E se crolla la Russia?
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Lo scorso 17 marzo la Procura generale della Federazione Russa ha dichiarato organizzazione non-grata il Forum dei liberi popoli della post-Russia (Forum svobodnykh narodov postRossii). Il forum, che riunisce strutture e singoli rappresentanti non solo delle nazionalità ma anche di identità regionali del paese, ha organizzato nel corso degli ultimi mesi una serie di appuntamenti ufficiali per discutere delle prospettive future della Russia. L’ultimo degli incontri, il 31 gennaio, si è tenuto a Bruxelles, patrocinato dal gruppo dell’European Conservative and Reformists party (ECR), presieduto da Giorgia Meloni e di cui fa parte Diritto e Giustizia, partito di governo in Polonia. Due deputati polacchi, Anna Fotyga, già ministra degli Esteri, e Kosma Złotowski, hanno promosso l’incontro: proprio la Fotyga, responsabile Esteri dell’ECR, da tempo ha assunto una posizione inflessibile nei confronti del futuro della Russia post-putiniana. In un articolo apparso quattro giorni prima dell’appuntamento di Bruxelles, l’eurodeputata conservatrice ha negato l’esistenza di un movimento contro la guerra in Russia (non vi sono proteste, scrive) e ha sostenuto la necessità dello smantellamento della Federazione Russa, fornendo una lettura delle vicende storiche come espressione pressoché ininterrotta dell’imperialismo e del colonialismo della “essenza di Mosca”.
Una interpretazione presente anche nella descrizione dell’evento a corredo della diretta YouTube sul sito dell’ECR, dove si legge:
“La Russia non è cambiata nel corso dei secoli, sia essa zarista, sovietica o sotto Putin: è sempre guidata dagli stessi istinti imperiali e porta avanti lo stesso schema di conquista, colonizzazione e genocidio, cercando in contemporanea l’accettazione di questo status quo dalla comunità internazionale tramite il miraggio della cooperazione economica o l’illusione del vasto mercato russo. È ingenuo pensare che la Federazione Russa possa mantenere questo assetto territoriale e costituzionale”.
Una posizione ripetuta più volte nel corso del Forum, a cui hanno preso la parola circa quaranta esponenti delle nuove realtà in cui dovrebbe dividersi la post-Russia. Accanto a rappresentanti di movimenti e istanze presenti da tempo, come gli indipendentisti ceceni, sono apparsi i delegati di territori dove non vi sono nazionalità non-russe, come la Kazakia (nome con cui, secondo gli organizzatori, dovrà essere chiamata la regione di Rostov e del bacino del Don in futuro), la repubblica di Pskov e Konigsberg, luoghi in cui non vi sono, almeno al momento, rivendicazioni indipendentiste né di autonomia da Mosca. Tra i partecipanti del forum vi era Ilya Ponomaryov, già deputato della Duma, attivo nelle proteste contro le falsificazioni delle elezioni legislative russe del 2011, nel 2014 è stato l’unico parlamentare a votare contro l’annessione della Crimea. In esilio da allora, Ponomaryov ha acquisito la cittadinanza ucraina, da dove rivendica un proprio ruolo nella resistenza all’aggressione russa: ha lanciato il sito Utro fevralya (Mattina di febbraio), media presente anche su YouTube ma incappato in polemiche per il mancato pagamento degli stipendi, e ha rivendicato la sua compartecipazione alla pianificazione dell’attentato in cui è morta Daria Dugina, circostanza che ha sollevato numerosi dubbi. L’ex deputato, in una conversazione a margine dei lavori dell’incontro del Forum dei popoli liberi, ha definito una “cazzata”, perché a sua detta la maggioranza delle regioni resterebbero con Mosca, e di essere presente a Bruxelles per pubblicizzare il suo Congresso dei deputati del popolo (S’ezd narodnykh deputatov), le cui sessioni si son tenute lo scorso novembre e a febbraio in Polonia.
Le strutture sorte nel corso di questi mesi – seppur prive di rappresentanza reale a livello territoriale e spesso impegnate in discussioni che sfociano in conflitti – sono un segnale di un problema esistente di diseguaglianze sociali e territoriali nella realtà della Federazione Russa, a cui si aggiunge il carattere ultracentralista acquisito sin dai primi anni dalla modalità di governo voluta da Putin. L’assetto amministrativo della Federazione Russa è stato ereditato, con alcuni piccoli cambiamenti, mantenendo la struttura delle repubbliche nazionali. Delle 89 entità componenti il paese, 21 sono repubbliche nazionali, più tre territori, la Crimea, Lugansk e Donetsk, annessi da Mosca nel 2014 e nel 2022. La maggior parte delle entità sono sorte nei primi vent’anni del potere sovietico, e rispondevano all’idea espressa da Lenin nella frase “nazionale nella forma, socialista nel contenuto”, che aveva portato alla formazione, anche all’interno delle altre repubbliche aderenti all’URSS, di autonomie locali su base nazionale, dai villaggi alle regioni e repubbliche autonome. Questa formula non ha sempre garantito livelli di autonomia nazionale, con diversi periodi dove a momenti di sostegno alla “nazionalità titolare” (come in età sovietica erano definite le etnie principali delle repubbliche) sono seguite pressioni centralizzatrici e russificatrici; inoltre, come già nelle repubbliche sovietiche, quelle autonome vedevano come secondo segretario del locale PCUS spesso un funzionario russo.
La Repubblica socialista federativa sovietica russa, di cui si parla in questo articolo, inoltre rappresentava un caso molto peculiare, perché a differenza delle altre 14 repubbliche, non aveva un proprio partito comunista, una propria accademia delle scienze e altre istituzioni “nazionali”. Questo fenomeno ha portato a due effetti solo a prima vista opposti: da un lato un’identificazione dei russi con le istituzioni pansovietiche, dovuta anche all’utilizzo della lingua russa come veicolo di comunicazione a livello istituzionale, educativo e di produzione culturale; dall’altro il risentimento per non veder riconosciuta una propria fisionomia indipendente dall’identità sovietica. Una contraddizione diventata straniante con la caduta dell’URSS e il completo crollo del sistema sociale ed economico, le cui ripercussioni sono state particolarmente gravi nelle regioni e nelle repubbliche. Mosca è diventata il centro d’attrazione per milioni di emigranti interni, e ancora oggi la capitale riesce a compensare i dati negativi di natalità con i trasferimenti: assieme alla regione circostante, nel quinquennio 2017-2022 vi sono stati più di 580.000 nuovi arrivi, pari al 52,4% della migrazione interna in Russia.
Questa disparità riflette il profondo divario tra il centro e le periferie, in alcuni casi aggravata dal rapporto tra russi e non-russi, rivisto in chiave fortemente centralista nei vent’anni e passa di Putin alla guida del paese. Il 13 maggio 2000 un decreto presidenziale introduceva i distretti federali, entità non prevista dalla Costituzione russa. I distretti, oggi 8, raggruppano regioni e repubbliche sotto la supervisione di un rappresentante del presidente, di nomina diretta del Cremlino, con compiti di coordinamento tra le procure regionali e repubblicane, le direzioni locali delle forze dell’ordine, le filiali della Banca centrale russa e altri enti. Formalmente, il rappresentante presidenziale non ha poteri esecutivi, ma la sua figura di supervisore emanazione diretta di Mosca ha portato a compararlo con i governatori generali d’età zarista, in una continuità di provvedimenti e decreti d’urgenza al di fuori della corrente cornice legislativa.
A questa misura è seguita l’abolizione delle elezioni dirette dei governatori e dei presidenti il 13 settembre 2004, immediatamente dopo l’attentato di Beslan in Ossezia del Nord. Il sistema, in vigore fino al 2012 per tutte le regioni, vedeva la possibilità di scelta delle assemblee legislative locali tra una terna di nomi presentata dal presidente, rafforzando ulteriormente la verticale del potere e la dipendenza da Mosca. Nel 2018 un altro provvedimento legislativo ha colpito le autonomie repubblicane, con l’introduzione della “libera scelta della lingua d’istruzione scolastica, tra cui il russo, come idioma materno”. L’obbligo di studio della lingua repubblicana, presente in Tatarstan e in Baškiria, per gli allievi dei programmi d’istruzione in russo è stato così eliminato, con conseguenze particolarmente importanti in quei luoghi dove gli idiomi nazionali sono più minacciati. A rendere, inoltre, lo status del russo superiore rispetto alle lingue degli altri 189 popoli parte della Federazione Russa, sono le maggiori possibilità di lavoro presenti a Mosca: a differenza dei già citati Tatarstan, Baškiria e Jakutia, le altre repubbliche si trovano a essere in condizioni economiche particolarmente disagiate. Nel rating pubblicato da Ria Novosti sulle condizioni sociali ed economiche delle regioni russe nel corso del 2021, infatti, le ultime dieci posizioni, dalla settantaseiesima alla ottantacinquesima, sono occupate da nove repubbliche non-russe, quattro delle quali (Daghestan, Cecenia, Buriazia, Tuva) sono invece in testa nella classifica per volume di sussidi ricevuti dal centro federale. Non tutte le repubbliche e le autonomie nazionali, però, sono dipendenti economicamente da Mosca: nel decreto del Ministero delle Finanze dell’11 novembre 2022 tra le regioni indipendenti dai sussidi del centro vi sono il Tatarstan e i circondari autonomi di Nenets, di Khanti-Mansijsk e di Yamalo-Nenets.
La centralizzazione è stata perseguita da Vladimir Putin senza soste: se le vicende delle due guerre cecene sono ormai largamente conosciute, non si può dire lo stesso della ridefinizione dei rapporti tra Mosca e le autonomie locali e nazionali avvenuta nel corso dell’ultimo decennio. All’inizio degli anni Novanta, complice anche l’indebolimento delle strutture centrali avvenuto in contemporanea al disfacimento dell’URSS, la stragrande maggioranza delle repubbliche autonome che componevano la Russia sovietica dichiarò la propria sovranità. L’adozione di tali atti non implicava, però, l’indipendenza da Mosca, ma rinviava a un nuovo trattato federale, in origine pensato come parte del tentativo di processo di riforma della struttura dell’Unione Sovietica, e poi proseguito nell’ambito della nascita della Federazione Russa. Il 31 marzo 1992 il trattato federale tra i soggetti e il centro del nuovo Stato veniva firmato dai rappresentanti di tutte le regioni e le repubbliche, esclusi il Tatarstan e la Ceceno-Inguscezia. Dieci giorni prima, il 21 marzo, in Tatarstan si era svolto un referendum dove il 61,39% degli elettori si era espresso per la sovranità repubblicana, e solo nel 1994 (esteso poi per altri dieci anni nel 2007) venne firmato un trattato bilaterale tra Mosca e Kazan, in seguito non rinnovato. I tatari rappresentano ancora oggi la seconda nazionalità nella Federazione Russa, circa 4.700.000 secondo il censimento del 2021, che ha registrato una contrazione sia nei numeri (nel 2010 erano attorno ai 5.300.000) che tra chi si ritiene di madrelingua tatara. Polemiche non sono mancate al riguardo da parte degli intellettuali e dei politici tatari, che ritengono la diminuzione registrata dal censimento dovuta alla pressione da parte del “russkij mir”. Dal 2015 ai leader delle repubbliche nazionali è stato progressivamente vietato l’uso della denominazione di presidente, prerogativa solo dell’inquilino del Cremlino. Secondo quanto previsto dalla legge federale n. 414 sulle autorità pubbliche entrata in vigore il 21 dicembre 2021, chi presiede le regioni e le repubbliche può essere chiamato “capo” (glava) o governatore. Il Tatarstan è stata l’ultima repubblica ad adottare un nuovo nome per il proprio presidente, chiamato rais, prestito linguistico proveniente dall’arabo.
Alcuni provvedimenti voluti da Vladimir Putin sembrano voler codificare una gerarchia nazionale dove al vertice vi sono i russi, nonostante il carattere multietnico del paese venga ribadito in quasi ogni discorso del presidente, in una similitudine con l’organizzazione dell’architettura del proprio potere. L’indebolimento delle autonomie è avvenuto attraverso l’istituzione di livelli subordinati direttamente al Cremlino (i distretti federali), l’esclusione dell’obbligatorietà dello studio delle lingue nazionali e la riduzione, tramite l’abolizione del titolo di presidente, dello status delle élites politiche locali.
Una situazione che ha trovato un riflesso con l’introduzione, nel 2020, tra le modifiche costituzionali all’articolo 68, dove si fissa il ruolo della lingua russa come idioma statale del “popolo costruttore dello Stato (gosudarstvoobrazujuščij narod)”. In precedenza l’art.68 si limitava a definire il russo come lingua statale. La modifica, se non ha ufficialmente stabilito il primato della nazione russa, ne ha però dato le caratteristiche, in una sorta di confusione semantica probabilmente volta ad evitare scontri con le altre etnie. Le reazioni sono state immediate, e hanno accompagnato il dibattito sulle modifiche costituzionali: Tsargrad, holding politico-mediatica diretta dall’oligarca nazionalista Konstantin Malofeev, ha accolto la definizione come il dovuto tributo al ruolo storico dei russi, compensandone la sensazione di essere “gente di serie B”; Kamil Samigullin, muftì del Tatarstan, ha denunciato come tutti i popoli della Federazione Russa abbiano contribuito alla costruzione della società e dello Stato. Petizioni e lettere aperte di intellettuali e studiosi, esponenti delle varie repubbliche, si sono susseguite, e nelle assemblee legislative repubblicane vi sono stati casi di opposizione, seppur limitata, come in Jacuzia, dove la deputata Sulustaana Myran ha votato contro le modifiche e si è dimessa dall’incarico. La maggioranza registrata nei parlamenti locali, dove a votare contro sono stati singoli deputati e ad astenersi alcune decine (in Jakutia 13, in Tatarstan 8), così come il risultato del referendum a livello federale, non corrisponde però a un sostegno totale alla nuova formulazione dell’art.68, percepita da una parte dell’intelligencija nazionale come un ritorno allo status di allogeni (inorodcy) dell’epoca zarista.
La guerra in Ucraina ha visto le nazionalità non-russe coinvolte, soprattutto nei primi mesi, in modo sproporzionato. Non esistono dati ufficiali sulle perdite e i caduti delle forze armate russe, e il progetto avviato dalla redazione russa della BBC in collaborazione con Mediazona ha solo carattere indicativo: già nelle prime rilevazioni del marzo 2022 si sottolineava come la maggioranza dei caduti verificati provenisse dalle regioni economicamente svantaggiate della Russia, con il Dagestan e la repubblica di Tuva a essere ai primi posti; secondo le cifre al 22 marzo 2023, dei 18023 decessi, 3428, pari al 19.02%, proviene dalle repubbliche e dalle autonomie nazionali, numero più o meno uguale alla rilevazione fatta nel censimento del 2021 sui non-russi nella Federazione (19,15%). La percentuale è pressoché uguale (20,35%) se si prende come denominatore comune la posizione nella classifica delle regioni svantaggiate del paese.
Povertà e fattore nazionale presi insieme hanno creato una dinamica particolare, dove associazioni a difesa dei diritti sono sorte, e subito dichiarate illegali dalle autorità russe. È il caso della fondazione Buriazia libera (Svobodnaja Burjatija), nata nel marzo 2022 con la parola d’ordine “sì alla federazione, no al razzismo”. I buriati, popolazione d’origine mongola, sono circa mezzo milione in tutto il mondo, e la maggioranza vive in Russia attorno al lago Bajkal, divisa tra la repubblica di Buriazia, la regione di Irkutsk e il territorio della Transbajkalia, e sono minoranza in queste tre entità (rispettivamente il 30,17%, il 3,2% e il 6,8%). Altre realtà sono nate a rappresentare le rivendicazioni di una fascia di attivisti, dentro e fuori la Russia, critiche sia verso le iniziative intraprese dal Forum dei popoli liberi sia della poca attenzione del variegato campo dell’opposizione liberale verso i popoli nativi. Una lettera aperta di organizzazioni e attivisti nazionali e decoloniali, apparsa lo scorso 31 marzo, fa appello all’unità delle opposizioni e al tempo stesso al diritto alla partecipazione dei popoli non-russi al futuro del paese.
L’utilizzo, nella retorica del Cremlino per giustificare l’aggressione all’Ucraina, di temi legati alla storia e alle pratiche del nazionalismo russo contribuisce a creare ulteriori contraddizioni in un contesto già complessivamente delicato. La mobilitazione parziale lanciata lo scorso 21 settembre ha suscitato una reazione concitata in alcune delle repubbliche nazionali, come in Jacuzia e in Daghestan, dove vi sono stati scontri a colpi d’arma da fuoco. La discussione su un possibile crollo della Federazione Russa in questi mesi si è estesa anche nel mondo accademico. In un articolo pubblicato da Foreign Affairs lo scorso dicembre, Marléne Laruelle, direttrice dell’Institute for European, Russian and Eurasian Studies della George Washington University e studiosa di nazioni e nazionalismi nello spazio post-sovietico, ha sottolineato come sia illusoria la possibilità di un consenso alla secessione nelle repubbliche, come sostenuto, tra gli altri, oltre che dal Forum dei popoli liberi, dall’ex presidente polacco Lech Walesa, e ha messo in guardia da scenari ottimistici sulla nascita di una serie di entità democratiche e liberali al posto della Russia odierna. La decentralizzazione e la rifederalizzazione del paese, scrive Laruelle, rappresentano le chiavi di una nuova epoca democratica per la Federazione Russa. Alexander J. Motyl, politologo statunitense d’origine ucraina, ha polemizzato sempre dalle pagine di Foreign Policy con le previsioni di Marléne Laruelle, avanzando paralleli con la fine dell’Austria-Ungheria, definita dallo studioso pressoché pacifica nonostante alcuni anni di conflitti interni, e invitando l’Occidente a prepararsi e i paesi confinanti con la Russia a far da cordone sanitario in vista di una futura instabilità. Il sociologo Grigory Yudin ha evidenziato la necessità di far i conti con gli elementi imperiali presenti nella cultura russa ma al tempo stesso senza dover condannarla in toto, sottolineando figure e movimenti che hanno combattuto contro il centralismo, dagli anarchici Michail Bakunin e Petr Kropotkin fino a Lenin e Lev Tolstoj. Il politologo Andrei Yakovlev ha invece posto la questione della necessità di una visione positiva del futuro della Russia dopo Putin, un’alternativa al momento impossibile da formare per l’incapacità delle opposizioni di entrare in sintonia con quei gruppi sociali contrari alla guerra.
È impossibile delineare uno scenario esatto per il futuro della Russia. Le incognite della guerra, al momento in una fase di stallo, possono determinare spostamenti in un senso o nell’altro, ma le condizioni all’interno del paese, seppur non catastrofiche come si prefigurava con le sanzioni, non sembrano lasciar spazio a una riduzione delle disparità sociali. Le diseguaglianze sociali erano già state sottolineate in uno studio diretto da Thomas Piketty nel 2017, dove si confrontavano i dati lungo più di un secolo, dal 1905 al 2016, e da cui si ricavava come la crescita delle sproporzioni in termini di ricchezza fosse avvenuta a partire dal 1990. I numeri ridotti in termini di inoccupati, spesso utilizzati come elemento a sostegno della stabilità del sistema putiniano, in realtà nascondono una realtà fatta di compressione salariale, e gli arruolamenti nell’esercito e nella Wagner spesso sono stati promossi attraverso la pubblicità di stipendi tra i 160.000 e i 300.000 rubli ben superiori alla media di 42.024 rubli (pari a 495 euro) registrata per il febbraio 2023 dal principale istituto bancario russo, Sberbank. All’interno dell’establishment la guerra non riscuote consensi unanimi, ma nemmeno si intravede un’opposizione, almeno a parole, ad essa: a fungere da fattori destabilizzanti sono figure come Evgenij Prigožin, sempre più impegnato in una battaglia contro il ministro della Difesa Sergei Shoigu e i suoi generali, e capace di prendere posizioni populiste a difesa degli umiliati e offesi, non ultima la richiesta al procuratore della regione di Tula di liberare Alexey Moskalev, condannato a due anni di galera per i suoi post contro la guerra, a cui è stata tolta la custodia della figlia Masha, spedita in un orfanotrofio.
Il campo ultranazionalista, che ha un ruolo importante nel sostegno alla guerra, non rappresenta la maggioranza della popolazione, ma agisce da avanguardia oltranzista, usando gli spazi aperti dal conflitto. La crescita del peso politico, però, corrisponde anche a un aumento delle pressioni: negli ultimi mesi gli assassinii eccellenti di Daria Dugina, Igor Mangushev e l’esplosione in un caffè di San Pietroburgo di proprietà di Evgenij Prigožin dove è morto il propagandista Vladlen Tatarskij (pseudonimo di Maksim Fomin) il 2 aprile testimoniano come l’ascesa delle destre sia immersa nel sangue. L’audio di una conversazione telefonica tra un altro Prigožin, Iosif, famoso produttore musicale, e il miliardario, già senatore, Farkhad Akhmedov, ha tenuto banco negli scorsi giorni, per le valutazioni espresse sulla guerra, su Putin e sui suoi uomini più fidati, come il presidente di Rosneft Igor Sechin e il capo della Rosgvardija Viktor Zolotov, definiti dei “bastardi”. Akhmedov si definisce preoccupato, nella conversazione punteggiata da una enorme quantità di parolacce, da un futuro dove gli uomini di Kadyrov e della Wagner possano spadroneggiare a colpi di pugnali e di mazzole (usate per le esecuzioni capitali dei disertori).
La demoralizzazione di un settore dell’élite russa non vuol però dire un passaggio nell’immediato all’opposizione a Putin, ma un senso di smarrimento perché si ha la netta impressione che il futuro non riservi nulla di buono. Una dinamica di rottura al centro del sistema putiniano, al momento molto difficile ma non improbabile, dovuta agli scricchiolii della verticale del potere, alla sfiducia nelle possibilità di una prossima vittoria in Ucraina e di una normalizzazione della situazione sociale nel paese, potrebbe diventare reale con l’acutizzarsi del clima di sospetti reciproci e di insoddisfazione nei confronti del Cremlino. Le crisi al centro, nella storia russa degli ultimi due secoli, hanno sempre avuto la funzione di miccia per i processi nelle periferie: è accaduto nel 1905, nel 1916/17, nel 1988-91, con una differenza sostanziale rispetto al passato, l’assenza di alternative organizzate in grado di poter giocare un ruolo politico, dovuta al lavoro scientifico di repressione condotto dal regime putiniano soprattutto nell’ultimo decennio. Un futuro pieno di domande per la Russia del domani.
Immagine in anteprima: frame video CGTN via YouTube