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La ‘civiltà’ del sapone: la costruzione di un immaginario razzista

4 Settembre 2022 9 min lettura

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La ‘civiltà’ del sapone: la costruzione di un immaginario razzista

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di Federico Faloppa*

Pubblichiamo un estratto del libro Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista (UTET), scritto da Federico Faloppa e uscito il 30 agosto. I brani riportati sono presi dalla "Nota dell'autore" e dal capitolo 7 "La civiltà del sapone".

Nota dell'autore

Nelle pagine che seguono la nword, tanto in italiano quanto in altre lingue, comparirà spesso. Questo perché ho deciso di non modificare o censurare la parola per non alterare i testi originali, storicizzati e contestualizzati, nei quali è inserita. Come è noto, è in corso da anni, anche in Italia, un dibattito importante sulla necessità o meno di riprodurre la nword, anche solo a fine documentario, didattico, o in funzione metalinguistica; anche soltanto tra virgolette in forma di citazione. Questo dibattito è giustificato dalle connotazioni offensive e spregiative che il significante porta con sé. È un significante che infatti io non pronuncio mai, neppure quando devo riferirmi alla nword per criticarne l’uso, o per raccontarne – come faccio spesso, da linguista – la storia e le vicende. Ho imparato infatti che pronunciarlo, anche con intenti antirazzisti o semplicemente metalinguistici (durante una lezione o una conferenza) può ferire chi mi ascolta. E che, malgrado le mie migliori intenzioni, posso involontariamente replicare tutta la carica di dileggio e di violenza dei significati che il significante veicola. Ciò che infatti in un contesto può apparire didattico o “militante” a me, può invece apparire offensivo ad altre persone. Ed è giusto – e doveroso – prenderne atto. Senza contare che pronunciare la nword mi infastidisce comunque, perché in italiano si tratta oggi di una parola usata quasi sempre con l’intenzione di offendere sulla base di motivi “razziali” o, meglio, razzisti. L’oggetto principale di questo libro è tuttavia proprio lo studio della nword in diacronia, attraverso l’analisi di testi contenenti lo pseudosinonimo “etiope”, e non solo. Ho scelto quindi, consapevolmente ma non senza interrogarmi, di riportare nella loro interezza e senza censure esempi e citazioni, proprio per restituire a chi legge le fonti nella loro interezza, sia quando riprodotte fedelmente sia quando tradotte da me. So che si tratta di una scelta problematica, che non convincerà tutti. E chiedo scusa alle persone che la troveranno inopportuna, se non offensiva. Ma so anche che è compito e lavoro dello storico, e del filologo, riprodurre i testi, proprio per indagarne la lingua e il lessico (i suoi usi e contesti, i suoi slittamenti semantici). E per restituire, oggi, storie e vicende nella loro articolazione e complessità, proprio per tentare di coglierne i lasciti e gli strascichi. Senza di ciò, non si comprenderebbe appieno, d’altronde, neppure la sensibilità o l’idiosincrasia attuale verso certe forme e certe parole, né il loro portato emotivo, sociale, politico.

fig. 33

La 'civiltà' del sapone

[...] Era l’Africa tutta, e non soltanto il Marocco, a doversene stare al proprio posto, sottomessa per mezzo di un controllo politico e militare diretto, o “protetta” per mezzo di ingerenze economiche e militari da parte delle potenze europee. E i consumatori europei potevano – anche grazie all’uso del sapone – continuare a considerarsi superiori distinguendosi da quegli infantili e rozzi selvaggi. Disegnata da Edouard Bernard nel 1910 circa, l’affiche per il Savon La perdrix, «il sapone economico che sbianca tutto», raffigura in un contesto coloniale un nativo africano con le labbra gonfie, i piedi enormi, l’espressione ebete, e gli abiti da “primitivo”. Con sguardo svanito e stupito, l’uomo prende un blocco di sapone da una cassa spedita in Africa da Bordeaux, e con esso si sbianca il braccio sinistro, sotto lo sguardo attento di una pernice, la perdrix che dà il nome al prodotto (fig. 33).

Allo stesso modo, il protagonista della pubblicità della candeggina Javel S.D.C. (1920 circa), dall’inequivoco slogan «A sbiancare un negro con Javel S.D.C. non si butta il sapone», è una sorta di mostro, brutto, dalle sembianze di una scimmia, e rachitico, con il corpo di un bambino e la testa di un uomo maturo, e viene immerso in un mastello pieno di candeggina da una giovane domestica bianca (fig. 35). 

fig. 35

Negli anni venti, gli stereotipi iconografici relativi ai neri si arricchiscono però di un altro motivo. Invece che (soltanto) come selvaggi o esseri deformi, i neri vengono rappresentati (anche) come personaggi di vaudeville eredi in parte dei minstrel show ottocenteschi, capaci di far ridere, intrattenere, stupire il pubblico – bianco e borghese – europeo. Nel 1925, negli stessi anni in cui Josephine Baker mette a soqquadro Parigi con la sua scandalosa (agli occhi della borghesia) “Revue Nègre” il poster di Le Savon a l’Epée, «il sapone che pulisce di più e sbianca meglio» mette in scena un comico duello tra due uomini neri, che indossano scarpe eleganti e pantaloni a righe, di fronte a un’audience di quattro giovani massaie bianche, che rimangono stupefatte dall’azione sbiancante del sapone (in particolare quella del pezzo conficcato sulla spada, l’epée del marchio, fig. 36).

Non più soltanto “selvaggi” osservati nel loro ambiente primigenio (e primitivo), i neri appaiono ora più «civilizzati» e più adusi ai costumi europei. Come l’elegante protagonista della pubblicità del sapone Dirtoff (da dirt off, “via lo sporco”: un vero e proprio nome parlante), che accanto a una didascalia che recita Il sapone Dirtoff mi sbianca si lava usando un moderno lavandino invece di una tinozza di legno (fig. 37).

fig. 37

Negli anni trenta, il topos iconografico del lavaggio del nero può ancora essere osservato in Olanda (fig. 40) – dove la stampa popolare proponeva illustrazioni del proverbio sull’etiope fin dal xix secolo – e, pur fuori da un contesto strettamente pubblicitario, in Italia all’interno della propaganda fascista, preposta a esaltare le conquiste imperiali che avrebbero portato all’istituzione dell’Africa Orientale Italiana (AOI). Qui il lavaggio rientrava in un sistema di applicazione dell’igiene e di razzializzazione del colonizzato che affondava le proprie radici non solo nella dottrina fascista, ma anche nel dibattito postunitario. Dagli ultimi decenni dell’Ottocento alla seconda guerra mondiale, si susseguirono nella penisola progetti amministrativi che diedero vita, di volta in volta, a programmi di igiene sessuale, igiene domestica, igiene sociale, igiene morale, igiene tropicale e coloniale, igiene materna e… igiene razziale. Come ha scritto Cristina Lombardi-Diop, l’igiene – anche in Italia, seppur con qualche decennio di ritardo rispetto a Inghilterra e Francia – «cessò di essere un semplice campo discorsivo per divenire una pratica istituzionale». E lo divenne ancor di più quando, in seguito al primo conflitto mondiale, il tenore di vita e l’alimentazione degli italiani peggiorarono drasticamente, e il rischio di epidemie aumentò rapidamente. Le questioni legate all’igiene personale divennero di dominio pubblico, e alcune opere divulgative capaci di coniugare parti pratico-descrittive con parti prescrittive in termini di comportamenti quotidiani – come Elementi di igiene (1864) e l’Enciclopedia igienica popolare (1870) di Paolo Mantegazza, medico, scienziato poliedrico e tra i fondatori dell’antropologia italiana – vennero ripubblicate tra gli anni dieci e gli anni venti del Novecento con grande successo. Proprio di Mantegazza si rimisero in circolo tanto la nomenclatura dell’igiene («igiene della cucina», «igiene della casa», «igiene del sangue», «igiene della pelle», «igiene della bellezza», «igiene del movimento», eccetera) quanto l’associazione tra mancanza di pulizia e mancanza di civiltà («io mi guardo intorno, e vedo i popoli operosi e morali, puliti, fragranti, di una nettezza immacolata; vedo il selvaggio scapigliato, pidocchioso e fetente; sento il tanfo uscir dalle schiere dei popoli che stanno nella retroguardia della civiltà»). Per la prima volta la civiltà di un popolo si poteva misurare, anche in Italia, dalla quantità di sapone che consumava: più se ne usava, più si evitava di stare «nella retroguardia della civiltà», appunto.

E se nell’Italia liberale questa «retroguardia della civiltà» poteva ancora essere rappresentata dalle popolazioni del sud della penisola (oggetto della lombrosiana teoria della «degenerazione razziale») o dalle popolazioni rurali, nell’Italia fascista essa veniva spostata fuori dai confini nazionali, grazie a una strategia discorsiva che includeva tutti gli abitanti della penisola tra i “bianchi” e che opponeva gli italiani ai non bianchi («negri» e «mulatti» soprattutto), in particolare ai non bianchi delle colonie. Cosa che di fatto permise al fascismo di sbiancare implicitamente il nero “interno” (il meridionale), includendolo in quanto italiano nel popolo fascista, e di propugnare lo sbiancamento civilizzatore del nero delle colonie secondo un processo di «educazione all’italianità mediante la cittadinanza imperiale». Questa strategia oppositiva nei confronti degli abitanti delle colonie conobbe diverse fasi. In particolare, al principio dell’avventura coloniale mussoliniana, l’Etiopia appariva come una terra da conquistare e popolare, e i suoi abitanti come persone da lavare sia fisicamente, per eliminarne l’odore e la sporcizia, sia metaforicamente, per civilizzarle attraverso l’igiene. Benché pensato per istruire più che per educare – come ebbe a scrivere Giuseppe Bottai nel 1939 – il sistema coloniale italiano doveva per esempio far sì che i bambini nativi imparassero in fretta le basi della civiltà italiana (e della sua missione civilizzatrice), per essere formati come propagandisti consapevoli all’interno delle loro famiglie. Tra le cose che un bambino era tenuto a conoscere, gli argomenti storici, come il Risorgimento, erano considerati – secondo Andrea Festa, il soprintendente delle scuole dell’Africa Orientale Italiana – meno importanti dell’igiene, un tema che aveva non a caso una grande visibilità nei libri scolastici. Non sorprende, quindi, che il target della campagna di igiene (civilizzatrice) fascista riguardasse prima di tutto i bambini, come ricorda il fumetto delle avventure di Peperino nell’Etiopia Italiana di Enrico De Seta, che mostra alcuni «sudici morelli» trasformati in piccoli balilla per mezzo di un bagno «civilizzatore» nell’immancabile tinozza di legno (fig. 39). Un messaggio, questo, che è altrettanto eloquente nella cartolina disegnata da Giovanni Bonora La doccia salutare (fig. 40), in cui alcuni giovani balilla lavano delicatamente due bambini etiopi all’interno di una tinozza.

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Fig. 38-41

Fino al 1936, comunque, lo sbiancamento della popolazione nativa africana poteva avvenire anche per mezzo di mescolanza, come iconograficamente evoca la cartolina di Enrico De Seta Civilizzazione. Nella cartolina, sotto lo sguardo di un soldato italiano, una donna nera mostra un neonato bianco a un altro uomo nero, ed esclama «forza Taitù, che cominciamo a civilizzarci: questo è venuto bianco!» (fig. 41). Dopo il maggio 1936, invece, la politica del regime, che fino a quel punto era stata abbastanza tollerante verso le unioni miste nelle colonie, conosce un rapido cambio di rotta. Lo stesso Mussolini, l’11 maggio 1936, invia un telegramma a Badoglio e Graziani intimando loro di fare qualcosa per impedire qualsiasi relazione tra italiani ed eritrei nell’Africa orientale italiana e «per parare sin dall’inizio i terribili et non lontani effetti del meticcismo», aggiungendo che «nessun italiano – militare aut civile – può restare più di sei mesi nel vicereame senza moglie». Una svolta rapida e perentoria che, coniugandosi con una profilassi sanitaria sempre più stringente, spiegherebbe l’immagine del lavaggio raffigurata dalla cartolina Brusca e striglia (1936), in cui uno stereotipico africano viene sfregato energicamente da un soldato che indossa una maschera antigas, probabilmente per proteggere se stesso dal rischio di un’infezione. E per sancire che nessun lavaggio può più, ormai, modificare classificazioni razziali e rapporti gerarchici e razzializzati tra colonizzatore e colonizzato. (fig. 38)

*Federico Faloppa è professore di storia della lingua italiana e di sociolinguistica all’Università di Reading. Da vent’anni la sua ricerca ruota intorno alla costruzione del “diverso” nelle lingue europee, alla rappresentazione mediatica delle minoranze, alla produzione e circolazione del discorso razzista e discriminante in Italia.

(Immagine in anteprima via Wikimedia Commons)

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