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La salute mentale nel mondo accademico: un problema ancora troppo sottovalutato

5 Settembre 2023 11 min lettura

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La salute mentale nel mondo accademico: un problema ancora troppo sottovalutato

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di Daniele Rigamonti

Soprattutto dopo la pandemia si è iniziato a parlare un po’ di più di salute mentale, anche se ancora si fatica ad associare questo aspetto alla sicurezza sul lavoro. In alcuni settori, infatti, ansia, stress e depressione sono ampiamente diffusi: uno di questi è quello accademico. Uno studio apparso su Nature Biotechnology nel 2018 aveva rivelato che dottorandi e i ricercatori sperimentano ansia e depressione con una frequenza sei volte superiore rispetto alla popolazione generale. 

Nel 2019 la rivista Nature ha pubblicato una ricerca, condotta su un campione di circa 6.300 dottorandi e post-doc in tutta Europa, che rivela come il 36% di loro abbia chiesto aiuto psicologico dopo aver iniziato il loro percorso. Ciò che più influisce a rendere poco sostenibile il lavoro in università è, secondo il 40% degli intervistati, l’impossibilità di mantenere un sano equilibrio tra vita privata e vita lavorativa. Per capire quanto questo dato sia rilevante occorre metterlo in prospettiva con quelli che riguardano le altre professioni. Un'indagine dell’Eurofund ha chiesto a operai specializzati e non specializzati e impiegati di tutta Europa se i loro orari di lavoro si conciliano efficacemente con gli impegni familiari e sociali. Il 18,4% di loro si è dichiarato insoddisfatto della propria work life balance rispondendo con “per niente bene” e “non molto bene”: una percentuale considerevole, anche se inferiore a quanto sostenuto dai lavoratori del mondo accademico consultati per la ricerca pubblicata da Nature

Sempre secondo l’articolo di Nature, il 76% degli studiosi intervistati ha affermato di essere operativo per più di 40 ore settimanali, tenendo conto solamente del tempo passato a fare ricerca. Non bisogna dimenticare, infatti, che nei paesi in cui la borsa è insufficiente a garantire l'indipendenza economica dei dottorandi, in molti sono costretti a fare un secondo lavoro per tirare avanti. 

Eppure la questione della salute mentale nel mondo accademico continua a essere sottovalutata. Tutti questi studi sono stati realizzati prima del 2020; questi dati potrebbero quindi essere peggiorati, visto che la pandemia e il lockdown hanno portato a un generale peggioramento della salute mentale soprattutto tra i giovani, e dottorandi e ricercatori erano già soggetti a rischio. 

In Italia, secondo un sondaggio dell’ADI, l’Associazione Dottorati e dottorandi in Italia, pubblicato lo scorso 29 marzo, la situazione appare peggiore. Nelle due settimane prima del sondaggio, il 75% ha detto di essersi sentito depresso più di una volta, l’8% ha detto di esserlo stato sempre. Un decimo degli intervistati dice di sentirsi sempre isolato, mentre un quarto dice di provare spesso abbandono e solitudine. Il 42% sostiene di essere stato frequentemente nervoso e stressato. Si tratta di percentuali talmente alte da diventare significative se si pensa che, secondo il rapporto Istat del 2020 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, meno del 15% degli italiani dice di soffrire di questi disturbi. Anche considerato il fattore età la disparità è evidente: il 26% dei giovani dice di provare stress, una percentuale molto più bassa rispetto a chi lavora in ambito accademico. Chiaramente questa incidenza non può essere dovuta solo a cause individuali o fattori che poco hanno a che fare con l’ambiente lavorativo.

«Una diffusione così elevata di ansia e stress è dovuta principalmente all’enorme guaio delle nostre università: l’eterno precariato», dice a Valigia Blu Rosa Fioravante, segretaria nazionale dell’ADI, che, insieme agli altri soci, si batte da anni per ottenere maggior riconoscimento e migliori condizioni per chi fa ricerca accademica in Italia. «Per diventare professore associato in Italia servono almeno tre anni di dottorato, altri tre o quattro anni di assegni di ricerca, poi un contratto ricercatore a tempo determinato di tipo A della durata di tre anni, che però può essere ripetutamente rinnovato. Un'attesa più che decennale, accompagnata, soprattutto in Italia, da stress e competizione sfrenata per accaparrarsi le poche risorse disponibili». I dati OCSE del 2019 mostrano come l’Italia sia una delle economie che spende meno in istruzione e ricerca, e proprio la cifra erogata nell’istruzione terziaria, che comprende anche i fondi alla ricerca, è quella che segna il distacco maggiore rispetto agli altri paesi: la nostra spesa in questo settore è pari al 74% della media OCSE.  «C’è una correlazione tra la nostra situazione economica, meno favorevole rispetto ad altri paesi e la diffusione di problemi di salute mentale superiori alla media europea - continua Rosa Fioravante - I dati del nostro report, per la verità poco sorprendenti ai nostri occhi, dimostrano come a pagare il prezzo più alto siano le categorie già più svantaggiate: i dottorandi provenienti da una famiglia di ceto medio-basso e le donne».

Il divario di genere è, ad esempio, molto evidente se si analizza la totalità delle risposte del report ADI: le donne si dichiarano in media meno ottimiste e dicono di aver passato più frequentemente momenti difficili, mentre la maggior parte di coloro che hanno affermato di non aver avuto problemi è composta da uomini (con uno scarto del 10%). Un dato che dimostra un effettivo malessere percepito, ma che può nascondere la difficoltà di molti uomini a parlare della propria salute mentale e manifestare i loro problemi. C’è anche una piccola differenza tra gli indirizzi di studio, con gli addetti alle discipline umanistiche che si dichiarano più sotto pressione rispetto agli studiosi di materie scientifiche (30% contro il 26). 

«Ripensando alla mia esperienza, posso dire con certezza che è comunissimo durante il dottorato vivere momenti di crisi - dice a Valigia Blu Nicholas, dottorato dell’Università di Torino - tutto dipende molto dalle persone che ti circondano. Ci sono docenti molto disponibili, ma non è raro svolgere lavori senza essere retribuiti e sopportare altre forme di sfruttamento come scrivere articoli che poi firmerà qualcun altro». Una questione ben nota anche all’ADI: «In Italia abbiamo un grande problema di sfruttamento - continua Rosa Fioravante - nelle nostre università viene spesso richiesto del lavoro non retribuito. Un esempio sono le lezioni in classe, che al dottorando non vengono in genere mai pagate».

«A parte casi del genere, che sono i più gravi - dice Nicholas - molto dipende anche da quanto tempo ti dedicano i docenti, perché è comune anche essere lasciati soli a svolgere il proprio lavoro, cosa che chiaramente influisce sullo stress. Solitudine e senso di inadeguatezza aumentano anche per la necessità di pubblicare: conta molto di più la quantità di articoli che si riesce a piazzare sulle riviste specialistiche piuttosto che la qualità. Durante il primo anno si è praticamente neolaureati: gestire il progetto di ricerca e le pubblicazioni da soli è molto sfibrante». 

Come funziona il sistema di valutazione delle pubblicazioni? Quali sono le sue criticità?

La pressione costante a pubblicare sempre più saggi accademici è stata oggetto anche di articoli e analisi che contestano lo scarso apporto fornito alla ricerca da un sistema fondato sulla quantità. Anche in Italia, per valutare l’attività di uno studioso ci si basa sul numero di pubblicazioni e di citazioni ricevute: il Ministero pubblica ogni anno dei valori soglia per ottenere l’abilitazione scientifica nazionale, necessaria per diventare docenti universitari. Il metodo dell’H-Index, che assegna un punteggio ottenuto proprio incrociando quantità di articoli e citazioni, è però usato in tutto il mondo, ed è anche stato molto criticato, ad esempio su University World News, una testata indipendente sull’istruzione superiore che vanta contributi da accademici di tutto il mondo, perché favorirebbe un proliferare di testi impossibili da valutare con un'adeguata peer review. Secondo University World News, una tendenza crescente dei PhD “è quella di rinunciare alla tradizionale tesi di dottorato e sostituirla con l'obbligo per i dottorandi di pubblicare diversi articoli su riviste accademiche, spostando di fatto la responsabilità della valutazione della ricerca di dottorato dai comitati universitari ai redattori di riviste e revisori”. Ciò avviene anche perché è considerato più conveniente alzare il proprio H-Index piuttosto che produrre una tesi corposa e innovativa. Viste quindi tutte queste richieste di pubblicazione, il lavoro di verifica delle pubblicazioni accademiche è sempre più difficile, in più (come fanno notare anche Altbach e De Wit) proliferano anche riviste che, abbassando gli standard, garantiscono maggiori chance di essere pubblicati a scapito della qualità. Come spiega un articolo della National Library of Medicine negli Stati Uniti, inoltre, se “per un ricercatore affermato la strategia di pubblicare il maggior numero possibile di articoli non ha prodotto quote inferiori di pubblicazioni molto citate, un tale schema non è sempre osservato per gli studiosi più giovani”. Il che significa chiaramente che sono i giovani ricercatori a subire le conseguenze più sfavorevoli di questo sistema.

Accanto al difficile rapporto con i docenti e la pressione costante, problemi che vivono anche gli altri ricercatori europei, ci sono le lacune del sistema universitario italiano ad aggravare di molto la situazione. L’Italia è l’unico paese europeo che non considera il dottorato un percorso di formazione-lavoro, ma un percorso studentesco, e questa è una differenza determinante. La borsa che viene assegnata ai vincitori dei concorsi non ha quasi niente di paragonabile a un vero contratto di lavoro: non sono garantite ferie, la tredicesima, e raramente dalle università vengono offerte cifre superiori al minimo legale, 1.200 euro, un compenso inadeguato al costo della vita di molte città italiane. Come affermano anche Nicholas e Rosa Fioravante, se le borse non aumenteranno, fare ricerca diventerà sempre di più un’attività riservata solo a chi se lo può permettere. 

«Ai miei colleghi che hanno consegnato la tesi non sembra vero poter avere il weekend libero - dice a Valigia Blu Matteo, che sta finendo il dottorato all’Università di Siena - quando ci sei dentro non te ne accorgi, ma inizi a pensare che un giorno non impiegato a scrivere è un giorno sprecato. Questo perché non abbiamo un numero stabilito di giorni di ferie e non possiamo nemmeno metterci in malattia, perché per lo Stato non siamo riconosciuti come lavoratori. Per qualcuno questo può essere una benedizione, ma per altri invece diventa fonte di ansia e pressione».

Oltre alla scarsità di fondi destinati alle borse e alla carenza di tutele c’è un altro fattore che contribuisce ad aumentare stress e senso di precarietà: la carenza di prospettive e di sbocchi lavorativi dopo gli anni di dottorato. La carriera accademica, come si è già detto, prevede numerosi anni di precariato nel nostro paese, ma anche durante questi anni di incertezza le condizioni economiche e i diritti di chi lavora in università non migliorano. Con la riforma del Pre-ruolo, già approvata dal Parlamento e prevista tra gli interventi necessari del PNRR, i ricercatori post-doc (quindi coloro che hanno concluso il dottorato e cercano di ottenere gli assegni di ricerca) hanno sperato in condizioni migliori e in un contratto vero e proprio, ma la Ministra Bernini, appena insediata, ha deciso di rimandare la sua applicazione inserendola nel decreto Milleproroghe. «Nei mesi scorsi abbiamo protestato in tutta Italia contro questo slittamento - dice Fioravante - la legge avrebbe finalmente alzato i compensi ad assegnisti di ricerca e ricercatori, e garantito a queste figure tutele basilari oggi inesistenti: maternità, malattia, ferie, sussidi di disoccupazione e tredicesima. Niente, evidentemente dovremo aspettare ancora». Quindi i diritti per chi riesce a proseguire la propria carriera accademica sono momentaneamente al palo, ma poi ci sono tutti gli altri: quelli che non riescono a continuare in università, cioè la maggior parte dei dottori. 

Secondo i dati raccolti da ADI nella loro IX Indagine, basandosi sui bilanci del MIUR emerge che l’80% dei dottorandi in Italia viene espulso dal mondo accademico dopo i primi anni di ricerca, questo non solo spinge molti ad andare all’estero, ma contribuisce a creare un contesto estremamente competitivo che sprona a dare tutto per rientrare nella piccolissima percentuale di chi ce la fa. Secondo quanto diffuso dal Ministero, gli assegni di ricerca disponibili sono 15mila per un numero di dottori che ogni anno si attesta intorno ai 30mila. In Italia si può essere assegnisti per un massimo di 6 anni, quindi nei 15000 assegni sono conteggiati anche i ricercatori che hanno già ottenuto assegni negli anni precedenti, non solo i neo-dottori. Contando che un altro 80% (sempre secondo i dati raccolti dalla IX Indagine) di coloro che sono riusciti a conseguire anche il livello successivo, il post-doc, non trova posto nei nostri atenei, non stupisce che per chi vuole dedicare la vita alla carriera accademica aumenti la pressione e lo smarrimento. È difficile trovare dati certi sulle percentuali dei dottorati o post-doc che restano in accademia negli altri Paesi; in Belgio, ad esempio, secondo i dati raccolti dal portale governativo delle Fiandre, il 30% dei dottorati passa allo step successivo, mentre negli Stati Uniti, come dimostrato da uno studio (Andalib et al, 2018), il 17% di tutti i post-doc ottiene una cattedra di ruolo nel giro di dieci anni, anche se i sistemi di istruzione terziaria sono difficilmente comparabili. Anche al di fuori del mondo universitario, non sempre aver ottenuto un grado d’istruzione superiore alla laurea magistrale comporta un maggior riconoscimento nel mondo del lavoro: in molti concorsi per accedere a posizione nella Pubblica Amministrazione, infatti, non vengono riconosciuti punti in più per chi ha proseguito gli studi. Per questo motivo a soffrire di isolamento, ansia e depressione sono anche coloro che si affacciano al mondo del lavoro dopo il periodo in università.

«Per me i tre anni di dottorato sono stati bellissimi perché ho lavorato con un docente molto presente e un team molto collaborativo - dice Davide, dottorato all’Università di Trieste - dopo questa esperienza però mi sono sentito un po’ abbandonato a me stesso. Chi finisce il dottorato di solito ha già quasi trent’anni e, soprattutto in ambito umanistico, ha pochi sbocchi lavorativi: basti pensare che nelle graduatorie per accedere ai posti vacanti nella pubblica istruzione vengono riconosciuti solo 12 punti in più a chi ha le nostre qualifiche, ma il dottorato non dispensa da altri percorsi formativi che spesso sono a pagamento. Il mio desiderio era rimanere nell’ambiente accademico, anche se sapevo che le probabilità di avere un futuro in università sarebbero state molto basse, così per qualche anno mi sono dedicato a pubblicazioni e progetti, spesso non retribuiti. Quella del ricercatore a tempo pieno non è una vita sostenibile, io ho potuto farlo per qualche anno perchè provengo da un contesto famigliare abbastanza agiato. Tutto questo avviene principalmente perché il dottorato non è più il primo step di accesso al mondo accademico, e ormai essere molto bravi non è sufficiente».

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«Rimanere nell’università italiana comporta il rischio di restare precari per molti anni - dice Fioravante - molti arrivano a trentacinque anni dopo aver girato per lavoro diverse città nel corso della vita e non aver creato delle condizioni favorevoli per crearsi una famiglia e avere la stabilità economica».

Per forza di cose l’aspirazione a essere migliori fa parte da sempre del mondo universitario, che deve avere giustamente criteri selettivi molto stringenti; quando però le risorse e posti disponibili sono così pochi, la competizione rischia di essere deleteria per il benessere psicologico sia di chi alla fine riesce a restare nell’accademia, sia di tutti gli altri. E a risentire dello stress in cui lavorano i nostri ricercatori è anche la qualità del loro lavoro. Siamo sicuri che a impedire la fuga costante di competenze dal nostro paese basti qualche soldo e i diritti minimi del lavoratore? Forse una riflessione su come garantire il benessere, in senso lato, a chi fa progredire aziende e società prima o poi dovrà essere fatta. Di questo passo, chissà quando. 

Immagine in anteprima via Repubblica.it

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