sa scrivere in italiano senza “orrori” di ortografia e solleviamo un polverone per non voler scrivere “cari tutti e tutte”
Premesso che non si è mai scritto - o meglio digitato - così tanto in italiano, e che la sensazione di peggioramento delle conoscenze di ortografia probabilmente dipende anche dal fatto che molte più persone hanno accesso alla scrittura pubblica, bisognerebbe avere l’accortezza di non cadere nel cosiddetto benaltrismo. Se si pensa che l’insegnamento della grammatica e dell’ortografia sia importante, allora ci si può naturalmente attivare come cittadini per richiedere maggiori investimenti nella scuola, politiche di sostegno per chi insegna e studia. È errato pensare che la questione “alfabetizzazione” sia rappresentata dal binomio “linguaggio inclusivo vs ortografia”, per cui si debba scegliere o l’uno o l’altra, barrando una casella. È un po’ come quando si parla di crisi di rifugiati e qualcuno dice “e i terremotati?”.
10. Io dico “cari tutti e care tutte”, che problema c'è?
Le varianti del linguaggio inclusivo (come “*”,“u” “ə”) possono servire in tre occasioni: per rivolgersi a una moltitudine mista volendo tenere conto delle persone non binarie; per rivolgersi a una persona non binaria; per parlare di una persona di cui non si conosce il genere. “Cari tutti e care tutte” continua a essere escludente nei confronti di chi, in quella dicotomia maschile/femminile, non si riconosce o non è compreso.
11. Così si invisibilizzano le donne
Se si usa per esempio lo scevà al posto del maschile sovraesteso, là dove una doppia o tripla forma “care tutte, cari tutti, carə tuttə” non è possibile, sostituisce semplicemente quest'ultimo. L’istanza femminile e quella delle persone non binarie possono essere viste in continuità, non in opposizione. Per chi, invece, avesse particolare affezione per il maschile sovraesteso, ricordiamo che recenti studi di psicolinguistica mostrano che esso non è privo di conseguenze cognitive; in altre parole, quando usiamo il maschile sovraesteso finiamo per pensare in un determinato modo, non privo di pregiudizi.
Quanto alle forme linguistiche che spesso sono criticate come forma di cancellazione (ad esempio “persone che mestruano”), può essere utile osservare le scelte linguistiche nei contesti pratici e nelle relazioni che instaurano, prima di dichiarare in astratto e in assoluto gli effetti sortiti. Nel Regno Unito, ad esempio, l’attivista Hawa Bah fa da consulente a donne e persone sopravvissute a mutilazione genitale femminile. Nel suo lavoro usa per l’appunto il linguaggio inclusivo, e questo perché tra le persone che aiuta ci per esempio sono uomini trans, ed è per lei necessario utilizzare un linguaggio il più ampio possibile per poterli raggiungere, entrare in connessione.
Sempre nel Regno Unito, ma in Scozia, la campagna che ha portato il paese a rendere gratuiti i prodotti mestruali (primo al mondo) è stata condotta interamente usando il linguaggio inclusivo. Tanto le associazioni che si sono mobilitate quanto i parlamentari che hanno discusso la legge, a partire dalla laburista Monica Lennon, hanno parlato di “people who menstruate” o “people ”. A seguito della campagna non solo si è deciso di rendere gli assorbenti gratuiti, ma si è previsto che i distributori siano presenti nei bagni femminili e maschili. In entrambi i casi, il linguaggio invece di cancellare ha permesso di vedere di più il problema e di aumentare il raggio di azione della società civile o della politica.
12. Questo articolo dice tutto quello che c’è da dire! [link]
Questo è un argomento che ricorre spessissimo nelle conversazioni online. In particolare, circa linguaggio inclusivo, scevà e le recenti polemiche su cui ci è capitato di scrivere, diversi utenti hanno usato questa argomentazione riportando un articolo pubblicato sul sito Treccani, e firmato da Cristiana de Santis (altri hanno invece postato questo intervento di Paolo d’Achille).
Qui ci sono due aspetti da tenere presente. Il primo è che gli articoli, in particolari su temi come le scelte dei parlanti, non sono formule magiche, e difficilmente sanciscono verità ultime: sono dei contributi utili e fondamentali per capire e formarsi un’opinione, questo sì, ed è salutare leggerli con attenzione. Tuttavia, presentare una nozione, un concetto o un’opinione come vera solo perché sostenuto da una o più persone esperte ricade nella fallacia di autorevolezza.
Il secondo aspetto è che riteniamo centrale evitare di trincerarsi dietro un approccio prescrittivo (“non si può andare contro questa regola” / “non va bene farlo”), in favore di uno descrittivo che aiuti a comprendere il fenomeno. Ciò aiuta prima di tutto a non aver paura di una variante linguistica o di chi la usa - e quindi allontana il timore di essere cancellati, colonizzati culturalmente o chissà cos’altro. Giova ricordare che, così come non si possono imporre modifiche linguistiche “dall’alto”, non si possono impedire “dall’alto”. La lingua, più o meno lentamente, fa il suo corso, checché ne dicano le accademie.
Per chi volesse leggere degli approfondimenti sul tema, dove sono presenti pluralità di vedute, anche contrastanti, rimandiamo al numero 23 della rivista dell’Università di Roma Tor Vergata, Testo e Senso, nel quale voci differenti dibattono sul tema del linguaggio inclusivo (o ampio).
13. Che lo scevà sia finito in un documento ufficiale è un atto grave, che va fermato
Probabilmente i documenti amministrativi o gli atti ufficiali non sono il posto più giusto per inserire una sperimentazione di questo tipo, perché sono contesti nei quali è importante preservare la maggior comprensibilità e accessibilità possibile (anche se ci sarebbe molto da dire su quanto il “burocratese” renda i testi inaccessibili).
Recentemente, il professor Maurizio Decastri, autore degli ormai celebri verbali per l’Abilitazione Scientifica Nazionale, è intervenuto nel dibattito motivando, in sostanza, la sua scelta individuale. Nella decisione di impiegare lo scevà in quei documenti non c’è stata alcuna imposizione, ma una volontà personale, che non è detto che vada condivisa, e che naturalmente può essere criticata. Ma, come abbiamo già scritto, non c’è bisogno di iniziare una petizione senza uno scopo pratico dichiarato per protestare contro la scelta di Decastri (solo in un secondo momento si è esplicitato cosa si sarebbe fatto delle firme); casomai, si scrive al ministero, si chiedono delucidazioni, ci si attiva nelle sedi istituzionali opportune.
14. C’è una minoranza che vuole imporre la sua riforma linguistica alla maggioranza dei parlanti!
Forse occorrerebbe fare un passo indietro. Rendersi conto che, se cade l’accusa di voler imporre una riforma linguistica “a tavolino” e dall’alto e si osserva come certi usi circolino nelle comunità LGBTQ+, essendo nati - come detto - al loro interno, rimane poco contro cui allarmarsi, e molto da osservare e ascoltare. Oppure c’è da ammettere che si vogliono problematizzare queste comunità, e ciò va al di là delle norme linguistiche e dei relativi dibattiti.
Noi generalmente non pensiamo che la lingua volgare sia qualcosa che abbia “cancellato” il latino, o lo abbia “corrotto” o rappresenti una “deriva”. Né studiamo i documenti che attestano la diffusione del volgare come testimonianze di lobbysmo. È qualcosa che riguarda le caratteristiche specifiche della lingua volgare, o semplicemente dipende dal fatto che non attribuiamo caratteristiche morali a chi nel tempo ne ha favorito la diffusione, o alla diffusione stessa?
Chi, di questi tempi, sta sperimentando con lo scevà o con altre forme inclusive lo fa per necessità personale o per posizionarsi rispetto a un’istanza politica che condivide (i cosiddetti ally, alleati). Nessuna persona che usa lo scevà, l’asterisco, o altre forme per il genere neutro ha mai iniziato petizioni per imporle al resto della popolazione. Chi ricorre al linguaggio inclusivo lo fa per evidenziare una questione concreta, quella delle persone non binarie. C’è poi una questione legata al superamento del pensiero binario in sé, che coinvolge per esempio la rappresentatività delle persone intersex, ossia circa l’1% della popolazione. Ma non è assolutamente detto che quelle individuate finora siano le soluzioni linguistiche definitive. Tuttavia, come scritto da Antonia Caruso, «quando si scrive “tutt*” si esprime il fatto che ci sia una possibilità latente di poterci stare praticamente per chiunque»: è un errore pensare che la questione riguardi solo delle soluzioni linguistiche e la loro ammissibilità.
Se vogliamo parlare invece di avanguardie come di un pericolo sovversivo, prendendo le posizioni più radicali come se fossero sintomo di una minaccia all’ordine costituito contro cui sollevarsi, allora dobbiamo rivedere per intero la storia delle avanguardie, censurando per esempio il violento e misogino Futurismo: “Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”. O, passando alle avanguardie politiche e filosofiche, eliminare tutti i rivoluzionari, da Marx in poi. Se ciò sembra provocatorio, giova ricordare che la storia recente, in particolare dagli Stati Uniti, ci ha mostrato come il clima da panico morale, così come le chiamate alle armi in nome di fantomatiche "guerre culturali" contro minacce destabilizzanti, preparano facilmente il terreno a provvedimenti repressivi, in particolare quando ci sono di mezzo le questioni di genere e inclusività, fino ad arrivare alle liste di proscrizione.
Immagine in anteprima: James A. Molnar via unsplash.com