Ucraina dopo un anno di guerra: unita e atomizzata allo stesso tempo, con un’unica vera domanda alla quale nessuno può dare una risposta. Per quanto ancora?
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È già passato un anno da quando il presidente russo, Vladimir Putin, ha ordinato la massiccia invasione dell’Ucraina. Quello che dal 2014 era rimasto un conflitto localizzato e, superata la fase calda del 2014-2015, quasi congelato, si è trasformato improvvisamente in una guerra feroce che ha coinvolto tutto il territorio del più grande Stato sul continente europeo (esclusa la Russia). Una guerra che ha ben presto assunto anche un carattere internazionale, sconvolgendo definitivamente gli assetti politici che si erano consolidati negli ultimi 30 anni.
Rimane impossibile ripercorrere tutte le fasi della guerra. Dalla chilometrica colonna dei mezzi militari russi a pochi chilometri da Kyiv, alla riconquista, da parte dell’esercito ucraino, della città di Kherson. Dalle previsioni di una vittoria russa in pochi giorni, al consolidamento e centralizzazione delle strutture dello Stato. Dai massacri di Bucha e Izyum all’assedio di Mariupol.
I numeri di questa guerra rimangono vaghi e non riescono a catturare tutto il suo dramma. Le guerre, in fondo, non sono fatte solo dai soldati. Non sappiamo con certezza (anche se le autorità ucraine parlano di oltre 140mila morti) quali siano le perdite della Russia. E abbiamo ancora meno informazioni, oltre a evidenze aneddotiche, di quante vite sia costata l’invasione all’esercito ucraino. Il numero delle vittime tra i civili, secondo le Nazioni Unite, ha superato 7.000 persone, ma in pochi hanno dubbi che questa cifra sia solo una frazione della realtà. Abbiamo per ora solo una vaga idea dell’impatto ecologico, devastante. E solo qualche stima preliminare dei costi economici che graveranno sul futuro del paese.
Quella in corso in Ucraina, però, è anche una guerra mediatica e mediata, in cui l’informazione e le immagini hanno giocato un ruolo centrale, forse più di molte altre guerre precedenti. Ed è proprio per questo che rimane difficile spiegare e capire la storia di quest’anno di guerra, incluso il suo impatto sulla società ucraina, senza prima guardare alla figura di Zelensky che in pochi giorni si è trasformato da ‘comico’ a ‘eroe nazionale’.
“Effetto Zelensky”
A rappresentare una differenza plastica e tangibile tra i due Stati coinvolti in questa guerra è sicuramente la differenza tra i loro leader. Una differenza che ha giocato un ruolo importante nella narrazione del conflitto. Oltre alla natura dell’ingiustificabile invasione russa e gli innumerevoli crimini commessi in Ucraina, anche la figura mediatica di Zelensky ha giocato un ruolo importante nel mantenere coesione interna e nel consolidamento (per un periodo probabilmente più lungo del previsto, cosa non scontata) di buona parte dell’opinione pubblica ‘occidentale’ nel sostegno all’Ucraina, senza il quale, è evidente, la resistenza sarebbe stata impossibile o quasi. Secondo alcuni recenti sondaggi, infatti, il 66% della popolazione europea (54% in Italia) vede la Russia come la principale responsabile della guerra, con circa 75% dei rispondenti (65% in Italia) convinti che spetti solo all’Ucraina decidere quando negoziare con la Russia. Il 61% infine crede che l’Ucraina vincerà la guerra (51% in Italia) e che il paese stia difendendo la ‘libertà e prosperità’ di tutto il continente (59% in Italia).
L’ascesa politica di Zelensky, infatti, non poteva essere più diversa da quella della controparte russa. Negli anni in cui Putin abbandonava le strutture dei servizi segreti (il KGB sovietico) e iniziava la sua carriera alla corte di Anatoly Sobchak, potente sindaco della San Pietroburgo degli anni 90, tra gang, potere e corruzione, Zelensky fondava con alcuni compagni di scuola ‘Kvartal-95 Team’, per partecipare alla competizione comica internazionale e show televisivo che in quegli anni era famoso un po’ in tutte le repubbliche post-sovietiche (KVN). Figlio di un professore universitario e di una ingegnera, Zelensky è cresciuto nella Kryvyi Rih degli anni 90, uno dei più grandi centri minerari del paese, fortemente russofono.
All’inizio degli anni 2000, quando Putin scalava le gerarchie dello Stato, diventando il successore nominato direttamente dal presidente uscente Boris Yeltsin, Zelensky metteva le basi di quello che negli anni sarebbe diventato un vero e proprio impero mediatico, trasformando Kvartal-95 in una casa di produzione. E mentre nel 2014 la Russia di Putin annetteva la Crimea e sosteneva direttamente e indirettamente il conflitto nel Donbass, Kvartal-95 produceva quello che è il suo prodotto più famoso, la serie televisiva Sluha Narodu nella quale lo stesso Zelensky ricopriva il ruolo centrale, quello di un professore di storia divenuto presidente.
Poi Zelensky presidente dell’Ucraina lo è diventato davvero nel 2019. Senza alcuna esperienza politica precedente, nei primi due anni alla guida del paese è sembrato ripercorrere le orme dei suoi predecessori. Acquisendo un controllo senza precedenti sul sistema politico grazie alla vittoria del suo partito (Sluha Narodu) anche nelle elezioni parlamentari, Zelensky ha lentamente disatteso le numerose promesse elettorali, circondandosi di amici fedeli ma con poca esperienza pratica nella gestione dello Stato, indebolendo gli organi preposti alla lotta alla corruzione, colpendo avversari politici come il presidente uscente Petro Poroshenko e finendo coinvolto nello scandalo dei Pandora Papers.
Nonostante questo, però, come sottolineano Olga Onuch e Henry Hale nel loro recente libro “The Zelensky Effect”, basato su anni di ricerca nel paese, la figura di Zelensky ha rappresentato una novità fondamentale per il definitivo consolidamento della ‘nazione civica’ ucraina. Zelensky, secondo gli autori, è il prodotto di una nuova generazione di ucraini, molto più distanti dalla memoria sovietica e dall’influenza culturale russa. Una generazione che non è solo impegnata nel dissolvere i legami politici e culturali con il vicino, ora più che mai, ma soprattutto di costruire e trovare una comune identità ucraina basata su idee e valori condivisi. A esemplificare l’importanza della figura di Zelensky, quindi, non è solo la sua capacità di attrarre voti tanto a est quanto a ovest (vedasi la geografia elettorale delle presidenziali del 2019), ma anche quella – mediatica - di portare un messaggio diverso dai suoi predecessori, basato sulla concezione civica dello Stato e sulla comprensione della sua complessa e variegata identità.
Come già dimostrato da numerosi studi, infatti, la classica immagine di un paese diviso tra est e ovest (che viene spesso letta anche, ancor più erroneamente, come una divisione tra filo-ucraini e filo-russi) non è solo datata, ma anche ingannevole. Un paese che negli ultimi decenni è diventato, lentamente, sempre più ‘ucraino’, dove l’ucrainicità è però intesa come autoidentificazione con la nazione civica e non etnica. Come sottolineano gli autori, la forza di Zelensky, un presidente russofono nato nel sud-est del paese, è stata proprio quella di dimostrare come “gli ucraini russofoni, inclusi quelli delle regioni orientali, potessero ora pienamente identificarsi con lo Stato ucraino… condividendo un destino comune che trascendeva diversità linguistiche, nazionali e religiose”.
In altre parole, le bombe russe hanno avuto l’effetto di consolidare tendenze che covavano nella società ucraina già da anni e che hanno alla base anche fattori demografici e strutturali, come un inevitabile processo di ricambio generazionale. Anche questo - “il fattore Zelensky” nel senso più ampio - aiuta a spiegare la resistenza della società ucraina nell’ultimo, terribile, anno. Non solo il suo consolidamento attorno alle istituzioni dello Stato (anche se i sondaggi in tempi di guerra vanno presi con le molle), ma anche il volontariato su base orizzontale che ha contribuito a mitigare, almeno in parte, le conseguenze sociali della guerra.
Tutto questo, ovviamente, non significa che non ci siano problemi e pericolose forme di nazionalismo etnico e identitario, tutt’altro. Piuttosto, che queste forme di estremismo e nazionalismo vadano collocate nel contesto di un paese in transizione e in guerra, e inquadrate nella loro reale proporzione. Non a caso, proprio i vari movimenti di estrema destra, sono stati quelli che, prima dell’invasione, avevano cercato di destabilizzare Zelensky.
La crisi demografica
La guerra, però, non ha solo avuto un effetto, spesso intangibile e difficile da misurare, sulla società ucraina. Le bombe russe hanno anche prodotto conseguenze ben più pratiche che avranno un effetto di lungo termine sul futuro del paese. L’Ucraina oggi è un paese colpito dal più alto calo demografico nel continente europeo. Secondo i dati riportati dalle Nazioni Unite, circa un quinto della popolazione pre-guerra si trova oggi fuori dai confini del paese. Più di 8 milioni di ucraini sono oggi rifugiati. Quasi 5 milioni di essi si trovano nei paesi dell’Unione Europea (Polonia e Germania su tutti), mentre poco meno di 3 milioni sono stati registrati in Russia, anche se non è chiaro se i dati si riferiscano all’afflusso di rifugiati dal 2022 o dal 2014. Per rendere l’idea del dramma umano, a questi numeri vanno anche aggiunti i più di 5 milioni di rifugiati interni che, a partire dal 2014 e soprattutto dal 24 febbraio scorso, hanno abbandonato il loro luogo di residenza per spostarsi verso Kyiv o altre regioni del paese.
Questi numeri, però, restituiscono solo un’immagine parziale della profonda crisi e delle sue drammatiche conseguenze. Considerando che uomini sotto i 60 anni non possono lasciare il paese, è stimato che circa l’85% dei rifugiati in paesi europei sia composto da donne (il 72% sotto i 60 anni di età). Non solo. Sempre secondo alcune stime, coloro che hanno abbandonato il paese hanno anche un livello di educazione più alto, con circa il 76% con istruzione superiore, paragonato al 30% del totale della popolazione. Infine, solo 4% era disoccupato (paragonato al 9% del totale pre-guerra). Considerando anche le tendenze demografiche precedenti alla guerra, con oltre 3 milioni di ucraini che avevano abbandonato il paese tra il 2011 e il 2021, e l’importanza della ‘migrazione economica’, le stime più pessimistiche parlano di milioni di persone che potrebbero non tornare più in Ucraina dopo la fine della guerra, con inevitabili conseguenze sull’economia e la stabilità sociale.
Campi di filtraggio, ‘traditori’ e il futuro impossibile
Il destino dei quasi 3 milioni di ucraini che hanno cercato rifugio in Russia rimane un altro capitolo triste di questa guerra. Rimane difficile sapere quanti di quelli finiti in Russia lo abbiano fatto davvero volontariamente. Anche se non è difficile immaginare, considerando i numerosi legami familiari, culturali e linguistici, che sono state numerose le persone che con l’inizio della guerra abbiano deciso di muoversi dalle regioni orientali verso la Russia, le sempre più numerose testimonianze parlano di trasferimenti forzati e ‘campi di filtraggio’. Cose che, come riporta Human Rights Watch (HRW), costituiscono di per sé crimini di guerra e contro l’umanità. Proprio il recente report di HRW è una delle testimonianze più complete che descrive il processo di trasferimento forzato che ha coinvolto centinaia di migliaia di persone durante l’assedio di Mariupol e della regione di Kharkiv. Un viaggio verso la Russia che include il passaggio tramite i cosiddetti ‘campi di filtraggio’ dove i rifugiati sono sottoposti a pratiche de-umanizzanti come perquisizioni corporali, raccolta di dati biometrici e interrogatori che possono durare giorni.
Una volta in Russia, molti cercano di spostarsi in paesi Europei, ma la maggioranza non può contare su risorse necessarie per intraprendere un altro viaggio, rimanendo cosi nel limbo e, molto spesso, finendo in regioni orientali del paese. Una storia poco raccontata, infatti, riguarda i numerosi volontari e attivisti russi, sotto costante pressione delle autorità, che da un anno cercano di fare quel che possono per aiutare i rifugiati ucraini a ricostruire una parvenza di vita o a sbrigare le pratiche burocratiche per abbandonare il paese.
Il destino di chi è rimasto nelle zone occupate, però, non è molto più semplice. Oltre alla distruzione causata della guerra, violenza e torture, vi è anche un difficile dilemma pratico e morale, la scelta di co-operare con le nuove autorità russe. In tutte le regioni occupate dopo il 24 febbraio, centinaia e migliaia di persone sono infatti tornate sul loro posto di lavoro, dagli uffici comunali, alla polizia, dalle scuole agli ospedali al piccolo business. Molti, si sono trovati a stretto contatto con le pseudo-autorità russe e in alcuni casi costretti ad aiutare a ristabilire l’ordine o a distribuire i beni di prima necessità alla popolazione locale.
A marzo il parlamento ucraino aveva modificato la legislazione introducendo il concetto di ‘collaborazionismo’. A rientrare nella categoria sono tutte quelle attività che minano la sovranità e l’integrità territoriale del paese, includendo il passaggio di informazioni, propaganda e co-operazione attiva con le istituzioni create dalle autorità russe sui territori occupati. Sebbene probabilmente inevitabile, dato il contesto, la legislazione rimane un punto piuttosto controverso, soprattutto per quanto riguarda la sua applicazione pratica. Fino a che punto le persone che hanno de facto aiutato con la loro attività gli occupanti a consolidare il loro controllo sul territorio come, ad esempio, i medici o i lavoratori comunali, rientrano in questa categoria? E, anche se nel testo si parla di ‘volontarietà’, come stabilire giuridicamente (e moralmente) quando una persona collaborava volontariamente o sotto minaccia?
Come dimostrano le numerose testimonianze (tra cui spicca per sensibilità l’eccellente reportage da Izyum di Joshua Yaffa per il The New Yorker) dalle città liberate dall’esercito ucraino la scorsa estate, non ci sono risposte facili. E mentre in città come Kherson e Izyum i servizi di sicurezza (SBU) hanno creato i propri centri di detenzione e ‘filtraggio’ per individuare i collaborazionisti locali (con tanto di canali Telegram ufficiali dove ognuno può fornire informazioni su presunti traditori), rimane impossibile non pensare che l’orrore di quest’anno di guerra sia anche questo. Un orrore fatto soprattutto di piccole storie, di persone che hanno vissuto per mesi sotto occupazione, di impossibili scelte personali guidate da mille motivazioni, come la sopravvivenza, “paura, simpatie pro-russe, opportunismo o la speranza di fare qualcosa di utile” per la comunità. Un orrore fatto di faide tra vicini e di continui sospetti, anche ora che la bandiera ucraina sventola di nuovo sopra quello che rimane dei palazzi governativi locali. Una società prodotto di un anno di guerra, unita e atomizzata allo stesso tempo, con un'unica vera domanda alla quale nessuno può dare una risposta. Per quanto ancora?