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Come è cambiata la Russia di Putin a due anni dall’invasione dell’Ucraina

26 Febbraio 2024 8 min lettura

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Come è cambiata la Russia di Putin a due anni dall’invasione dell’Ucraina

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Due anni dopo l’annuncio dell’avvio dell’operazione speciale militare, nome ufficiale dato dal Cremlino alla guerra contro l’Ucraina, le sensazioni sembrano contrastare quelle del primo anniversario, quando si riteneva pressoché certa la vittoria ucraina e si dava per scontato la riconquista non solo del Donbas ma anche della Crimea, annessa dalla Russia nel 2014. A distanza di dodici mesi, a queste previsioni se ne sono sostituite altre, dal tono identico ma di segno opposto, sul trionfo di Vladimir Putin nella guerra e sull’inevitabile precipitazione dell’Europa in un conflitto di scala ancor più mostruosa.

Si tratta di giudizi, però, basati sull’analisi di un momento e che non tengono conto di come di per sé la guerra sia un avvenimento dinamico anche in quei frangenti in cui sembra non accadere nulla al fronte, e dove vittorie e sconfitte non possono essere separate dagli sviluppi politici interni dei paesi coinvolti nei combattimenti. Anche la lettura di decisioni e di linee politiche attraverso le lenti dell’autolesionismo, dell’irrazionalità o della passione e del coraggio appare in grado di attirare l’attenzione del pubblico, ma spiega ben poco e confonde ulteriormente il dibattito su 730 giorni di distruzione, dolore, morte e disperazione.

Ucraina, due anni dopo l’invasione russa

La Russia entrata nel secondo anno di guerra è un paese molto diverso dal 2022, e questa diversità è evidente anche all’occhio meno attento, con la crescita esponenziale della repressione, sempre più forte e estesa, e una trasformazione generale dei rapporti all’interno della società. Se gli indicatori generali registrano non solo la resistenza ma anche dei progressi dell’economia russa, un esame più approfondito rivela una serie di dati che mostrano delle difficoltà di non facile risoluzione: secondo quanto dichiarato dallo stesso Putin, mancano due milioni e mezzo di lavoratori, spesso in posizioni di fondamentale importanza; il rincaro dei prezzi supera di gran lunga gli adeguamenti salariali e gli ostacoli posti nel commercio e nel settore bancario dalle sanzioni, spesso presentate come arma risolutiva e immediata del conflitto, rischiano ogni giorno di minacciare le triangolazioni predisposte per aggirare i divieti dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. 

I problemi legati al mondo del lavoro si riflettono in maniera eloquente nei disagi causati dai sistematici guasti alle infrastrutture dovuti alla carenza di personale, spesso arruolato nell’esercito, e ormai estesi anche in alcuni casi nel settore dell’IT, dove l’emigrazione per sfuggire alla mobilitazione parziale ha registrato livelli preoccupanti; inoltre le retate condotte dalla polizia, spesso affiancata da gruppi nazionalisti, dove lavorano gli immigrati, specialmente nel settore della logistica, aggravano un quadro già fosco, con la consegna della cartolina-precetto a coloro in possesso della cittadinanza russa e la detenzione per chi è senza documenti. 

Le diseguaglianze non sembrano diminuire nemmeno con le preferenze accordate al complesso militar-industriale, controllato in modo diretto e indiretto dallo Stato, e le annunciate “nazionalizzazioni” delle aziende straniere uscite dal mercato russo, come nel caso della Danone, si sono risolte nell’affidamento a nuovi manager, spesso legati a doppio filo con clientele e favori politici, che gestiscono questi asset da proprietari: a dirigere la filiale russa della multinazionale francese è Ibragim Zakriev, già sindaco di Grozny, capitale cecena, e nipote di Ramzan Kadyrov. 

Le sovvenzioni e i sussidi forniti ai combattenti e alle loro famiglie contribuiscono a creare una frattura tra i sostenitori della guerra e il resto della popolazione, in una promozione di una meritocrazia ancor più feroce della retorica sulla ricchezza e sul lavoro presente in Russia sin dagli anni delle privatizzazioni selvagge degli anni Novanta, quando una nuova classe dirigente e proprietaria emerse dalle macerie dell’esperienza sovietica attraverso un’accumulazione senza precedenti delle risorse industriali, minerarie e petrolifere condotta anche con il ricorso alla violenza indiscriminata di stampo criminale. Il ritorno dal fronte dei detenuti reclutati nei penitenziari con la promessa della libertà dopo 6 mesi sotto le armi ha creato le condizioni per un’esplosione senza precedenti dei reati, tra le denunce dei cittadini spesso vittime di violenze di ogni tipo, in alcuni casi con i primi tentativi di creare bande di ex commilitoni pronti ad agire in risse.

La morte di Alexey Navalny ha segnato questo momento di assestamento del potere dopo gli accenni di crisi avvenuti nella prima metà del 2023 di cui la marcia su Mosca di Evgeny Prigozhin è stata il culmine, e la mobilitazione, silenziosa e simbolica in Russia, ben più partecipata e rumorosa all’estero, testimonia la persistenza di un settore della società che non si arrende alla repressione e alla guerra.

Dopo Navalny

Il corpo del politico è diventato, anche da morto, strumento e rappresentazione della sua battaglia in vita, con l’iniziale volontà di non consegnarlo alla madre Lyudmila, per poi procedere  a nove giorni dal decesso, dopo una lunga e complessa contrapposizione con il Comitato investigativo della Federazione Russa in rappresentanza delle autorità: la netta contrarietà a esequie pubbliche è spia di un timore di possibili manifestazioni in ricordo di Navalny, e la minaccia, giunta venerdì 23 febbraio, di procedere alla sepoltura nel cimitero della colonia penale n. 3 di Kharp, al momento sembra esser sventata. 98.300 lettere sono state inviate nel corso di una settimana al Comitato investigativo da parte di cittadini russi, con una campagna avviata dall’Ong OVD-info, da anni in prima linea per i diritti degli imputati e contro la repressione, per chiedere il rilascio della salma alla famiglia, un elemento che indica come vi sia una disponibilità a far fronte per una causa ritenuta giusta, visto che le richieste devono essere firmate con i dati personali. Per i nove giorni dalla morte, come da tradizione ortodossa, sono state numerose le persone in varie città della Russia che hanno omaggiato la memoria del prigioniero politico, con preghiere, candele e fiori spesso rimossi a fine giornata dalla polizia.

Esiste un futuro per l’opposizione russa?

Come già analizzato a più riprese su Valigia Blu, gli anni Dieci sono stati il periodo di realizzazione delle strategie di controllo, censura ed emarginazione di tutto ciò che non era gradito al sistema putiniano: l’adozione della legge sugli agenti stranieri, volta a ostacolare (e poi eliminare) media e personalità critiche o invise al Cremlino; i provvedimenti presi contro la comunità LGBTQ, dichiarata poi organizzazione terroristica in una mossa solo apparentemente insensata, perché la larghezza della definizione consente un’applicazione arbitraria della misura; le persecuzioni nei confronti delle alternative politiche a tutti i livelli, da Navalny a organizzazioni locali come un piccolo circolo marxista di Ufa, bollate e condannate come strutture terroristiche. Una vera e propria guerra, prima che alle realtà associative, dell’informazione o a personalità, al pensiero altro, in dissenso anche minimo nei confronti della linea assunta da Putin. 

I casi di Igor Strelkov e del colonnello Vladimir Kvachkov, esponenti di posizioni all’insegna del nazionalismo più estremo e che rivendicano la mobilitazione totale della società e dell’economia del paese per vincere la guerra contro l’Ucraina, l’uno condannato a 4 anni di galera e l’altro sotto processo per vilipendio delle forze armate, sono emblematici su come la macchina repressiva non faccia sconti, e il suicidio del voenkor Andrey Morozov, sergente famoso per il suo canale Telegram Nam pishut iz Yaniny ("Ci scrivono da Giannina", chiaro riferimento al Conte di Montecristo di Alexandre Dumas), sottoposto a una campagna mediatica diffamatoria a cui ha preso parte il noto conduttore televisivo e volto della Z-propaganda Vladimir Solovyov per aver denunciato le ingenti perdite nella conquista di Avdiivka, è un ulteriore segnale della pressione a cui sono sottoposti persino i sostenitori più esasperati del conflitto.

La capacità di individuare e bloccare ogni tentativo, anche il più timido, di costruzione di uno spazio differente da quanto proposto dal regime si somma alle divisioni in seno all’opposizione all’estero, dove vi sono personalità in alcuni casi da anni in esilio e senza alcuna influenza all’interno della Russia, e a una visione esclusivamente di denuncia e di affermazione delle ragioni etiche e morali del contrasto al Cremlino. L’assenza di un lavoro, assai complicato, d’organizzazione di reti e di contatti nel paese, a differenza di quanto provato a fare da Navalny negli anni precedenti, e la mancanza di una discussione su quale potere per la Russia del futuro, costituiscono un ostacolo enorme ad ogni possibilità, presente e futura, di incidere nella società.

Nonostante le numerose iniziative di ogni genere convocate all’estero, come il Congresso dei deputati, formato in gran parte da ex consiglieri comunali e esponenti politici in esilio, il Forum della Russia libera o il Comitato contro la guerra, e temerari progetti di carte costituzionali alternative e appelli alla Commissione Europea, non appare chiaro come e chi dovrebbe contribuire attivamente alla rinascita della Russia: il tema della convocazione di un’Assemblea costituente per metter fine, nel caso di una transizione che dovrà avvenire a un certo punto, al sistema ultrapresidenzialista basato sulla legge fondamentale del 1993 voluta da Boris Eltsin e in seguito emendata da Putin, è totalmente assente. 

Vi sono però, assieme alle proteste silenti e simboliche, altri segnali di contrarietà alla guerra. È il caso di Put’ domoj, la strada verso casa, da semplice chat per raccogliere viveri e vestiario per gli uomini mobilitati a struttura orizzontale in grado di mobilitare mogli, madri, sorelle, figlie nel rivendicare il ritorno a casa dei propri cari e la fine della guerra. Gli appuntamenti lanciati prima sporadicamente e poi settimanalmente, di sabato, con la deposizione dei fiori ai monumenti ai caduti, hanno colto alla sprovvista le autorità e le forze di sicurezza,  e ad esser fermati e trattenuti dalla polizia son spesso i giornalisti dei media indipendenti, spesso basati su canali Telegram, che  seguono le donne, il capo coperto da uno scialle bianco, non si sa se per omaggio alle Madri di Plaza de Mayo o per indicare speranza e pace. Una testimonianza di vita e di lotta in un paese dove la notte appare sempre più buia. 

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Valigia Blu Live #ijf24 > Russia e Ucraina due anni dopo

Al suo terzo anno, l’invasione russa dell’Ucraina continua a spostare gli equilibri politici globali e impattare i tessuti sociali dei due paesi. Qual è la direzione intrapresa dalle élite politiche dei due paesi, e che impatto avrà sulle società ucraina e russa?

Nell'ambito dell'iniziativa Valigia Blu Live, Claudia Bettiol (corrispondente dall'Ucraina per Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa), Andrea Braschayko (giornalista tra gli autori del libro 'Ucraina. Alle radici della guerra', Maria Chiara Franceschelli (Scuola Normale Superiore di Pisa, co-autrice, con il professor Federico Varese, del saggio 'La Russia che si ribella'), Giovanni Savino (storico, si occupa di Russia e nazionalismi nell’età contemporanea presso l'Università Federico II di Napoli) interverranno il 21 aprile al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia nell’evento “Russia e Ucraina due anni dopo”.

Immagine in anteprima: Kremlin.ru, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons

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