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La sanità italiana non è per donne

23 Novembre 2023 10 min lettura

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La sanità italiana non è per donne

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Abusi fisici e verbali, trattamenti involontari, violazioni della riservatezza, negazione di autonomia decisionale, mancanza di consenso libero e informato. Sono tante le forme di discriminazione di genere che ancora avvengono in ambito sanitario: il problema colpisce sia le professioniste che gli utenti dei servizi di assistenza, ma spesso ancora non viene riconosciuto. Il risultato è un mancato rispetto dei diritti e una negazione dei servizi, che invece dovrebbero essere garantiti universalmente. Nel 2017 le Nazioni Unite e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) hanno pubblicato una dichiarazione comune per porre fine alla discriminazione di genere in ambito sanitario. “Spesso le leggi nazionali, le politiche e le pratiche possono anche favorire e perpetuare la discriminazione in ambito sanitario, che vietano o scoraggiano le persone dal cercare l’ampia gamma di servizi di assistenza sanitaria di cui potrebbe avere bisogno”, si legge nella dichiarazione. “Alcune leggi sono anche in contrasto con le basi della salute pubblica e gli standard dei diritti umani”. E l’Italia, purtroppo, non è da meno.

“Le donne sono ancora discriminate nel nostro Sistema sanitario nazionale”, afferma Giulia Sudano, presidente dell’associazione Period Think Tank, che lo scorso 6 ottobre ha organizzato a Bari il convegno “Datipercontare: statistiche e indicatori di genere per un PNRR equo”, dove un tavolo di lavoro specifico è stato dedicato a donne, sanità e Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza). Le donne rappresentano ancora la maggioranza tra chi si occupa del supporto a persone anziane e persone non autosufficienti: una ricerca di Federanziani mostra che il 71% dei caregiver familiari in Italia è composto da donne. E questo ha un grande impatto sulle loro condizioni di vita e lavoro. “Il PNRR rappresenta un’opportunità per eliminare le discriminazioni e favorire la parità di genere anche nell’ambito della salute”, spiega Sudano. “La parità di genere è una delle tre priorità trasversali da perseguire in tutte le missioni del Piano: ecco perché è urgente poter monitorare tempestivamente l’attuazione delle misure, anche quelle sanitarie, da una prospettiva di genere. Il rischio altrimenti è che le risorse impiegate non solo non contribuiscano a chiudere i divari di genere, ma potrebbero addirittura acuirli”. 

Nel concreto, il PNRR punta a un nuovo modello di medicina territoriale “diffusa”: l’8,2% delle risorse è destinato al potenziamento del sistema sanitario, con 7 miliardi di euro investiti per il rafforzamento dell’assistenza sanitaria territoriale e delle reti di prossimità. Di questi, due miliardi di euro vanno alle case della comunità, luoghi di prossimità a cui le persone possono accedere per l’assistenza primaria. Un miliardo di euro finanzia i nuovi ospedali di comunità, piccole strutture (20 posti letto ogni 100mila abitanti) adibite a un’accoglienza intermedia tra il ricovero a casa e quello in ospedale. I restanti 4 miliardi sono rivolti all’investimento sulla telemedicina e alla cura domiciliare, in modo da rendere la casa del paziente un vero e proprio luogo di cura, e alla creazione delle centrali operative territoriali. “Il modello di sanità ‘diffusa’ stabilita dal PNRR aiuterà a superare l’attuale gap di genere senza obiettivi specifici da raggiungere e misurare?”, si chiede Giulia Sudano. “Avere una medicina territoriale pubblica e di qualità dovrebbe essere una delle esigenze prioritarie del paese per affrontare numerosi divari sociali, territoriali e di genere, visto che ad esempio le donne anziane, il cui numero aumenta sempre di più, stanno peggio degli uomini. Il 24,7% ha gravi limitazioni nelle attività quotidiane e il 48,1% ha tre o più malattie croniche, contro il 18% e il 33,7% degli uomini”.

Prima del PNRR, un momento di passaggio fondamentale che ha segnato una maggiore attenzione alla parità di genere in sanità è stato l’approvazione della legge 3/2018, che all’articolo 3 sancisce l’applicazione e la diffusione della “medicina di genere” nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Il concetto è stato introdotto dall’OMS per definire lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona. E questo perché un crescente numero di studi indica l’esistenza di differenze rilevanti tra uomini e donne nell’insorgenza, nella progressione e nelle manifestazioni delle malattie. 

Con la legge 3/2018 l’Italia è stata il primo paese in Europa a formalizzare l’inserimento del concetto di “genere” in medicina, indispensabile a garantire ad ogni persona la cura migliore, rispettando le differenze e arrivando a una effettiva “personalizzazione delle terapie”. Il 13 giugno 2019 il Ministero della Salute ha approvato il Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere sul territorio nazionale, che riporta gli obiettivi strategici, gli attori coinvolti e le azioni previste per una reale applicazione di un approccio di genere in sanità, a cui ha fatto seguito la nascita di un Osservatorio nazionale sulla medicina di genere.

Sebbene l’interesse per la medicina di genere si stia diffondendo, i farmaci attualmente in commercio vengono spesso concepiti e testati solo su corpi maschili. Le donne sono cronicamente sottorappresentate negli studi clinici, anche quando si studiano malattie la cui prevalenza nelle donne è simile, o addirittura superiore, a quella negli uomini. Eppure, uomini e donne rispondono diversamente ai farmaci, perché questi vengono assorbiti ed eliminati in modo differente, o perché ci sono differenze nella sensibilità e distribuzione dei bersagli su cui agiscono queste sostanze. Alcuni studi mostrano che le donne hanno in media concentrazioni di farmaco nel sangue più elevate e ciò comporta un maggior rischio di reazioni avverse, con conseguente maggiore probabilità di essere ricoverate in ospedale.

Non solo: tra le ultime questioni a generare dibattito c’è stato il nuovo aumento dell’Iva per gli assorbenti e i prodotti per l’igiene intima. Dal 2024, infatti, la cosiddetta tampon tax in Italia raddoppierà, passando dal 5 al 10%. Si torna indietro, quindi, dopo i passi avanti dello scorso anno.

Le discriminazioni di genere in ambito ostetrico-ginecologico

Tra le discriminazioni di genere più difficili da sradicare ci sono quelle inerenti all’ambito ostetrico e ginecologico, settori dove invece il corpo della donna dovrebbe essere messo al centro. In Italia c’è un problema di accesso alle interruzioni volontarie di gravidanza (ivg), nonostante la legge 194 abbia legalizzato l’aborto già nel 1978. Mentre in Francia il presidente Macron promette di inserire il diritto all’aborto nella Costituzione, nel nostro paese il tasso di obiezione di coscienza è ancora altissimo: la maggior parte dei ginecologi (63,4%), quasi la metà degli anestesisti (40,5%) e quasi un terzo del personale non medico (32,8%) sono obiettori, secondo l’ultimo aggiornamento dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) relativo al 2021. Numeri che comunque variano molto da regione a regione: questo sistema costringe spesso le donne a cercare altrove un medico disposto a portare a termine l’interruzione di gravidanza, generando uno stress ancora superiore, oltre a un sovraccarico di lavoro al personale sanitario non obiettore. Nel 2021 in Italia ci sono stati 63.653 aborti, pari a un tasso di abortività di 5,3 ivg ogni 1.000 donne tra 15 e 49 anni, uno tra i più bassi a livello globale. Per questo lo scorso 26 ottobre è stata pubblicata la guida IVG senza ma, un manuale che spiega “come reagire ai disservizi, all’abbandono istituzionale e ai soprusi che viviamo da anni”. 

“La guida, pensata per far valere i diritti delle donne e delle persone incinte, è frutto del lavoro collettivo di attiviste, giuriste, ginecologhe e antropologhe”, spiega Giulia Sudano. “Rappresenta uno strumento utile per chi abortisce volontariamente e per chi supporta questa scelta di fronte a una libertà costantemente ostacolata dal nostro sistema sanitario, nonostante la legge 194/78 tuteli l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza. Per questo motivo, abbiamo lanciato anche la richiesta al Ministero della Salute di recepire le linee guida 2022 dell’Organizzazione mondiale della sanità in materia di aborto, le cui raccomandazioni abbracciano la pratica clinica, l’erogazione dei servizi sanitari e gli interventi legali e politici per sostenere un’assistenza abortiva di qualità”.

Per le donne che invece scelgono di diventare madri, il rischio è di subire un altro tipo di violenza che periodicamente trova spazio nell’agenda mediatica: la violenza ostetrica. Il termine fa riferimento agli abusi che avvengono nell’ambito delle cure ostetrico-ginecologiche: abusi che non vengono agiti solo dalle ostetriche, ma anche da ginecologi, infermieri o da altri professionisti sanitari. Nella violenza ostetrica rientrano tutte quelle pratiche di intervento non motivate da una reale esigenza clinica: atteggiamenti denigratori, pericolose manovre sulla pancia, attesa per ore in reparto senza assistenza, impossibilità di avere un’adeguata terapia per il dolore, cesareo senza consenso, interventi chirurgici non necessari. 

“La violenza ostetrica si basa su due opposti: da un lato l’ipermedicalizzazione e l’interventismo eccessivo, dall’altro la carenza assistenziale, con donne lasciate sole, che hanno chiesto aiuto e non sono state considerate”, ha raccontato a Valigia Blu Alessandra Battisti dell’Osservatorio italiano sulla violenza ostetrica. “Il filo conduttore è che la donna non viene ascoltata e non viene creduta, se lamenta dolori forti viene denigrata o considerata come capricciosa. Tra le persone che ci contattano, il racconto più ricorrente è quello di essersi sentite azzerate durante il parto”.

A causa della difficoltà di reperire dati sulla violenza ostetrica, l’indagine Doxa-OVOItalia, condotta nel 2017 dall’Osservatorio su un campione rappresentativo di circa cinque milioni di donne, rimane la più esaustiva realizzata in Italia sul tema, anche se l’Aogoi (Associazione degli ostetrici ginecologi ospedalieri italiani) ha contestato la validità della ricerca. I dati raccolti mostrano che dal 2003 al 2017 oltre un milione di donne nel nostro paese ha subito violenza ostetrica. Anche il numero di cesarei in Italia è ancora troppo alto: l’ultimo rapporto sull’evento nascita relativo all’anno 2022 mostra che il 31% dei bambini è nato con taglio cesareo, mentre tra i paesi europei il tasso medio è inferiore al 25%. C’è una forte variabilità tra regioni: si va dal 18% della Toscana al 49% della Campania, anche se in alcuni ospedali il tasso arriva anche all’80-90%.

Infine, vi è la questione del mancato riconoscimento delle cosiddette “malattie invisibili”, tra cui la fibromialgia, l’endometriosi, la vulvodinia, il vaginismo e la neuropatia del pudendo. Malattie che colpiscono il pavimento pelvico soprattutto delle donne, poco studiate e sconosciute da molti professionisti, difficili da diagnosticare e che erroneamente sono state considerate per anni di origine psicosomatica. Molte non sono riconosciute dal SSN e non sono quindi comprese nei Livelli essenziali di assistenza (LEA): questo fa sì che non solo le pazienti non abbiano diritto a esenzioni per visite, esami e terapie, ma che siano anche invisibili in ambito sociale e lavorativo, non potendo nemmeno presentare certificati in caso di assenza dal lavoro legata alla malattia. Eppure, le donne che soffrono di queste malattie sono spesso colpite da dolore cronico e invalidante, che impedisce di vivere come prima.

“La salute intima della donna ancora non viene considerata tra le priorità”, ha spiegato Gaia Salizzoni, fondatrice di Hale community, che nasce come punto di riferimento digitale per le persone che soffrono di disfunzioni del pavimento pelvico. “Io ci ho messo otto anni per diagnosticare il mio vaginismo, ci è voluto del tempo prima che qualcuno arrivasse a una diagnosi corretta. Vogliamo un mondo dove non è normale stare male, dove chi ha disfunzioni possa parlarne senza tabù e trovare rapidamente un percorso terapeutico”.

Le discriminazioni all’interno del personale sanitario

Le discriminazioni di genere in sanità avvengono anche nei confronti delle professioniste che lavorano all’interno dei servizi di assistenza: si va dal gap salariale alla mancanza di occupazione, fino all'incapacità di partecipare ai processi decisionali e di leadership. Quando si parla dell’ambito sanitario, le donne sono numericamente in maggioranza: secondo gli ultimi dati del Ministero della sanità, rappresentano il 69% del personale del Servizio sanitario nazionale, contro il 31% degli uomini. Rispetto alle professioni sanitarie in senso stretto, il 59,2% è rappresentato da infermiere, il 22,9% da dottoresse e odontoiatre e il 17,9% da altre figure professionali. 

Nonostante questo, le donne raramente rivestono ruoli apicali nel SSN e nella definizione delle politiche sanitarie. In più continuano a essere pagate di meno rispetto agli uomini: l’Organizzazione nazionale del lavoro (ILO), in collaborazione con l’OMS, ha pubblicato il primo rapporto mondiale sul gender gap tra uomini e donne in ambito sanitario. Il documento ha incluso 54 paesi, che rappresentano circa il 40% dei dipendenti del settore in tutto il mondo: in media le donne guadagnano il 19% in meno degli uomini, con differenze più o meno marcate a seconda del paese. L’Italia, pur essendo in linea con alcuni Stati europei, mostra uno dei gap più ampi nelle posizioni apicali: nelle due fasce di reddito più alte, le donne guadagnano rispettivamente il 63% e il 69% in meno rispetto agli uomini. 

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Altro tema è quello delle molestie e delle violenze sul lavoro. Più degli uomini, le donne sono bersaglio di aggressioni verbali e fisiche da parte dei pazienti, in particolare nelle postazioni di guardia medica e nei pronto soccorso. I dati dell’Inail mostrano che nel triennio 2019-2021 sono stati denunciati 4.800 infortuni legati a episodi di violenza ai danni degli operatori sanitari e socio-sanitari. Il 3% di tutti gli infortuni femminili avvenuti sul lavoro riguarda aggressioni o violenze, e tra le aggressioni subite, più del 60% delle vittime svolge funzioni sanitarie o assistenziali. Nell’ambito della sanità, quella degli infermieri è la categoria più colpita e il 70% delle aggressioni riguarda donne. Per contrastare questo fenomeno, il Parlamento ha approvato la legge 113/2020 che dispone misure di sicurezza per le professioni sanitarie e socio-sanitarie. “È importante che sui luoghi di lavoro le istituzioni richiedano e applichino a loro stesse un impegno periodico e strutturato a rilevare eventuali molestie e violenze subite”, conclude Sudano, “per far emergere problematiche ancora troppo invisibilizzate nelle loro diverse forme, che hanno ancora una forte componente di genere”.

*Questo articolo è stato prodotto grazie alla partnership con Period think tank nell'ambito del progetto #datipercontare

Immagine in anteprima via ILO

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