Sardegna, il nubifragio delle nostre coscienze
2 min letturaStanotte ho sognato di trovarmi, insieme all’umanità intera, sulla spiaggia della mia infanzia. Costa nordorientale, tutti fermi, vestiti, in piedi, a guardare l’orizzonte sul mare immenso. La mia spiaggia sarda libera in inverno, a tinte pastello, austera e fresca come una mano tesa che ci viene in aiuto. L’acqua argentata, la sabbia bianca che prosegue per chilometri senza che l’occhio incontri ostacoli urbani, la pineta alle nostre spalle. La spiaggia della mia infanzia è ancora là, così. Una spiaggia sarda libera in inverno, simbolo della libertà, anzi no, della liberazione. Più che purezza: purificazione. Dai furori dell’estate consumista e speculatrice, dalle folle incremate e dai bikini luccicanti, dallo svago inconsapevole, dall’innumerabile mole di giorni passati a sopravvivere ai nostri vuoti interiori.
A un tratto il mare si agita, si gonfia, il profumo di salsedine e alghe si fa più intenso, la risacca sfuma in un rombo calmo che accompagna enormi movimenti dell’acqua. Un’onda anomala di centocinquanta metri si alza a largo, si muove verso la riva come un essere vivo. Spaventosa, a rallentatore. Si fa altissima sul nostro cielo fino a occuparlo tutto, prende in un attimo il nostro tutto, i nostri pensieri, i nostri futuri in un boccone, ma sempre là, in piedi, mastodontica e quasi immobile, a farsi ammirare in tutta la sua potenza devastatrice.
Non ho sentito più voci o presenze intorno a me, ognuno era solo nella sua ultima manciata di vita. In una frazione di secondo mi dico non scappo, non c’è tempo, sulla spiaggia è impossibile correre con le scarpe, pochi secondi e quel gigante marino si abbatte su questi nostri corpicini insulsi. Ho pensato con lucida rassegnazione tutto quello che conosco sta per essere ingoiato, raso al suolo, finito, cancellato, e con esso io stessa e tutti gli altri. Ecco, è stato in quell’attimo. La risposta mi è arrivata dalle viscere: raccoglimento e umiltà. Ho accettato la grandezza, ho ammesso la mia pochezza. Mi sono abbassata, raccolta sulle gambe, accovacciata sulla riva della mia coscienza coprendomi – solo per cerimoniosa presenza scenica – la testa con le braccia. Pronta a diventare bolla io stessa, bollicina di spuma, già vedendo la scena apocalittica nella mia immaginazione.
Sono rimasta intatta. Anche altri intorno a me ce l’hanno fatta. Lo tsunami mediterraneo è arrivato e ha preso altre direzioni, riconoscendo le nostre bolle di rispetto e sradicando chi era rimasto in piedi superbo, a sfidare ogni legge della fisica.
Potrei scrivere ancora dei morti nell’isola, dei bambini annegati, dei dispersi, dei moltissimi animali che non hanno potuto salvarsi. Potrei scrivere che non sono vivi quelli che hanno perso tutto, o delle attività già in ginocchio per la crisi ora sommerse dal nubifragio, o della prevenzione, dell’urbanistica. Potrei scrivere ancora di politica e appalti, di interessi, di miopia criminale.
Invece voglio solo dire che siamo tutti responsabili. Lo siamo da quando abbiamo scelto di delegare e non controllare, nel migliore dei casi alzare le spalle e stare a guardare mentre la terra a cui apparteniamo - non viceversa - ha cominciato a essere sistematicamente stuprata.
Cominciamo a stare zitti, chiedere scusa, e ripensare tutto daccapo a partire dalle nostre vite.