Salario minimo: la proposta dell’opposizione è un buon inizio
|
Dopo mesi in cui la maggioranza ha agito quasi del tutto indisturbata, messe da parte per un attimo i tatticismi e le dispute personali dei leader, l’opposizione ha finalmente lanciato la sua prima sfida congiunta al governo Meloni. Nei giorni scorsi infatti i partiti dell’opposizione hanno presentato la loro proposta di salario minimo.
La proposta consiste nell’introduzione di un salario minimo a 9 euro lordi all’ora. L’intento è di garantire una retribuzione dignitosa senza tuttavia sostituirsi ai contratti collettivi del lavoro: non agirebbe quindi su altre voci di retribuzione contenute in questi ultimi, ma solo sui minimi.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Il paese dei salari stagnanti
Non deve sorprendere che la prima proposta dell’opposizione riguardi proprio la questione salariale. Il nostro paese, com’è noto, non brilla certo su quel fronte. I salari sono stagnanti ormai dagli anni ’90 con una crescita negativa negli ultimi 21 anni, agli ultimi posti in Europa anche se non consideriamo la slavina avvenuta nel biennio 1992-1994. Una fetta consistente dei lavoratori è classificabile come “lavoratore povero”, ovvero con una retribuzione inferiore al 60% del salario mediano. Secondo la relazione del 2021 sul lavoro povero, oltre un lavoratore su dieci nel nostro paese sarebbe povero.
Gli ultimi anni non hanno certo permesso di tirare un sospiro di sollievo: nonostante la buona performance dell’economia italiana anche rispetto ai partner europei di riferimento, come Francia e Germania, con un record di occupati da quando l'ISTAT ha cominciato a raccogliere i dati, i salari sono diminuiti per via dell’inflazione. Infatti, per quanto i salari nominali siano aumentati, l’incremento del prezzo dei beni ha portato a un calo dei salari reali, ovvero quelli misurati tenendo conto dell’inflazione.
Il salario minimo è un primo tentativo di intervenire su questo fronte. D’altronde non è la prima volta che se ne discute nel nostro paese. Inizialmente il Governo Renzi aveva pensato all’inserimento di un salario minimo, poi sottratto dai decreti attuativi del Jobs Act. Durante la precedente legislatura quasi tutti i partiti avevano presentato una proposta in merito: il PD, il Movimento 5 Stelle con la proposta di Catalfo, LeU con Postorino e persino Fratelli d’Italia con Rizzetto. Ma alla prova dei fatti le cose sono andate diversamente: il governo Conte II avrebbe voluto introdurre un salario minimo per certe categorie di lavoratori, tanto che lo aveva inserito nella Bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Lo stesso si può dire del governo Draghi che negli ultimi giorni, con il ministro del Lavoro e della Politiche Sociali Andrea Orlando, aveva avanzato una proposta di salario minimo che però lasciava quantomeno perplessi.
Ovviamente l’attuale maggioranza non apprezza particolarmente proposte come il salario minimo. Già qualche mese fa, in un videomessaggio inviato al Festival dell’Economia di Trento, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni lo aveva bollato come “specchio per le allodole”, aggiungendo poi che si trattava di una proposta buona dal punto di vista filosofico, ma che rischiava di trasformarsi in un boomerang. In particolare Meloni sottolineava come, per aumentare le retribuzioni dei lavoratori, fosse più efficace il taglio del cuneo fiscale come quello voluto dal suo governo. Ma, come spiega il professore del Sant’Anna di Pisa Andrea Roventini, c’è una differenza sostanziale: laddove il salario minimo è (quasi) a costo zero per lo Stato, il taglio del cuneo fiscale ha un impatto notevole sulle casse dello Stato.
Anche la ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone ha rimarcato la sua contrarietà all’introduzione di un salario minimo. Secondo la ministra non è possibile arrivare a una legge sul salario minimo, che andrebbe a intaccare i lavoratori italiani, ma si deve puntare su un insieme di misure, ma a dire il vero il discorso è quantomeno confuso.
Il salario minimo e i suoi nemici
Che cosa c’è di vero però nelle critiche che vengono rivolte, in seno alla discussione pubblica, sul salario minimo? Due sono quelle più presenti nel dibattito pubblico, oltre al benaltrismo di Meloni sul taglio del cuneo fiscale.
La prima riguarda il rapporto tra il salario minimo e la contrattazione collettiva. Secondo i critici, tra cui anche una parte del sindacato, l’introduzione di un salario minimo andrebbe a danneggiare il sistema di rapporti industriali nel nostro paese che passano, appunto, dai contratti collettivi. Il nostro paese condivide con quelli nordici e l’Austria il ricorso alla contrattazione collettiva, data l’elevata copertura sindacale, ma nel corso degli ultimi anni si è innestata una dinamica perniciosa. Dato il calo della copertura sindacale, i contratti collettivi sono aumentati dell’80%, quindi quasi raddoppiati, nel corso degli ultimi dieci anni.
Questo fenomeno non è stato trainato dalle novità sul mondo del lavoro, quanto da una tendenza al ribasso sia sulle tutele sia sui salari, come fa notare la fondazione Di Vittorio. Proprio per via di questo indebolimento, il salario minimo potrebbe configurarsi come un utile complemento per evitare un’ulteriore tendenza al ribasso.
La seconda, e più complessa, riguarda l’impatto che il salario minimo avrebbe sull’occupazione. Si tratta di una perplessità che continua, ancora oggi, a interessare anche la comunità economica, non solo quella politica. L’argomento a supporto si basa sui meccanismi di funzionamento del mercato. Per un bene qualsiasi, siano le pere, le scarpe o le consulenze, abbiamo dei produttori che erogano o producono il servizio, e i consumatori che sono disposti a pagarlo. I produttori incorrono, ovviamente, in dei costi per produrre il bene o erogare il servizio: il loro fine è quindi guadagnare il più possibile dalla vendita. Allo stesso tempo i consumatori, che traggono beneficio dal consumo del bene, sono sottoposti a vincoli di budget. Quello che fa funzionare il mercato, quindi, è il prezzo d’equilibrio, dove si incontrano la domanda dei consumatori e l’offerta dei produttori.
Questo schema è applicato anche al mercato del lavoro. In questo caso sono i lavoratori a offrire la loro manodopera e le aziende a domandare. Le due curve, quella d’offerta dei lavoratori e quella di domanda delle imprese, si intersecano in un punto che rappresenta il salario d’equilibrio a cui spontaneamente arriva il mercato. In questo contesto, che cosa succederebbe se si istituisse un salario minimo al di sopra del salario d’equilibrio?
Qualora il governo decidesse di istituirlo, questo aumenterebbe da una parte i costi per le imprese, dall’altra porterebbe una frazione di inoccupati- coloro il cui salario di riserva era superiore rispetto a quello d’equilibrio ma inferiore a quello minimo, per essere precisi- sul mercato. Il risultato, quindi, sarebbe un aumento della disoccupazione.
Nonostante l’idea sia estremamente affascinante nella sua semplicità, è quantomeno superficiale. Almeno dagli anni ‘90 infatti gli studi empirici hanno mostrato che in molti casi il salario minimo non diminuisce l’occupazione, anzi: in alcuni casi un suo innalzamento contribuisce ad aumentarla.
Ma quand’è che il salario minimo non diminuisce l’occupazione? Una delle spiegazioni teoriche avanzate riguarda il potere delle aziende: il potere di monopsonio, l’equivalente del monopolio ma sul lato della domanda. Quando le aziende detengono potere di monopsonio, al lavoratore va una retribuzione che è inferiore rispetto a quanto teoricamente gli spetta, in base a qual è il suo apporto alla produzione. In tal caso l’introduzione di un salario minimo avrebbe effetti positivi anche sull’occupazione.
Nel nostro paese, riporta uno studio, il fenomeno del monopsonio sarebbe estremamente diffuso, con punte che toccano il 50% delle aziende al sud. Dal punto di vista teorico quindi si può essere alquanto ottimisti sull’introduzione di un salario minimo nel nostro paese.
Com’è facilmente intuibile, se il salario minimo non porta necessariamente a un aumento della disoccupazione, è tuttavia necessario stabilire il valore ottimale affinché questo non succeda. Questo è uno dei punti più delicati, anche rispetto alla proposta dell’opposizione. Una delle critiche, ad esempio da parte di Luigi Marattin o Elsa Fornero, è proprio sul valore a cui sarebbe fissato il salario minimo.
Secondo una review commissionata dal governo britannico, l’evidenza su base internazionale suggerisce impatti non significativi sull’occupazione (in negativo) tra il 60% e il 70% del salario mediano (ovvero il salario tale per cui ci sono tante persone che prendono di più quante quelle che prendono meno). Nel nostro paese, secondo la relazione dell’Istituto Nazionale per le Politiche Pubbliche, il salario mediano è stimato a 11.2 euro all’ora: istituire un salario a 9 euro lordi l’ora quindi porterebbe il salario minimo all’80% del salario mediano. Si tratta di una cifra estremamente elevata.
Anche qui però la questione è estremamente più complessa, a partire dal valore trovato dalla letteratura economica. Questo perché i risultati ottenuti sono, ovviamente, aggregati su base nazionale. Recentemente uno studio condotto negli Stati Uniti ha sfruttato una maggior granularità dei dati osservando, su base locale, qual è l’effetto del salario minimo in zone in cui raggiunge fino all’80% del salario mediano. Anche in questo caso non vi sono stati effetti negativi sull’occupazione, aprendo la strada a possibili soluzione politiche più ambiziose.
Una delle possibili spiegazioni di questo fatto, che ci porta al secondo punto, è anche l’effetto del salario minimo sul tessuto industriale. Questo è stato recentemente osservato in Germania, che ha introdotto solo da qualche anno il salario minimo. In uno studio, i ricercatori hanno notato che il salario minimo spingeva fuori dal mercato aziende poco produttive, ma l'emorragia occupazionale non è avvenuta grazie al fatto che aziende più grandi, con posizioni meglio retribuite e più stabili, ne hanno assorbito i lavoratori.
Il salario minimo, infatti, funziona anche come politica industriale. Garantendo una cifra sotto la quale non si può scendere, le aziende sarebbero quindi costrette a investire in innovazione e formazione di capitale umano. Ciò innesca quindi un circolo virtuoso che favorisce aziende più produttive. Proprio la presenza di piccole e medie imprese poco produttive è una delle cause della bassa produttività e della situazione di stagnazione nel paese. In questo senso la proposta di un salario minimo più alto, come quello presentato dall’opposizione, potrebbe pertanto funzionare.
Persiste però una certa perplessità proprio sulla cifra. Innanzitutto su come sarà definita: i 9 euro lordi sono comprensivi di TFR e ultramensilità. Come spiega l’economista dell’OECD Andrea Garnero su La Voce, nonostante il tema possa sembrare tecnico, che cosa includere nella soglia è il fulcro della questione. Questo, suggerisce sempre Garnero, può essere risolto da una commissione sulla falsariga di quella incaricata da Tony Blair al tempo dell’introduzione del National Minimum Wage. La commissione, composta da esperti del mondo accademico e delle parti sociali, ha suggerito la cifra a cui introdurre il salario minimo sulla base di solide evidenze empiriche. Una strada che anche l’Italia potrebbe seguire.
C’è poi la questione, sollevata anche da Marco Cappato, delle differenze salariali tra nord e sud. Si tratta, anche in questo caso, di un argomento delicato. È vero che le differenze di salario tra nord e sud sono notevoli (la mediana nel nord ovest è di 11.9 contro il 10.2 del Sud), ma proprio il caso tedesco mostra come l’introduzione di un salario minimo nazionale porti a una convergenza tra i livelli salariali delle varie regioni. Anche su base internazionale sono rari i casi, ad esempio Stati Uniti e Giappone, in cui il salario minimo varia a livello regionale.
Un buon inizio
Il fatto che l’opposizione al governo Meloni, che finora ha potuto agire pressoché indisturbato, abbia preso l'iniziativa su questo tema è una buona notizia: sono proprio i lavoratori che devono costituire la spina dorsale, dal punto di vista elettorale, a una destra che ha giocato sull’impoverimento della classe operaia e della classe media per arrivare al potere. Ovviamente, nella misura in cui i numeri in parlamento non ci sono, la proposta di legge resterà solo sulla carte, ma pone il governo davanti a una scelta: mettersi dalla parte dei lavoratori o no?
Bisogna però tenere presente che, nell’introdurre un salario minimo nel nostro paese, è necessario procedere con estrema cautela. Innanzitutto non bisogna lanciarsi in facili entusiasmi: il salario minimo, da solo, non basta a risolvere il problema del lavoro povero, ma è un tassello importante della strategia.
Inoltre restano dei nodi che, nonostante non scaldino gli animi, risultano cruciali. L’esempio più macroscopico riguarda la soglia a cui si pensa. Che cosa dovrebbe prendere in considerazione? Meglio un salario minimo più alto, con il rischio di un aumento della disoccupazione nel breve periodo, o partire da uno più basso e poi salire? Non è ancora il tempo di porsi queste domande, visto che come detto prima la proposta resterà sulla carte. Ma se l’opposizione vuole essere credibile dovrà inesorabilmente porsele.
(Immagine anteprima: grab via YouTube)