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Vele di Scampia, perché si vive ancora nell’abbandono

30 Luglio 2024 12 min lettura

Vele di Scampia, perché si vive ancora nell’abbandono

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Per i funerali delle vittime del crollo alla Vela Celeste di Scampia, ci si aspettava gran folla e forse, mista a dolore, anche tensione: la rabbia dei residenti del quartiere e dei familiari. Invece la grande piazza Giovanni Paolo II è rimasta quasi vuota sotto un sole implacabile, e i funerali, celebrati dal vescovo di Napoli don Mimmo Battaglia, si sono svolti nel silenzio. Ci sarà, poi, chi dirà che le file di sedie di plastica non sono state occupate per protesta. Ciò che risulta evidente da subito, però, è che quelle sedute scure e roventi, senza alcun riparo nell'aria infuocata, abbiano fatto da involontario promemoria della necessità di avere un tetto sulla testa. Serve una protezione, qualcosa. Se manca, conviene arrangiarsi. Le persone c'erano eccome ai funerali di Roberto Abruzzo, Patrizia Della Ragione e Margherita Della Ragione, ma s'erano addossate ai muri e strette nei coni d'ombra ai margini dello slargo. Solo qualcuno aveva raggiunto i pochi gazebo blu destinati, in buona parte, ad accogliere in prima fila autorità e personalità politiche. Alla fine, tra le persone che hanno presenziato alle esequie, si conteranno diversi malori causa caldo. E l'unico momento difficile, di lacrime e urla, sarà al lancio di palloncini bianchi contro l'azzurro feroce di fine luglio, il saluto delle bare.

Che succere dint' 'a Scampia?

Una quindicina di anni fa, la cantante neomelodica Raffaella imperversava su radio e tv locali con una hit. Il video era girato nelle Vele, il ritornello chiedeva “Che succere dint' 'a Scampia?”, che succede dentro la Scampia? Ad esplicitare due cose: prima di tutto, più che di un quartiere o di una serie di palazzi, sembrava si parlasse di un contenitore. In secondo luogo, vi accadeva qualcosa su cui farsi domande. È successo ancora, è successo di nuovo. E stavolta non c'entra una storia già nota al grande pubblico perché rimasticata e adattata a una qualche narrazione mainstream. Stavolta si tratta di un cedimento strutturale. All'interno della Vela Celeste o Vela B che dir si voglia, quella meglio tenuta secondo le carte, è caduta una delle passerelle che collegava un ballatoio a un’abitazione. Per comprendere meglio, questo palazzone, replica di altri, è costituto da due grandi corpi di forma triangolare messi faccia a faccia. Le passerelle e i ballatoi sono quegli attraversamenti pedonali sospesi che li mettono in comunicazione. Per muoversi all'interno dell'edificio, uscire ed entrare nelle case, la gente deve camminarci sopra. Il crollo, improvviso, è accaduto poco dopo le 10 di sera di lunedì 22 luglio e ha trascinato con sé nel vuoto altre strutture e circa quindici persone. Una è morta sul colpo, un'altra poco dopo, un'altra ancora il giorno seguente. Restano, ad oggi, sette bambine ricoverate all'ospedale pediatrico Santobono, di cui due in condizioni gravissime, e altri adulti feriti in modo più o meno grave. Rimangono anche gli interrogativi: perché è successo? Si poteva evitare? Cosa si farà adesso? A una settimana dai fatti, si cominciano a tentare risposte, tra aiuti e provvedimenti per gli sfollati, controlli nelle altre Vele ancora in piedi (la gialla e la rossa), il racconto dei soccorritori e degli infermieri, la cronistoria dei provvedimenti attuati nell'area.

Un salto all'indietro lungo quattro decenni

Eppure, per comprendere come si è arrivati a questa situazione, forse è meglio mettere momentaneamente da parte sia le domande sul futuro, che quello che crediamo di sapere già. Non è facile perché significa distaccarsi non tanto dalle cronache recenti, ma dai film e dalle serie tv che guardiamo da anni. Storie di camorra, ammazzamenti, miseria sociale e persino riscatto e rinascita ci hanno intrattenuto. E i palazzoni a triangolo, con la loro presenza scenica, hanno riempito i nostri occhi. Di fronte a loro, però, pochi si sono chiesti come sono nati e perché, chi li abita, in che condizioni e cosa pensano di farne le istituzioni. A molti è bastato il racconto con un inizio, uno svolgimento e una fine. Morale? In tantissimi, a Napoli, in Campania, in Italia e fuori, non si sono resi conto che se un film finisce e la cronaca cambia giorno dopo giorno, la vita nelle Vele va avanti e sopravanza anche i progetti di abbattimento o riqualificazione. Se vogliamo prenderne coscienza, dobbiamo fare un passo indietro che in realtà è un salto lungo decenni. Chiamiamolo prequel come quello che Sky ha annunciato di voler realizzare per Gomorra, e torniamo a quando quest'area era ciò che suggerisce il suo stesso nome: un non-campo, un terreno su cui sorgeva appena il 20% degli attuali edifici, in una città che stava cambiando faccia molto rapidamente.

Sono gli anni Sessanta del secolo scorso, al cinema c'è "Le mani sulla città" di Francesco Rosi, sguardo chirurgico sulla realtà napoletana. In città, amministrata prima dall'armatore Achille Lauro, poi dalla Democrazia Cristiana, il boom economico si intreccia con la speculazione edilizia. Napoli si riempie di casermoni, dal centro storico al Vomero alle nuovissime periferie. La fame di case fa tutt'uno con la grande promessa di “una casa per tutti”. La traduzione, per chi non riesce ad accedere al mercato immobiliare privato per scarsità di mezzi economici, è in progetti di edilizia popolare su larga scala. Si tratta di grossi edifici costruiti quasi in serie e sin da principio sono destinati a famiglie a basso reddito. Sulla carta, andranno a vivere in quartieri modello, in linea con il dibattito europeo più avanzato su architettura e fenomeni sociali. Nella realtà, ci sono scarsi controlli durante la realizzazione, l'utilizzo di materiali scadenti e variazioni su variazioni ai progetti iniziali.

I nuovi agglomerati urbani finiscono per risultare alieni al territorio in cui sorgono e agli stessi abitanti. Al centro di dinamiche assai più grette, si trasformano rapidamente in incubi urbani mal collegati con la città. Anche quando previste, le opere necessarie a non trasformarli in ghetti non sono state realizzate. Il risultato è gente povera sistematicamente spinta in un angolo come sporcizia, e lì lasciata. A Napoli succede un po' ovunque, a est come a ovest e, ovviamente, anche a nord, a Scampia. Niente più terreni agricoli. In conformità con la legge 167, dal 1965 sono stati espropriati centinaia di ettari per costruire case pubbliche e cooperative. Tra loro, ci sono le Vele: sette costruzioni contrassegnate con le lettere dell'alfabeto, per un totale di più di 1000 alloggi destinati a circa 6500 persone.

La storia della loro nascita, del progetto elaborato tra il 1972 e il 1974 da professionisti e docenti universitari coordinati dall'architetto Franz Di Salvo su incarico della Cassa per il Mezzogiorno, del modo in cui si è scontrato da subito con la realizzazione è molto lunga e articolata. Qui basterà dire che i due corpi triangolari a comporre la singola Vela, accostati ma separati da un grande vuoto centrale, vengono avvicinati, i piani degli stabili aumentano e le attrezzature, i negozi e i servizi per la collettività, le aree verdi e di gioco per i bambini saltano. I sistemi di collegamento verticale (ascensori) smettono presto di funzionare o non entrano mai in funzione. I percorsi pedonali orizzontali, le strade pensili (quelli che oggi chiamiamo passerelle e ballatoi), subiscono modifiche. Non si replica più la struttura dei vicoli di Napoli, non si favorisce l'illuminazione naturale o la vita di relazione. Nel 1980, inoltre, la grande concentrazione residenziale non è ancora ultimata. Mancano persino gli allacciamenti all'acquedotto, alla fognatura comunale, al gas e all'elettricità. Nonostante ciò, la gente comincia a viverci. In parte, è il Comune, amministrato dal sindaco comunista Maurizio Valenzi che governa tra molte difficoltà e il bisogno del consenso della DC, a permetterlo. 

Il “male minore” e il cortocircuito narrativo

Ma è stato davvero solo lo spazio a influire sui comportamenti delle persone che lo hanno abitato, generando una trappola urbana in cui il degrado, la miseria e la delinquenza trovano terreno fertile? Non proprio. Per completare il quadro bisogna aggiungere diversi fattori. Ci sono le difficoltà e le carenze istituzionali. Ci sono due calamità naturali – il terremoto del 1980 in Irpinia, la crisi del bradisismo a Pozzuoli tra il 1982 e il 1983 –. C'è un rimpallo di competenze tra enti. E c'è la scarsissima manutenzione che deve vedersela con un quadro di immobilismo desolante. Arrangiarsi diventa la norma. Si rompe qualcosa o qualcosa non funziona? Manca il necessario per condurre una vita normale e lo si segnala, ma l'intervento tarda ad arrivare o non arriva affatto? Dopo qualche mese, molti residenti cominciano a provvedere in proprio, come le loro tasche o il loro ingegno permette. La precarietà, l'incertezza, la violazione delle regole e l'illegalità risultano così percepite come un “male minore”. Altri, vi guardano come a un destino già scritto per un'area nata male. Nella Napoli degli “opachi anni Ottanta”, dei cosiddetti “viceré” da Gava a Pomicino, dei trentamila tossicodipendenti, e della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, infatti, c'è chi accetta che saltino le graduatorie per l’assegnazione dei nuovi alloggi e comincino le occupazioni, sia da parte degli aventi diritto che degli abusivi. 

Ancora, va ricordato che si tratta di famiglie con un reddito molto basso quando c'è, che condividono condizioni di precarietà lavorativa se lavorano, e che trovano questa situazione replicata attorno a loro in migliaia di esemplari. Si vive così, e lo fanno tutti, e nessuno interviene. In quegli anni, a volte ci sono sgomberi, altre si tenta di rispettare le graduatorie di assegnazione degli alloggi, ma più spesso l'occupazione con diritto o meno appare più semplice di fornire una vera risposta abitativa, sociale e occupazionale a migliaia di persone prive di risorse economiche in un ambiente senza riferimenti dove si registra anche un altissimo tasso di disoccupazione. Non si ha la forza neppure di mandarle via e non permettere altri ingressi. E poi c'è la criminalità organizzata. Laddove lo Stato non sa farsi presenza costante e continua, la camorra non solo si diffonde e si impone nei traffici, approfittando della struttura architettonica e dell'assenza delle istituzioni, ma nel vivere quotidiano, arrivando a presentarsi come “parastato”.

Già nel febbraio 1981, Il Mattino scriveva: 

“Sono venuti attirati dal miraggio di una casa e per conquistarsela hanno sfidato la forza pubblica; sarebbero stati disposti a fare le barricate. Poi si sono accorti che in queste case puoi soltanto illuderti di poter condurre una vita normale […] È stato fatto solo l’allacciamento elettrico. Poche le abitazioni con i servizi igienici. Tutto il complesso della 167 è stato recintato da uno steccato di lamiera; per accedere agli ingressi devi giostrarti tra fossi e sentieri di melma […] Su diverse scale non ci sono i parapetti e la settimana scorsa un bambino di due anni e mezzo è stato preso al volo dalla madre mentre tentava di scendere. Gli occupanti hanno dovuto provvedere improvvisando una ringhiera con assi di legno”. 

C'è anche un film, “Le occasioni di Rosa”, premiato con il David di Donatello 1982, che mostra per la prima volta le Vele e il nuovo assetto urbanistico della città sul grande schermo, insieme alla frammentazione sociale che ne deriva. Il regista è Salvatore Piscicelli, morto poco più di una settimana fa, appena un giorno prima del crollo nella Vela Celeste. Insomma, la situazione non è sconosciuta né ai media, né alle istituzioni, né alla politica. 

Gli abitanti, in regola o meno, denunciano da subito le loro difficoltà, si organizzano in gruppi e comitati e cercano di portare le loro istanze all'attenzione di chi potrebbe e dovrebbe far qualcosa. Anche la presenza della camorra è intuibile. Come si fa a credere, dunque, che nessuno si sia figurato il germe del dramma prima di tutto urbano e poi sociale, esploso a partire dagli anni Novanta? Perché si è lasciato che si sviluppasse un cortocircuito narrativo, dalla storia di Scampia alle storie su Scampia o lì ambientante? Il racconto del quartiere come luogo di violenza, droga, ferocia e miserie varie ha giovato a qualcuno? E perché gli abitanti, da persone in condizioni di fragilità costretti o quasi a far da soli, anche in modi non necessariamente regolari (quale è, poi, la regola?), sono stati presentati come “brutti, sporchi e cattivi”? Come mai un ragionamento semplicissimo – c'è bisogno di case e di sostegno per chi non ha mezzi – è saltato, rimpiazzato dal “non si può far molto a parte abbattere”? E perché per abbattere (e ricostruire) ci sono voluti decenni e, con molta probabilità, altri anni ci vorranno ancora?

Cronaca di un crollo annunciato?

Da Scampia sono passati papi, sindaci, politici nazionali, trasmissioni televisive, troupe cinematografiche, musicisti, scrittori, registi. Si è lavorato molto – cittadini, associazioni, istituzioni – per smarcare il quartiere e la popolazione da stereotipi e pregiudizi. Quattro Vele sono state abbattute (la prima nel 1997), tre sono ancora lì, quella di cui si parla oggi – la Celeste o B – dovrebbe esser l'unica a restare in piedi. 

Secondo il progetto di fattibilità tecnica ed economica “ReStart Scampia” datato agosto 2016 – amministrazione De Magistris, a cavallo tra il primo e il secondo mandato –  l'edificio è composto di 14 piani in condizioni molto degradate. All'interno sono presenti 247 appartamenti di varie dimensioni. Si attesta la presenza amianto sia nei parapetti dei balconi che delle passerelle. Anche dopo i rifacimenti, è scritto che lo stabile "non è da ritenersi compatibile per l’insediamento a lungo termine di funzioni abitative". 

Inoltre, nel documento si parla in maniera esplicita della pericolosità della rete di collegamento pedonale tra i vari piani: “costituita da passerelle in acciaio e cemento armato posizionate nella parte centrale tra i due corpi di fabbrica paralleli. Tale struttura si trova in uno stato di degrado dovuto a fenomeni di forte corrosione per la scarsa manutenzione che si è protratta negli anni. In molte parti si notano distacchi delle stesse passerelle con grave pericolo per i residenti”. 

Nella stessa relazione, sono presentati gli interventi che si intende compiere per la riqualificazione del fabbricato. Ancora una volta, si parla delle passerelle: “è previsto lo smontaggio della struttura esistente e la messa in opera di una nuova struttura in acciaio, compresa già di trattamenti protettivi e verniciature. La sovrastruttura delle passerelle sarà costituita da lastre in lamiera stirata, zincata e verniciata, saldamente ancorata a una sottostruttura composta da tubolari in acciaio posti ad interasse congruo rispetto al tipo di sollecitazione. Le finiture laterali delle passerelle saranno costituite da corrimano e pannelli di lamiera stirata in acciaio zincato e verniciato”. Inoltre, a pagina 10 delle “Prime indicazioni per la stesura dei piani di sicurezza” è chiarito che prima di questi o di altri lavori di demolizione, è d'obbligo “procedere alla verifica delle condizioni di conservazione e di stabilità delle varie strutture da demolire. In relazione al risultato di tale verifica devono essere eseguite le opere di rafforzamento e di puntellamento necessarie ad evitare che, durante la demolizione, si verifichino crolli intempestivi”.

Povertà abitativa e necessità di abitare comunque

Secondo le cronache, i lavori di riqualificazione hanno visto l'inizio da circa tre mesi; alcuni residenti, dopo il crollo, hanno raccontato di vibrazioni e tremori mentre si procedeva. Che vi sia qualche connessione o meno, ciò che è noto e certificato da almeno 8 anni è che vi fosse almeno un elemento di rischio e diverse cose cui prestare attenzione, lavori o no. 

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Eppure, oggi ci si muove a tentoni tra le ragioni del cedimento e le colpe di chi forse sapeva, forse poteva fare qualcosa oppure ha fatto, ma non è bastato. Sembra di addentrarsi in un labirinto che replica la stessa struttura della Vela: mentre la Procura di Napoli ha avviato un'indagine per crollo, omicidio e lesioni colpose, testimonianze, voci e ricostruzioni su ciò che è accaduto si sovrappongono a sbalzi come i piani dell'edificio. 

Le domande sono quelle che ci siamo posti all'inizio di questo scritto: quale è stata la dinamica dell'evento? Davvero su quella passerella c'era un gruppo di persone che stava litigando? Seppure fosse, questo giustificherebbe il cedimento o attenuerebbe responsabilità? La passerella era stato rinforzata come previsto oppure no? Si trattava di una struttura originale degli anni Settanta, di un rifacimento seguente in qualche opera di manutenzione straordinaria o, addirittura, era un accomodamento fatto in proprio, un espediente abusivo tra i tantissimi? L'edificio, chiaramente occupato da gente che non ha altro posto dove vivere, è mai stato oggetto di un'ordinanza di sgombero? È stata eseguita o no? Vi sono stati altri sgomberi in precedenza? Se sì, ciò vuol dire che sono arrivati nuovi occupanti che nessuno ha pensato di allontanare e alloggiare altrove? Tra loro c'è qualcuno che è assegnatario di un alloggio o la cui posizione era stata già censita o resa nota al Comune? E nelle istituzioni locali, regionali, nazionali, ci sono o no responsabilità oggettive oppure, ancora una volta, siamo davanti al risultato di quattro decenni di incuria e lasciar correre, povertà abitativa e necessità di abitare comunque?

Quel che è certo è che se le Vele colpiscono tanto il nostro immaginario collettivo ed entrano di prepotenza nei nostri ragionamenti è perché, da principio, quasi inconsapevolmente, ci si chiede come si possa vivere lì. E il fatto che ci vivano, che vi siano generazioni di uomini, donne, bambini e bambine che hanno chiamato e chiamano “casa” questo posto perché questo posto è stato l'unico che li ha accolti in tutta Napoli, non è solo un ossimoro scenografico, ottimo per fotografie, video, film e serie tv di grande impatto, ma umano e istituzionale. Nella città bellissima che tutti scoprono, visitano, amano, che vanta una capacità di risposta comunitaria capace di commuovere, che riscopre identità e orgoglio, che a due chilometri dall'area di cui stiamo parlando offre sistemazioni b&b a 100 euro a notte e, a pochissimi metri, un polo universitario e una stazione della metropolitana, quello che è davvero difficile oggi è ammettere di avere un grande problema, lì da quarant'anni e forse più: dovreste chiedervi perché, in questo momento, c'è ancora chi vive nelle Vele di Scampia. 

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