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Salario minimo: cos’è, dove è previsto in Europa, le proposte e il dibattito in Italia

17 Settembre 2019 14 min lettura

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Salario minimo: cos’è, dove è previsto in Europa, le proposte e il dibattito in Italia

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La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, durante il suo discorso di candidatura tenuto al Parlamento europeo di Strasburgo lo scorso 16 luglio, ha dichiarato che nel programma di legislatura si impegnerà anche, nel rispetto dei diversi mercati di lavoro, per l'introduzione di un salario minimo per legge in tutta l'Unione europea.

Quello del salario minimo è un tema tornato al centro del dibattito politico in Italia, tra i pochissimi paesi europei a non prevedere una misura di questo tipo. I due partiti di maggioranza che sostengono il governo Conte II – Movimento 5 Stelle e Partito democratico – hanno raggiunto un accordo di programma in cui viene stabilito che il salario minimo sarà introdotto. La questione, però, è capire in che modo. Da avversari politici, infatti, i cinque stelle e i democratici avevano presentato due disegni di legge con questo stesso obiettivo, ma a cambiare era la modalità di introduzione, con differenze su costi per le imprese e possibili effetti. Per questo motivo, è ora necessario verificare se il nuovo governo Conte riuscirà a trovare una sintesi per rendere effettiva la misura.

In questo approfondimento: cos'è il salario minimo, in quali paesi europei esiste già, cosa dicono le ultime ricerche sui suoi effetti, quali sono le differenze tra le proposte di legge di M5s e Pd e qual è il dibattito in atto in Italia.

Cos’è il salario minimo e dove è previsto in Europa

Il Salario minimo è una remunerazione minima – stabilita per legge da ogni paese – che i datori di lavoro devono dare ai propri dipendenti. Si tratta di una misura prevista in 22 dei 28 paesi dell’Unione europea. Negli altri (Danimarca, Italia, Austria, Finlandia, Svezia e Cipro) le retribuzioni sono fissate per contrattazione tra le parti sociali, a livello aziendale o per singolo contratto.

Nel nostro paese, precisa l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), “quasi 900 accordi collettivi settoriali (2/3 scaduti) firmati a livello nazionale coprono praticamente tutti i dipendenti del settore privato in Italia con minimi dettagliati”. Anche sui compensi di chi rimane scoperto, però, dovrebbero ricadere gli stessi effetti di quelli dei lavoratori che rientrano nei contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl). Nel 2015 la Corte Costituzionale ha stabilito che i trattamenti economici minimi definiti dai Ccnl sono un "parametro esterno di commisurazione (...) nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico" anche per i lavoratori che non sono coperti dai contratti collettivi.  All'interno di questo sistema ci sono però dei modi, legali e illegali, per aggirare la retribuzione minima prevista, come ricordato da Andrea Garnero su La Voce.info

L’obiettivo del salario minimo è così offrire una tutela minimale, decisa per legge, "per quelle categorie di lavoratori che dovessero essere escluse dalla copertura di contratti collettivi rafforzando al tempo stesso la salvaguardia della dignità del lavoro", spiega l’Istat, che elenca anche quali pesi e contrappesi si devono considerare per l’introduzione di una simile misura. Innanzitutto, “la scelta del livello del salario minimo deve contemperare due esigenze di segno opposto”: infatti, “un salario minimo troppo alto potrebbe scoraggiare la domanda di lavoro o costituire un incentivo al lavoro irregolare, determinando quindi un ampliamento della segmentazione tra lavoratori e un’ulteriore marginalizzazione delle categorie più svantaggiate”. Al contrario, “un salario minimo troppo basso potrebbe non garantire condizioni di vita dignitose”. Viene inoltre ricordato che la definizione di un salario minimo “deve essere opportunamente coordinata con altri istituti presenti nel mercato del lavoro”. Ad esempio, con il reddito minimo (definito in maniera errata “reddito di cittadinanza”) approvato dal primo governo Conte.

Leggi anche >> Tutte le criticità del cosiddetto “reddito di cittadinanza”

Nel mondo i primi esempi di salario minimo compaiono nell'800 in Nuova Zelanda e Australia. Nel 900, questa misura, in diverse forme, viene approvata nel Regno Unito, in Francia e negli Stati Uniti d'America. L'ultimo paese in Europa a introdurlo è stata la Germania nel 2015. In dieci anni, la paga lorda mensile è aumentata, in modo differente, in ogni paese (al contrario della Grecia) in cui il salario minimo è diventato legge. La soglia stabilita nella misura, infatti, viene rivista abitualmente in base alle condizioni economiche, ai risultati del suo monitoraggio e alla valutazione delle ripercussioni nell’economia, specifica l'Inps.

via Eurostat

Eurofond (la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro), nell’ultimo rapporto annuale su questa misura, mostra che in fondo alla  classifica delle tariffe mensili del 2019 si trova la Bulgaria con 286 euro al mese (cioè 1,62 euro all’ora), mentre in cima c'è il Lussemburgo con poco più di 2.000 euro (cioè 11,97 euro all’ora). Inoltre, otto paesi hanno un salario minimo mensile superiore a 1.000 euro (Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Spagna e Regno Unito), mentre quattro lo hanno inferiore a 500 euro (Bulgaria, Ungheria, Lettonia e Romania).

Un’analisi e un confronto tra questi stipendi mensili lordi, però, devono tenere conto di diversi fattori. Infatti, si legge nel rapporto, considerare solo queste cifre può essere fuorviante a causa delle fluttuazioni dei tassi di cambio e dell’andamento dei prezzi nell'economia locale di ogni singolo paese. I livelli dei prezzi, infatti, tendono ad aumentare nel tempo e se lo Stato non agisce di conseguenza sul salario minimo, il potere d’acquisto del lavoratore diminuisce.

Considerato ciò, continua Eurofond, la distanza tra il paese con il più alto salario minimo (Lussemburgo) e il più basso (Bulgaria) si è ridotta tra il 2010 e il 2019: “Nel 2010 i lavoratori lussemburghesi avevano un potere di acquisto 5,9 volte superiore a quello dei colleghi bulgari. In altre parole, il potere di acquisto del salario minimo in Bulgaria era il 17% di quello del Lussemburgo. Dopo un leggero aumento registrato nel 2011, questa distanza ha cominciato a ridursi. Nel 2019 il salario minimo più alto corrisponde a 2,9 volte quello più basso. Questo significa che il salario minimo dei lavoratori bulgari è ora il 35% di quello dei lussemburghesi”.

Distanza relativa tra il potere d’acquisto del salario minimo più basso, il mediano e quello più alto negli Stati membri, via Eurofond.

Queste cifre lorde sono soggette a tasse e contributi sociali. Per questo motivo, per un’analisi più dettagliata è importante considerare gli importi netti che un lavoratore effettivamente percepisce: ad esempio in Lituania le tasse e i contributi sociali arrivano a circa il 40% del guadagno lordo, mentre in Belgio superano di poco il 4%.

Eurofond, infine, fornisce anche una panoramica delle ricerche più recenti sugli effetti delle diverse forme di salario minimo in Europa. In Germania, ad esempio, l'introduzione di questa misura ha alzato la paga oraria, ma non lo stipendio mensile e non ha avuto effetto sugli altri salari. Inoltre, il salario minimo ha avuto un impatto limitato sull'occupazione in generale e ha diminuito l'orario di lavoro dei lavoratori che un tempo lavoravano full time. Non ha poi ridotto il numero di coloro che hanno necessità di arrotondare lo stipendio.

Per quanto riguarda invece l’Irlanda, quando nel 2016 il salario minimo è stato aumentato di circa il 6%, si è avuto un impatto negativo sulle ore di lavoro: “In particolare, i lavoratori con contratti a tempo determinato si sono visti ridotti in media l’orario di lavoro di 3,5 ore a settimana”. In Grecia, poi, l’introduzione di un salario minimo potrebbe aver favorito l'occupazione giovanile (di età compresa tra 20 e 24 anni), “poiché il loro tasso di occupazione è diminuito in modo meno netto rispetto a quello dei lavoratori più anziani (di età compresa tra 25 e 29 anni)”. Riguardo infine al Regno Unito, questa misura ha avuto un impatto sui redditi dei lavoratori con un paga bassa, ma in media il miglioramento dei loro standard di vita è stato molto modesto.   

Il contrasto ai “working poor”

Tra gli obiettivi principali di questa misura, c’è il contrasto al fenomeno dei working poor, cioè le persone che hanno un lavoro “in regola” ma vivono con redditi sotto la soglia di povertà.

Secondo l’Eurostat (l’ufficio statistico dell’Unione europa), nell’Unione europea nel 2017 quasi il 10% degli occupati (di età superiore ai 18 anni) era a rischio povertà. Una realtà fortemente influenzata dal tipo di contratto del lavoratore: due volte più elevato per le persone con un lavoro part time rispetto a quelli che lavorano a tempo pieno e quasi tre volte maggiore per i dipendenti con un lavoro con un contratto a tempo determinato rispetto a quelli con uno a tempo indeterminato. Inoltre, negli ultimi anni, la percentuale di occupati a rischio povertà ha avuto un aumento continuo, passando dall'8,3% del 2010 al 9,6% del 2016. Anche se, nel 2017 si è registrato un leggero calo, con un meno 0,2% rispetto all’anno precedente. Per l’Istat “l’aumento dei cosiddetti working poor può essere ricondotto anche all’estensione del part-time involontario e, più in generale, a un calo delle ore lavorate annue riconducibili al maggior ricorso a rapporti di lavoro discontinui”.  

via Istat.

Tra i 28 Stati membri, l’Italia risulta in quinta posizione per gli occupati a rischio povertà. Davanti ci sono, al primo posto la Romania, a seguire il Lussemburgo, poi la Spagna e la Grecia in quarta posizione.

Nel dettaglio, in un rapporto pubblicato quest’anno dall’European Social Policy Network (ESPN), una struttura istituita nel 2014 su iniziativa della Commissione europea per fornire informazioni, consulenza, analisi indipendenti su questioni di politica sociale, nel nostro paese il rischio di povertà lavorativa è aumentato di 1,2 punti percentuali in cinque anni (2012-2017). 

Evoluzione rischio di povertà lavorativa in Italia 2012 -2017, via European Social Policy Network.

Anche in Italia, inoltre, questo rischio è molto più alto per i dipendenti a tempo determinato (22,5% nel 2017) rispetto a quelli con contratti a tempo indeterminato (7,8%) e per quelli con un lavoro part time (18,6%) rispetto a quelli con un lavoro a tempo pieno (11,1%). Ad accrescere il rischio di povertà lavorativa c’è anche il non avere la cittadinanza italiana: nel 2017, il 31,8% per i cittadini extra UE, il 22,2% per i cittadini proveniente dai paesi membri dell’Unione europea; oltre il per i lavoratori italiani. 

Per questo motivo, si legge nel rapporto, le principali sfide per ridurre ed eliminare questo rischio si concentrano su diverse questioni: aumentare i guadagni individuali e migliorare le condizioni dei lavoratori nel mercato del lavoro; misure per accrescere il numero di beneficiari di reddito tra le famiglie più svantaggiate, in particolare tra le donne, in quanto gli uomini, in generale, risultano essere, nella maggior parte dei casi, gli unici con un reddito in famiglia. 

Le proposte di Pd e M5s per un salario minimo in Italia

Il tema del salario minimo è da tempo dibattuto in Italia, ma ad oggi nessuna legge è stata mai approvata. Nel 2014 l'allora esecutivo guidato da Matteo Renzi, all'interno del cosiddetto "Jobs act", era andato verso la sua introduzione con una legge delega volta a emanare un decreto che prevedesse «eventualmente anche in via sperimentale, il compenso orario minimo» per i lavoratori subordinati e per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, ricostruisce Pagella politica. Ma poi non si fece più nulla, perché questa facoltà non fu definita nei decreti attuativi.

Lo scorso anno, poi, il Partito democratico e il Movimento 5 Stelle – che ora, insieme a Liberi e Uguali formano la maggioranza che sostiene il governo Conte II –, da avversari politici hanno presentato dei disegni di legge per l’introduzione del salario minimo in Italia. Ora, al governo insieme, dovranno trovare una sintesi per far approvare dal Parlamento questa misura. Per questo motivo, vediamo cosa prevedono le proposte di legge  e su cosa si differenziano. 

Nel corso dell’attuale legislatura il Partito democratico ha presentato diversi disegni di legge per istituire un salario minimo. Il primo, a firma del senatore democratico Mauro Laus e presentato a ottobre 2018, definiva la misura come “la retribuzione oraria minima che il datore di lavoro è tenuto a corrispon­dere al lavoratore”, stabilendo una cifra di 9 euro all’ora “al netto dei contributi previdenziali e assisten­ziali”.  Si prevedeva anche, prima dell’emanazione del decreto ministeriale, un accordo “con le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparati­vamente più rappresentative sul piano nazio­nale” per individuare i contratti a cui esten­dere la disciplina del salario minimo orario ed eventualmente quali escludere. 

A maggio del 2019, però, il Pd ha presentato un nuovo disegno di legge (a firma di Tommaso Nannicini, ex consigliere economico dell’ex premier Matteo Renzi) che, al contrario del precedente, non fissa più una cifra di salario minimo generale per legge, ma riconosce valore legale ai minimi contrattuali già previsti dai vari Contratti collettivi nazionali, spiega Repubblica. Per quanto riguarda, invece, gli ambiti di attività non coperti dai contratti collettivi stipulati dalle associazioni di rappresentanza, viene previsto un salario minimo di garanzia come trattamento economico minimo che “il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavora­tore a cui si applica la disciplina del lavoro subordinato”, secondo gli importi e le moda­lità (anche di aggiornamento) che saranno determinati da una Commissione paritetica, istituita presso il CNEL (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) e che sarà formata da dieci rappresentanti dei lavoratori dipendenti, dieci delle imprese e dal pre­sidente del CNEL. 

A luglio dello scorso anno, il Movimento 5 Stelle (tra i firmatari anche l’attuale ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo), ha presentato invece una proposta di legge dal titolo “Disposizioni per l’istituzione del salario minimo orario”. Il disegno di legge punta fondamentalmente a contrastare l’aumento del fenomeno dei working poor. L’articolo 2 stabilisce che per “retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente alla quantità e qualità del lavoro prestato” si definisce il trattamento economico complessivo “non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro più rappresentative sul piano nazionale (...) e comunque non infe­riore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali”. Questa misura si applicherebbe a tutti i rapporti di lavoro subordinato – quindi anche a quelli contrattualizzati – e ad alcune tipologie di collaborazione. 

Secondo l’Istat, i lavoratori per i quali l’innalzamento della retribuzione oraria minima a 9 euro comporterebbe un incremento della retribuzione annuale sono 2,9 milioni, cioè circa il 21% del totale dei lavoratori (2,4 milioni, esclusi gli apprendisti).

La fotografia dell'Istat, via il Sole 24 Ore.

Luigi Di Maio, in un’intervista all’Huffington Post dello scorso maggio, aveva comunque aperto a modifiche, affermando di voler inserire «anche un raccordo con l'Ocse nella proposta e l'istituzione di una commissione ministeriale che includa i sindacati e gli altri attori rappresentativi, come fatto da molti altri Paesi Ue». 

Nel testo del programma di governo, su cui Movimento 5 Stelle e Partito democratico hanno raggiunto un’intesa, si legge al punto 4 che occorre “individuare una retribuzione giusta (cosiddetto “salario minimo”), garantendo le tutele massime a beneficio dei lavoratori, anche attraverso il meccanismo dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative”. Cristiano Dell’Oste e Valentina Melis scrivono sul Sole 24 Ore che per raggiungere una sintesi bisognerà decidere “se avere una paga minima unica e stabilita a tavolino dal Parlamento, oppure se affidarsi a tavoli tecnici o ai singoli contratti collettivi, che oggi spesso nei livelli inferiori hanno retribuzioni al di sotto dei 9 euro”.

Il dibattito in Italia sulle proposte di legge di salario in minimo

Sull’introduzione o meno in Italia di un salario minimo per legge c’è comunque dibattito. Cgil, Cisl e Uil non vedono con favore l’introduzione di una legge sul salario minimo, spiega il sito Rassegna sindacale. I rappresentanti di questi sindacati hanno espresso i propri dubbi lo scorso marzo in audizione in Commissione Lavoro del Senato: "Una norma di legge che si proponga di fissare un salario minimo orario legale per tutti i lavoratori dipendenti deve innanzitutto stabilire il valore legale dei trattamenti economici complessivi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro", dicono i tre sindacati. 

La preoccupazione è che l’introduzione del salario minimo per legge "potrebbe favorire una fuoriuscita dall’applicazione dei contratti, rivelandosi così uno strumento per abbassare salari e tutele dei lavoratori. Un rischio che si fa maggiormente concreto stante la diffusa struttura di piccole e medie imprese presenti nel tessuto economico italiano". La conseguenza, continuano i sindacati, potrebbe essere “un fortissimo disincentivo al rinnovo di alcuni contratti nazionali relativi a settori ad alta intensità lavorativa, a basso valore aggiunto e a forte compressione dei costi”. Le tre sigle denunciano poi che il vero problema che affligge la regolazione salariale in Italia, "insieme alla evasione contrattuale e al crescente sommerso in molte attività", è semmai costituito "dalla proliferazione contrattuale", ossia "la diffusione di contratti poco e per nulla rappresentativi e in dumping (anche dal punto di vista retributivo) rispetto ai contratti stipulati dalle parti sociali maggiormente rappresentative".

Anche Confindustria ha espresso scetticismo in un’altra audizione in Senato. Per Pierangelo Albini, direttore dell'area Lavoro, Welfare e Capitale Umano dell'associazione degli industriali, "sebbene l’introduzione di un salario minimo legale potrebbe – a ben determinate condizioni – contribuire a ridurre l’area delle situazioni anomale", resta che "il vero problema del rispetto della ‘giusta retribuzione’ del lavoro prescinde dalla fonte che ne determina la misura". In altre parole, continua Albini, "al di là della legge o del contratto collettivo quale fonte della misura della retribuzione minima, il problema vero, almeno nel nostro Paese, sembra essere piuttosto quello degli strumenti volti a garantire l’effettivo rispetto del livello retributivo minimo stesso". 

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Ci sarebbe poi un’ulteriore questione su cui è necessario porre attenzione. Stefano Scarpetta, a capo della direzione Lavoro dell’Ocse, pur non vedendo problemi insormontabili nell’introdurre un salario minimo per legge in Italia, avverte infatti che «porre il salario minimo ad un livello troppo alto rispetto alle medie e ai minimi settoriali definiti nella contrattazione collettiva, anziché ridurre il rischio di povertà tra chi lavora rischia di scoraggiare la creazione di posti di lavoro e favorire il sommerso». «Occorre fare attenzione alla misura – aggiunge Scarpetta –: i 9 euro previsti (ndr nella proposta del M5s) porrebbero l’Italia al vertice dei paesi Ocse per rapporto fra salario minimo e salario medio».

Infine, secondo l’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) un salario minimo di 9 euro lorde all’ora comporterebbe per le imprese – principalmente per quelle molto piccole (con un massimo di 10 dipendenti) e piccole (fino a 50 dipendenti), in particolare nel Mezzogiorno – un costo in totale di 6,7 miliardi di euro. Su questo aspetto, lo scorso 9 settembre il senatore del Pd Mario Laus (firmatario della prima proposta del Partito democratico) ha dichiarato che «con l’introduzione del salario minimo, certamente non si potranno imporre costi aggiuntivi alle aziende, soprattutto a un tessuto di piccole e medie imprese che già devono difendere la loro competitività e rischierebbero altrimenti di chiudere i battenti» e che «si dovrà agire, in parallelo, con una riduzione dei contributi e del cuneo fiscale (...)».

Foto in anteprima via Ansa

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