Perché l’opposizione a Putin non funziona
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L’assenza di uno spazio politico pubblico libero in Russia spesso viene assolutizzata come causa ed effetto del sistema di potere che vede al proprio vertice Vladimir Putin. Nonostante i 19 mesi dall’inizio della guerra in Ucraina a cui sono seguiti provvedimenti sempre più restrittivi, con condanne spesso esemplari di anni e anni di galera, all’interno del paese continuano a esserci donne e uomini che protestano, in condizioni durissime. Si tratta di numeri piccoli, cifre lontane da una massa critica in grado di impensierire il potere, ma che testimoniano una vitalità soffocata dalle leggi repressive e dalla propaganda, e pongono una domanda su cosa potrebbe accadere in condizioni diverse, in presenza di un ordinamento democratico. Non è detto, però, che le risposte siano già scritte, all’insegna di un futuro radioso una volta terminato il regime di Putin, né tantomeno che i russi siano incapaci, come fin troppo spesso teorizzato, di democrazia.
Possiamo però analizzare quanto accade al di fuori dei confini russi, dove si va formando una diaspora di dimensioni importanti, generata dall’ondata dell’emigrazione del 2022, ma che vede un continuo afflusso di chi riesce a superare le difficoltà, legate anche al regime di visti adottato dall’Unione Europea nei confronti dei cittadini della Federazione Russa, per trasferirsi. Ad oggi le principali comunità sono in Georgia, Armenia, Kazakistan, Serbia e Turchia, paesi di primo approdo, dove non è necessario il visto per i russi, ma diventati con il passar del tempo casa per moltissimi giovani e meno giovani in fuga. Sono numerose le vite ricominciate nuovamente a Tbilisi e Erevan, così come a Belgrado, Astana e Istanbul, con percorsi diversi; in molti casi si prova a mantenere una vita culturale simile a quella che ravvivava Mosca, Pietroburgo e le principali città russe, con lezioni aperte, concerti, mostre e momenti di socialità.
C’è spazio anche per la politica, ma questa appare ancora condizionata dal clima presente in Russia e, soprattutto, dalle difficoltà delle strutture dell’opposizione, divise per gruppi determinati non dagli orientamenti ma da legami personali, esperienze e antipatie comuni. Non una novità, già altre volte nella storia degli esuli si sono presentate dinamiche simili, nel caso russo però a far pensare è l’assenza di reali tentativi unitari basati su piattaforme politiche comuni, il più delle volte ci si trova a vedere comitati e organizzazioni autoreferenziali, incapaci di porsi come punto di riferimento dell’emigrazione e di agire da sua rappresentanza, oltre all’assenza di una riflessione su quanto avviene all’interno della Russia e su quali prospettive vi siano per il futuro. A complicare ulteriormente l’azione dell’opposizione in esilio sono i rapporti complessi con l’Unione Europea e gli Stati membri, quest’ultimi divisi su che tipo di relazioni avere con gli emigrati russi, spesso ritenuti corresponsabili della guerra in Ucraina.
Le fratture all’interno del campo antiputiniano si sono manifestate nel corso dei due anni e mezzo del conflitto, e in alcuni casi hanno avuto sviluppi particolari, con iniziative di gruppi marginali, come il Forum della Post-Russia, il quale ha ottenuto il patrocinio del gruppo dei Conservatori all’Europarlamento, o le attività di Ilya Ponomaryov, già deputato alla Duma, dal 2014 all’estero e ricercato dalle autorità russe, legato alla Legione Svoboda Rossii (Libertà per la Russia), nel corso del 2023 autrice assieme all’Rdk, il Corpo volontario russo, organizzazione d’estrema destra, di incursioni nelle regioni russe confinanti con l’Ucraina. Anche alcune dichiarazioni di esponenti antiputiniani di spicco come Mikhail Khodorkovsky durante il tentato colpo di mano di Prigozhin hanno contribuito a creare confusione: secondo il patron di Otkrytaya Rossiya (Russia aperta), si sarebbe dovuto agevolare la marcia degli uomini della Wagner verso Mosca per accelerare la caduta del regime. Una ipotesi velleitaria e senza alcuna base reale, come si è poi verificato.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Mikhail Khodorkovsky, dalla Yukos all’esilio passando per la Siberia
Ancora oggi Mikhail Khodorkovsky è una delle figure chiave dell'opposizione russa in esilio. Un tempo, uno degli uomini più ricchi della Russia e a capo della compagnia petrolifera Yukos, Khodorkovsky è diventato noto non solo per il suo successo economico, ma anche per i suoi dissidi con il presidente Vladimir Putin.
Dopo aver finanziato alcuni partiti di opposizione all'inizio degli anni Duemila e tentato di costruire una propria presenza nello spazio politico attraverso le risorse e le strutture di Yukos, Khodorkovsky è stato arrestato nel 2003 con l'accusa di frode e corruzione. La sua incarcerazione per dieci anni, dal 2003 al 2013, ha visto lo smantellamento dell’impero finanziario e industriale dell’oligarca, la sua (momentanea, come si vedrà) uscita di scena da una possibile alternativa a Putin e Medvedev; la liberazione, avvenuta il 20 dicembre 2013 con un provvedimento di grazia presidenziale su pressione del governo tedesco, vedeva un accordo non scritto tra Mosca e Berlino sull’astensione dell’ex prigioniero dall’attività politica.
A scompigliare però piani, promesse e intese (vere o presunte) è l’Euromaidan a Kyiv e le proteste in Ucraina. Dopo aver dichiarato di volersi dedicare ad attività filantropiche, Khodorkovsky si propone come mediatore nel conflitto crescente e interviene dal palco di Maidan Nezalezhnosti denunciando la propaganda russa; prova a recarsi a Donetsk per parlare con i manifestanti, ma si trova l’entrata del quartier generale dei futuri separatisti sbarrata: la sua presenza è sgradita. Il ritorno sulla scena politica avviene così sulla scia del nuovo scenario internazionale venuto a crearsi, e per anni nell’emigrazione è Khodorkovsky a essere la principale figura di riferimento, affermandosi anche su leader del passato come lo scacchista Garry Kasparov, andato in esilio anche lui nel 2013. Le capacità dell’ex oligarca, sia economiche che politiche, lo rendono nel periodo tra il 2014 e il 2022 uno dei possibili interlocutori di una futura Russia post-putiniana. Attraverso la sua Otkrytaya Rossiya/Open Russia, organizzazione che univa all’attenzione ai diritti umani una proiezione politica, Khodorkovsky ha provato a costruire una rete di sedi e attivisti all’interno della Federazione Russa, tentativi spesso perseguiti dalle autorità, con arresti, minacce e provocazioni. L’organizzazione è costretta all’autoscioglimento per le pressioni costanti e Andrey Pivovarov, a capo di Open Russia tra il 2019 e il 2021, viene arrestato con l’accusa di dirigere un’entità illegale per le leggi russe, per poi venir rilasciato nell’ambito dello scambio di detenuti avvenuto lo scorso 1 agosto.
Khodorkovsky e Navalny, un rapporto difficile
Le relazioni tra l’ex proprietario della Yukos e il blogger diventato figura prominente dell'opposizione russa all’interno del paese sono sempre state molto conflittuali. Alexey Navalny, conosciuto per le sue campagne anticorruzione e in grado di costruire un seguito importante tra le giovani generazioni a partire dalla metà degli anni Dieci, ha spesso criticato Khodorkovsky per i suoi legami con l'oligarchia del passato e per il modo in cui ha gestito la Yukos. Contestazioni di linea politica, perché in altre occasioni Navalny ha ricordato i consigli dell’ex detenuto su come comportarsi in prigione, ma entrate sempre più in uno scambio polemico, a cui hanno preso parte sostenitori di Khodorkovsky e del leader della Fondazione per la lotta alla corruzione (Fbk).
Vi sono state anche collaborazioni occasionali tra i due gruppi, con tentativi di coordinamento nel 2014, a cui ha fatto seguito una campagna unitaria di sostegno economico ai prigionieri politici l’anno successivo, ma a prevalere son stati i momenti di scontro, culminati con la denuncia degli anni Novanta come momento fondante dell’attuale sistema di potere russo, posizione esposta da Navalny in un testo dalla galera pubblicato nell’estate del 2023 a cui ha fatto seguito la serie documentaria in tre puntate Predateli (Traditori), curata da Maria Pevchikh, in cui Khodorkovsky è sul banco degli imputati assieme ad altri oligarchi protagonisti delle privatizzazioni selvagge durante la presidenza di Boris Eltsin. La replica dell’ex patron della Yukos alle denunce del detenuto speciale alludeva a un coinvolgimento dell’Amministrazione presidenziale con il fine di dividere l’opposizione, allusione respinta al mittente. Da parte dei critici di Navalny e della sua Fbk viene segnalata la poca disponibilità a convergere su programmi e iniziative unitarie, tacciando di leaderismo e di settarismo i sostenitori del politico, morto in prigionia lo scorso 16 febbraio.
Chi ha aggredito Leonid Volkov?
Dopo l’avvelenamento di Navalny nel 2020 e i periodici arresti dei coordinatori dei gruppi di sostegno sparsi per tutta la Russia, la Fondazione per la lotta alla corruzione si è spostata all’estero. A dirigere il lavoro in esilio è stato per lungo tempo Leonid Volkov, già consigliere comunale a Ekaterinburg tra il 2009 e il 2013, avvicinatosi a Navalny durante le proteste contro i brogli elettorali del 2011-12, e costretto a lasciare il paese nel 2019 per evitare di esser arrestato con l’accusa di riciclaggio di denaro sporco tramite i conti dell’Fbk, e all’estero assume il ruolo di coordinatore del lavoro internazionale della fondazione. Spesso al centro delle polemiche, sia sui social che dal vivo, Volkov è stato cruciale per lo sviluppo del network attorno alla figura del blogger a livello nazionale, contribuendo a consolidare il capitale politico di Navalny e a farlo emergere come figura di spicco dell’opposizione. Un lavoro non semplice, condotto anche senza badare troppo per il sottile, come dimostrano alcuni conflitti ormai in corso da anni con altri esponenti della galassia antiputiniana, tra cui Maksim Kats, attivista un tempo vicino alle istanze dell’Fbk e oggi tra i principali suoi critici.
Nella primavera del 2023 a travolgere Volkov è lo scandalo scoppiato attorno alla firma di una lettera a sostegno di Petr Aven e Mikhail Fridman, banchieri proprietari della holding Alfa-Bank, colpiti dalle sanzioni dell’Unione Europea adottate dopo l’aggressione militare russa all’Ucraina. La missiva, indirizzata alle autorità europee, aveva il compito di presentare la direzione di Alfa-Bank, tra i principali colossi finanziari russi, come estranei alle scelte politiche di Putin. La rivelazione della firma di Volkov è avvenuta a opera di Alexey Venediktov, già direttore della radio Ekho Moskvy (anch’essa caduta sotto la mannaia della censura russa), ritenuto fin troppo vicino agli ambienti governativi dall’Fbk, che aveva denunciato appalti e consulenze fornite dall’amministrazione cittadina al giornalista e a Ksenia Sobchak, altra figura di rilievo dei media russi non allineati. Volkov aveva inizialmente negato la sottoscrizione dell’appello, per poi dove fare dietrofront e dimettersi dalla direzione dell’Anti-Corruption Foundation dopo la pubblicazione di una copia della lettera con la sua firma nel canale Telegram di Venediktov.
Il 12 marzo 2024 Volkov viene aggredito sotto casa a Vilnius, l’agguato viene compiuto con un martello. Le indagini della polizia lituana si concentrano sulla pista che vede il delitto compiuto per ordine di Mosca, e anche Fbk inizia una propria inchiesta, intimorita dall’aggressione avvenuta a poche settimane di distanza dalla morte di Alexey Navalny. I risultati delle ricerche compiute dal pool guidato da Maria Pevchikh sono esplosivi, perché secondo la versione presentata non sono l’Fsb né il controspionaggio russo ad aver quasi ammazzato Volkov e ad aver eseguito altri attacchi a esponenti vicini, ma uomini pagati da Leonid Nevzlin, noto per le proprie posizioni antiputiniane.
Dopo l'arresto di Khodorkovsky, Nevzlin, stretto collaboratore del magnate e con interessi propri nella Yukos fuggì in Israele per evitare accuse simili. Diventato cittadino israeliano e proprietario di una quota del quotidiano Haaretz, Nevzlin ha mantenuto contatti con Khodorkovsky e ha continuato a sostenere le iniziative dell'opposizione russa, fino ad assumere posizioni molto radicali nei confronti non solo del Cremlino: dall’inizio della guerra in Ucraina frasi xenofobe all’indirizzo dei civili russi sono state pressoché comuni nel linguaggio social dell’imprenditore. Secondo la ricostruzione fornita dalla Pevchikh, il piano iniziale sarebbe stato di sequestrare Volkov e spedirlo in Russia per consegnarlo all’Fsb, versione ritenuta reale anche dai giornalisti Roman Dobrokhotov e Christo Grozev. A rendere ancora più complicata la vicenda è la presenza di figure degli ambienti criminali e dei servizi, dove denaro e motivi personali si fondono senza soluzione di continuità.
Leonid Nevzlin ha negato qualsiasi coinvolgimento, ma a nemmeno una settimana dalla pubblicazione dell’inchiesta di Fbk la procura generale polacca ha arrestato otto persone, tra cui l’avvocato Anatoly Blinov, già nel pool legale della Yukos e ritenuto persona di fiducia dell’imprenditore israeliano. Khodorkovsky ha dichiarato di credere a Nevzlin, a meno che “non sia impazzito”, ritenendo invece le accuse al suo “amico e partner d’affari di lunga data” una montatura organizzata dai servizi di Mosca. A rendere ancora più ingarbugliata la vicenda è la pubblicazione da parte di Maksim Kats di una lunga videoinchiesta in cui si accusa l’Fbk di aver ripulito la reputazione di Aleksandr Zheleznyak e Sergei Leontyev, già proprietari di Probiznesbank, istituto bancario fallito a metà anni Dieci: Zheleznyak lavora per Fbk.
Dov’è la politica?
Un’aggressione trasformatasi in un tentato omicidio, accuse di finanziamenti quantomeno opachi e reciproche denunce di collaborazioni, aperte o clandestine, con uomini degli apparati: lo scambio polemico dell’ultimo mese tra Fbk, Nevzlin, Khodorkovsky e Kats può essere riassunto in queste poche righe. Il danno d’immagine che emerge da queste vicende, però, è incalcolabile, perché agli occhi dell’opinione pubblica all’interno e all’esterno della Russia i protagonisti rischiano di apparire, a torto o a ragione, indistinguibili dalle lotte tra i vari clan presenti attorno al Cremlino. Soprattutto a esser particolarmente grave è l’assenza di programmi e prospettive, al di là delle formule spesso rituali, per la costruzione di un’alternativa al sistema di potere putiniano, e appare preoccupante notare come questo avvenga non solo per responsabilità di iniziative minoritarie legate a gruppi ininfluenti, ma anche per il clima di rissa presente tra i due principali schieramenti, rappresentati dai sostenitori di Navalny e da quelli di Khodorkovsky.
Se Navalny prima e l’Fbk poi hanno sottoposto a revisione e critica il passato recente della Russia contemporanea, individuando negli anni Novanta e nelle sue crisi le radici dell’autoritarismo odierno, questo processo di rottura non è avvenuto da parte delle altre strutture, che invece hanno reagito con fastidio, spesso mescolato ad aggressività, ad ogni discussione sul disastro politico e sociale dell’era eltsiniana, liquidando il tutto come ripetizione dei cliché della propaganda ufficiale del Cremlino. Appare però inquietante non vedere nessuna proposta per la riforma della struttura istituzionale della Federazione Russa, dove una costituzione iper-presidenzialista ha consentito la concentrazione di poteri ai vertici, con un ruolo minimo affidato alla Duma e al Consiglio della Federazione, e allo svuotamento dei rapporti con i soggetti federali (regioni e repubbliche).
Viene da chiedersi a tal riguardo se la carenza di analisi e alternative al riguardo non sia dovuta a un pericoloso desiderio di usare l’attuale assetto in futuro per propri scopi, qualora vi fosse la possibilità di accedere al potere, con la ripetizione di un dogma presente trasversalmente tra sostenitori e oppositori del regime sull’immaturità della società russa.
Nel corso del XX secolo, durante i rivolgimenti che portarono alla caduta dell’impero zarista e poi dell’Unione Sovietica, il tema della riforma radicale delle istituzioni, tramite l’Assemblea Costituente, i soviet o il Congresso dei deputati del popolo, venne posto con forza da chi agiva per il cambiamento; oggi sembra serpeggiare l’idea di poter gestire l’età post-putiniana con gli stessi strumenti che hanno portato alla situazione attuale.