Lavoro Post

Il mercato del lavoro in Italia funziona male e non è colpa del reddito di cittadinanza

6 Giugno 2022 13 min lettura

author:

Il mercato del lavoro in Italia funziona male e non è colpa del reddito di cittadinanza

Iscriviti alla nostra Newsletter

13 min lettura

Negli ultimi giorni, anche a causa di un incrocio di circostanze - la comunicazione dei nuovi dati sull’occupazione, sull’inflazione e sull’evasione fiscale; le difficoltà registrate in più parti d’Italia nell’assunzione di lavoratori stagionali, in particolare nel comparto del turismo e della ristorazione; le conseguenze economiche della guerra in Ucraina, a partire dalla maggiore difficoltà del reperimento delle materie prime - si sta ritornando (finalmente!) a parlare di lavoro e di salari anche sui media generalisti e all’interno del dibattito politico nazionale e locale.

Spesso la discussione su questi argomenti è caratterizzata dall’irrigidimento delle parti su posizioni parziali (inteso sia come ‘di parte’, sia basate su una quantità limitata di informazioni). Ho cercato, attraverso questa analisi:

  1. di spiegare per quale motivo introdurre una forma di salario minimo obbligatorio è urgente e auspicabile;
  2. di mostrare quali sono (e perché lo sono) gli argomenti pregiudizievoli che sfavoriscono il confronto tra le parti sociali, a mio avviso indispensabile per attuare questa misura;
  3. di dare evidenza anche alle argomentazioni più critiche sul tema del salario minimo, che in alcuni casi hanno fondamento ma che altrettanto spesso sono utilizzate come alibi per non intervenire sui temi del mercato del lavoro.

Essendo un tema assai complicato, mi scuso in anticipo se avrò omesso dati significativi e spero, con il vostro aiuto, di poter integrare il post, di correggere le mie eventuali posizioni di pregiudizio, e (se necessario) di poter fare ulteriori approfondimenti; quindi vi ringrazio in anticipo per la conversazione che nascerà a partire da questo spunto.

Lo scenario e le dichiarazioni degli ultimi giorni

1. Il dato tendenziale sull’aumento dei salari nell’area OCSE tra il 1990 e il 2020 indica che la crescita in Italia si attesta a un misero +3,2% in un intervallo temporale di 30 anni. Per fare una comparazione può essere utile considerare i dati di altri paesi a noi in qualche modo assimilabili: Spagna +9,4%, Germania +34,5%, Francia +35,5%, Svizzera +28,7%, Stati Uniti +41,3%, Regno Unito: +46,7%.

2. Il tasso medio annuo di crescita della produttività del lavoro in Italia nel periodo 2014-2018 è stato dello 0.3% (dati Istat). Nello stesso intervallo temporale l’aumento della produttività del lavoro in Europa è stato dell’1.4%. L’indice di produttività del capitale nel nostro paese è cresciuto in misura superiore (+1.3%). Nel 2018, in particolare, la produttività del lavoro in Italia è calata dello 0,3%, a fronte di una crescita delle ore lavorate (1,3%).

3. I lavoratori precari in Italia sono 3,16 milioni (dati Istat). È il dato più alto da quando esistono le serie storiche di calcolo di questo indicatore (cioè dal 1977).

4. Nel 2021 quasi due milioni di persone si sono dimesse volontariamente dal proprio lavoro in Italia. Il dato è cresciuto del 33% rispetto all’anno precedente (dato del Ministero del Lavoro). Circa il 40% di queste persone ha intrapreso un nuovo percorso occupazionale già entro i sette giorni successivi, con incidenza maggiore di questa fattispecie tra gli uomini e le persone ad alta scolarizzazione. Circa il 50% di chi ha avuto la possibilità di iniziare un nuovo lavoro ha però cambiato il proprio settore professionale (dati Lavoce.info). Sempre nel 2021, negli Stati Uniti, 4,3 milioni di persone hanno optato per le dimissioni volontarie (a fronte di una popolazione di oltre cinque volte superiore rispetto a quella italiana).

Leggi anche >> Le “Grandi Dimissioni” contro la cultura tossica del lavoro che lacera l’esistenza e deteriora la salute di milioni di persone

5. "Nell’Unione Europea, in 21 dei 27 Stati membri è stato già introdotto il salario minimo, ma l’Italia non ha ancora provveduto a tale riforma. Tra i paesi dell’UE, il salario minimo non esiste, oltre che in Italia, anche in Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia; qui i salari sono disciplinati dai contratti collettivi nazionali. Il salario minimo è la retribuzione di base per i lavoratori di differenti categorie, stabilita per legge, in un determinato arco di tempo. Non può essere in alcun modo ridotta da accordi collettivi o da contratti privati. È in sostanza, una 'soglia limite' di salario sotto la quale il datore di lavoro non può scendere. Le legislazioni nei diversi paesi europei (e non) hanno calcolato il salario minimo alla luce di una serie di parametri come: la produttività, il PIL, l’Indice dei prezzi al consumo; andamento generale dell’economia. Periodicamente va fatta una rivalutazione in modo tale da mantenere il potere di acquisto dei salari stabile nel tempo" (La Stampa). Negli Stati Uniti esiste un ‘federal minimum wage’ di 7,25 dollari l’ora.

6. Il dato tendenziale dell’aumento dell’inflazione in Italia del mese di maggio 2022 è del 6,9% rispetto all’anno precedente. È la crescita più alta di questo parametro nel nostro paese dal 1986. L’inflazione è salita dello 0,9% tra aprile e maggio di quest’anno.

7. Il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, ha dichiarato che in Italia ci sono “19 milioni di persone che non pagano le tasse”. L’evasione fiscale in Italia ammonta a circa 103 miliardi l’anno (dato del 2018, incluso nella Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza del Governo Draghi nel 2021). La tassa più evasa è l’IRPEF da lavoro autonomo (quasi il 70% nel 2017). In valori assoluti l’evasione IVA vale quasi 37 miliardi di euro (dato del 2016).

8. La spesa pubblica legata all’erogazione del Reddito di cittadinanza ammonta a circa 7,2 miliardi di euro l’anno (complessivamente lo Stato ha speso 20 miliardi di euro nei primi 33 mesi di attivazione della misura). L’importo medio dell’assegno mensile è di 577 euro a persona (dati INPS).

9. Il Presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha dichiarato che È vero, noi dobbiamo pagare di più, dobbiamo valorizzare i giovani, abbiamo le nostre colpe ma noi quando cerchiamo i giovani abbiamo la concorrenza del Reddito di cittadinanza (Assemblea di Assolombarda, 30 maggio 2022).

10. Il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha chiesto di non creare un collegamento tra l’aumento dell’inflazione e quello dei salari nel corso delle sue Considerazioni Finali all’assemblea di Bankitalia del 31 maggio. La tesi di Visco è che questo collegamento causerebbe un circolo vizioso (l’aumento dei salari farebbe aumentare ulteriormente l’inflazione), suggerendo piuttosto un contributo una tantum collegato alle difficoltà macroeconomiche attivate dalla guerra in Ucraina ed evocando il rischio di un calo significativo del PIL del nostro paese dovuto proprio alle conseguenze della guerra, che renderebbe dunque poco sostenibile un aumento strutturale dei salari in questa fase storica.

11. L'incidenza percentuale sul costo del lavoro delle tasse personali sul reddito e dei contributi sociali a carico del lavoratore e delle imprese (il cosiddetto cuneo fiscale) si attesta al 45,2% collocando l'Italia al settimo posto tra i 30 paesi dell’area OCSE. Questo indicatore è in linea con quelli di Francia e Germania ed è invece più alto rispetto a Stati Uniti e Regno Unito che però hanno un sistema di welfare molto meno protettivo nei confronti dei cittadini (a partire dall’assistenza sanitaria).

Cosa dicono (e cosa non dicono) questi dati e affermazioni

1. In Italia esiste un’emergenza legata al reddito da lavoro la cui soluzione non è più rimandabile

Il nostro paese in questo momento fa registrare, contemporaneamente, la crescita tendenziale più bassa del salari nell’area OCSE e il tasso di precarietà più alto da quando questo indicatore è calcolato. Questa combinazione genera almeno due distorsioni da correggere.

Un lavoro precario richiede livelli di garanzia maggiore rispetto a un’occupazione stabile, soprattutto dal punto di vista economico, in modo che ci possa essere un bilanciamento sostenibile tra la rinuncia a una fonte di reddito certa e i maggiori introiti legati alla mancata stabilità. Questo bilanciamento però, non è garantito dall’attuale sistema dei salari, che cresce troppo poco a livello generale perché ciò avvenga. Il precariato italiano non è dunque quasi mai una scelta ma è molto più spesso una necessità: chi ha bisogno di lavorare lo fa anche a condizioni inaccettabili dal punto di vista del compenso e della reale corrispondenza tra diritti/doveri contrattuali ed effettiva attività lavorativa (orari non rispettati, straordinari non pagati, diritto alle ferie e alla malattia non garantito, mansione che non corrisponde all’effettiva job description, solo per citare i casi più comuni e che non riguardano solo il lavoro intermittente).

Leggi anche >> Il kit definitivo per contrastare il format pseudo-giornalistico “Il lavoro c’è, ma i giovani non vogliono lavorare”

Il progressivo slittamento della forza lavoro dalla stabilità alla precarietà (il tasso di occupazione, da solo, rappresenta un possibile inganno percettivo perché non descrive i cambiamenti della natura dei contratti di lavoro ma solo chi sta lavorando in un determinato periodo di tempo, precario o meno), in un quadro di stagnazione dei salari, restituisce un mercato del lavoro che tende verso il basso dal punto di vista della qualità: se il reddito non sale e contemporaneamente il lavoro diventa più precario, vuol dire che l’Italia sta tendendo inesorabilmente a entrare in competizione con paesi in cui il valore dei redditi medi è molto più basso, portando dunque al rischio di un ulteriore calo del reddito nel futuro prossimo. Tutto questo è di per sé già poco auspicabile, ma è anche insostenibile a livello economico, dati i livelli strutturali di tassazione e di evasione fiscale e quello congiunturale (e che potrebbe non calare a breve) dell’inflazione.

2. Perché il confronto tra il lavoro e il reddito di cittadinanza è un inganno

La conseguenza di questo avvitamento verso il basso del mercato del lavoro italiano sta portando alla paradossale conseguenza a cui oramai da anni stiamo assistendo: la creazione di una contrapposizione artificiosa, se non proprio maliziosa, tra l’opzione del lavoro e quello dell’accesso al reddito di cittadinanza. Il paragone è falsato prima di tutto a partire dalla natura del RdC: non è una misura universale di sostegno, ma è un sussidio di disoccupazione erogato solo a chi rientra in determinati parametri stabiliti dall’ISEE (Indicatore della situazione economica equivalente) e che dovrebbe accompagnare la ricerca di un’occupazione per chi ne è sprovvist*. Inoltre il diritto al reddito di cittadinanza si esaurisce dopo l’eventuale rifiuto di due offerte di lavoro (in precedenza erano tre, il correttivo è stato introdotto con la legge di Bilancio 2022). E qui torniamo al punto precedente: la possibile sovrapposizione tra lavoro e reddito esiste solo se il mercato del lavoro è di scarsa qualità. Davanti a stipendi accettabili, contratti rispettati, diritti tutelati, questa “gara” nemmeno esisterebbe.

Leggi anche >> Reddito di cittadinanza: il governo non ascolta gli esperti e «punisce» i poveri

La competizione può nascere (e per un periodo di tempo circoscritto) solo davanti a offerte di lavoro di importo paragonabili o di poco superiori agli importi previsti dal RdC. Tra l’altro è già in corso una discussione sul come non far entrare in conflitto l’esistenza di un sussidio di disoccupazione con le caratteristiche attuali del Reddito di Cittadinanza e il re-ingresso nel mercato del lavoro, soprattutto se l’offerta è associata a un reddito basso, in modo che il rientro all’occupazione non sia considerato poco conveniente. Il comitato sul reddito di cittadinanza, guidato da Chiara Saraceno, ha suggerito a questo proposito (novembre 2021) la possibilità di introdurre un cumulo tra lo stipendio associato al nuovo lavoro e una parte (via via sempre più marginale all’aumentare del compenso ricavato dall’attività professionale) del reddito di cittadinanza.

Leggi anche >> Meno discriminatorio, più efficiente: perché il Reddito di cittadinanza va migliorato, non abolito

Evocare dunque l’abolizione dell’erogazione del reddito di cittadinanza senza essere intervenuti sul mercato del lavoro e sui salari non renderà più attrattivo l’attuale sistema occupazionale italiano, che funziona male a prescindere dall’esistenza del RdC. Gli effetti dell’abolizione del Reddito sarebbero due, ed entrambi poco piacevoli: verrebbe meno l’unica misura (certamente discutibile, ma perlomeno c’è) di contrasto alla povertà e inoltre la qualità del mercato del lavoro scenderebbe ulteriormente, in una corsa al ribasso tra persone disperate. Il posizionamento di Confindustria (e di segmenti significativi della politica italiana) contro il reddito pare, allo stato attuale, la battaglia per poter pagare le persone poche centinaia di euro al mese in cambio di contratti precari e vessatori, e nulla più.

Leggi anche >> I giovani, il lavoro e la demonizzazione delle misure di contrasto alla povertà

3. Perché il confronto tra l’introduzione del salario minimo e l’esistenza della contrattazione collettiva è un inganno

Una tesi molto accreditata tra gli scettici sull’introduzione di un salario minimo orario garantito è la possibile perdita di centralità della misura della contrattazione collettiva da parte dei sindacati (e quindi la possibile perdita di centralità dei sindacati in sé). Questo ragionamento (che abbiamo già analizzato nel dettaglio con Carlo Canepa su Valigia Blu) potrebbe avere una logica laddove il salario minimo orario fosse esageratamente alto rispetto ai parametri con cui viene stabilito negli altri paesi in cui è entrato in vigore (e cioè produttività, Prodotto Interno Lordo, inflazione, andamento generale dell’economia) o rispetto agli importi medi garantiti dai contratti collettivi, ma è evidente che ciò non può avvenire, tantomeno in Italia, che sconta un ritardo rispetto al resto d’Europa in termini di produttività.

Leggi anche >> Perché il salario minimo può fare bene all’Italia

Negli Stati Uniti un lavoro da 40 ore settimanali pagato con il minimum wage porterebbe a un reddito mensile di 1160 dollari (7.25 dollari per 160 ore mensili). Il paragone è chiaramente fragile perché non è possibile confrontare l’economia italiana con quella americana in modo così semplicistico, ma dubito che il potere della contrattazione collettiva (e delle prerogative sindacali) possa essere messo a rischio da un contratto a tempo pieno che vale una cifra paragonabile a questa, a meno che i sindacati non vogliano lottare per contratti collettivi basati su importi ancora più bassi. Il salario minimo, allo stesso tempo, offrirebbe una misura di tutela per tutte le forme contrattuali al momento non regolate da un meccanismo di contrattazione collettiva (cioè di gran parte del lavoro precario).

4. Perché è problematico legare l’aumento dei salari alla (sola) produttività

Un altro argomento utilizzato spesso per osteggiare l’introduzione del salario minimo obbligatorio (e in generale per spiegare perché i salari crescono troppo poco in Italia rispetto al resto d’Europa) è la scarsa produttività del lavoro nel nostro paese. La tesi è dunque: per parlare dell’aumento dei salari bisogna incidere prima di tutto sulla produttività.

Come illustrato in precedenza, la produttività è uno degli indicatori che servono a stabilire un salario minimo, ma non è l’unico. E probabilmente non potrebbe andare in modo diverso. Ci sono professioni che poco si prestano a un calcolo algebrico della produttività: chi lavora nei servizi essenziali, per esempio. Come si calcola l’indice di produttività di chi lavora in un ospedale? Inoltre la definizione del concetto di “produttività” appare via via più complessa tanto più il lavoro si basa su componenti di natura intellettuale e non fisica.

In secondo luogo bisognerebbe stabilire se l’indicatore di produttività è di natura individuale (cioè basato su ogni singola persona che lavora), dell’organizzazione in cui lavora, o di comparto. Se fosse un parametro da associare a singole persone, di fatto questa scelta rappresenterebbe una minaccia alla contrattazione collettiva ben più significativa rispetto all’introduzione del salario minimo e sarebbe comunque di difficile applicazione per i lavoratori autonomi. Al contrario: quanto più questo indicatore fosse rappresentazione di un parametro di efficienza collettivo (di un’azienda o di tutte le aziende di uno stesso settore), tanto più verrebbe meno la valorizzazione delle capacità individuali, e tornerebbe dunque ad avere più senso il meccanismo di contrattazione collettiva.

Ancora: la stipula di un contratto di lavoro non si limita esclusivamente allo scambio tra l’erogazione di un compenso da parte di un datore di lavoro e l’esercizio della professione da parte del dipendente, ma contiene (più o meno esplicitamente, a partire da eventuali accordi sullo smart working, per esempio) anche un accordo sulle modalità e i tempi di lavoro o l’eventuale presenza di vincoli di esclusività e/o di riservatezza, che  ‘precedono’ l’attività lavorativa vera e propria ma che non per questo possono essere considerati privi di valore per l’azienda (e dunque da riconoscere in una qualche forma ‘fissa’) ai lavoratori.

È dunque a mio avviso corretto considerare la produttività come uno degli indici che concorre alla composizione del reddito (e ciò già avviene nei paesi che hanno introdotto il salario minimo nel resto dell’Unione Europea), così come può essere corretto legare indicatori di produttività a una parte variabile del proprio compenso, ma senza che questo incida sui valori di base, regolati o dal salario minimo o dalla contrattazione collettiva.

I due ostacoli reali all’introduzione del salario minimo (che però non possono essere alibi)

1. Il cuneo fiscale

Introdurre una misura di salario minimo orario obbligatorio senza intervenire sulla tassazione delle aziende rappresenta un rischio effettivo di scarsa sostenibilità del sistema produttivo italiano (che già oggi si regge, per larghi segmenti, grazie proprio ai bassi redditi offerti alla forza lavoro). Nel settore privato l’erogazione media di uno stipendio costa alle imprese, può costare, al lordo, poco meno del doppio rispetto al netto che arriva in busta paga ai lavoratori e alle lavoratrici con redditi bassi e anche più del doppio in caso di redditi superiori ai 2000€ netti al mese.

La ricerca di un meccanismo che tenga conto di entrambi gli aspetti (introdurre il salario minimo e allo stesso tempo ridurre il cuneo fiscale, con meccanismi di incentivazione per le aziende virtuose e che attivino nuove assunzioni) parrebbe dunque auspicabile.

Allo stesso tempo, come emerso dall’analisi di scenario, ci sono situazioni in cui la presenza di un cuneo fiscale significativo non ha impedito la creazione di un salario minimo obbligatorio né un aumento degli stipendi negli ultimi decenni, ed è il caso della Germania (che tra le altre cose ha appena approvato un aumento del salario minimo obbligatorio a 12 euro l’ora a partire dal primo ottobre 2022). L’indice di produttività di questo paese nel periodo oggetto di osservazione (cioè nell’intervallo 2014-2018, come indicato nei dati Istat) è cresciuto dell’1,1% a fronte del +0,3% dell’Italia, e questo è certamente un elemento che spiega parte della differenza, ma forse non è il più significativo. E qui veniamo al secondo ostacolo.

2. L’evasione fiscale

103 miliardi di euro l’anno (il 5,1% del Prodotto Interno Lordo, per una somma che equivale a 14,3 volte il gettito del Reddito di cittadinanza), 19 milioni di persone che non sono perfettamente in regola con il fisco (quasi una su tre, minorenni e pensionati inclusi): è la nostra zavorra economica (nonché sociale e culturale) principale. All’interno di questo enorme importo ci sarebbero i soldi per attivare molte delle misure che favorirebbero l’introduzione di un salario minimo obbligatorio, a partire dalla riduzione delle tasse sul lavoro.

Iscriviti alla nostra Newsletter


Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it.

Eppure, in Italia, spesso si ragiona quasi all’opposto: il salario minimo favorirebbe il pagamento in nero degli stipendi, con il Reddito di cittadinanza questo già succederebbe. È un tipo di impostazione che rappresenta una resa da ogni punto di vista: così si sta affermando che l’evasione fiscale è quasi una caratteristica endemica, inestirpabile, dell’Italia al punto da considerarla non solo inevitabile in questi termini ma addirittura così semplice da attuare (e così difficile da perseguire) da rendere alcune misure di tutela delle fasce più deboli della popolazione non sostenibili, se non proprio da scongiurare.

Il rischio che però si corre, adottando questo tipo di ragionamento, è di arrendersi all’ineluttabile implosione del mercato del lavoro in Italia. E un paese in cui le cose necessarie non si possono fare perché c’è chi trova comunque una scappatoia non riuscirà in ogni caso a rialzarsi, con o senza salario minimo.

Immagine in anteprima: foto di  Kate Townsend via Unsplash

Segnala un errore

Array