Berlino, l’orrore della guerra in Ucraina esposto davanti all’ambasciata russa
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In seguito all’invasione russa in Ucraina, passeggiare per le strade di Berlino senza pensare alla guerra in corso è pressoché impossibile. Partendo da Alexanderplatz, si incontra il Rotes Rathaus, “municipio rosso”, una volta sede dell’amministrazione filosovietica di Berlino Est. Dopo la riunificazione della Germania tornò ad essere il municipio centrale della ricongiunta capitale tedesca. Oggi davanti ad esso sono posizionate, in fila, quattro bandiere ucraine, con una scritta all’ingresso: “Kyiv is the unbreakable heart of Europe” ("Kyiv è l'indistruttibile cuore dell'Europa"). Qualche centinaio di metri più avanti, nella celebre isola dei musei, l’Alte Nationalgalerie e il Pergamonmuseum sfoggiano al loro vertice la bandiera gialloblù. In generale, a ogni angolo si possono notare i simboli dell'Ucraina, sia sugli edifici pubblici che nelle abitazioni private; ci si imbatte in murales ucraini persino sulla parte posteriore del muro di East Side Gallery. È una situazione stridente rispetto alla realtà italiana, dove alcuni monumenti sono stati illuminati con i colori della bandiera ucraina nelle prime settimane dell’invasione, ma la vicinanza estetica e simbolica nelle città è presto svanita, così come la concentrazione mentale su una guerra scivolata nelle priorità quotidiane, e che ha lasciato spazio al logoramento e all’assuefazione.
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A Berlino c’è invece chi cerca di tenere viva l’empatia dei passanti ogni giorno. Tra loro ci sono Elvira e Olena, due attiviste ucraine incontrate poco prima di arrivare alla porta di Brandeburgo. Mi fermo, incuriosito dalla presenza di numerose fotografie della guerra in Ucraina ordinatamente sdraiate sul terreno tra i tigli della carreggiata centrale pedonabile dell’Unter den Linden. Testimoniano il prima e il dopo dei palazzi di Kharkiv, Mariupol, Kyiv, Kherson e Mykolaiv, e sono circondate da fiori e candele. Al di sopra delle foto sono appoggiati giocattoli e scarpette usurate, questi disposti in maniera disordinata. L’effetto è straziante, la prima immagine mentale è quella di una casa di civili tragicamente battezzata dall’ennesimo missile russo. La scelta del luogo non è casuale. Dall’altro lato della strada si erge l’unica bandiera russa rimasta a Berlino. Siamo di fronte all’ambasciata della Russia in Germania, il cui edificio era balzato agli onori della cronaca tedesca già qualche mese prima dell’invasione. All’ingresso della sede, un trentacinquenne accreditato come secondo segretario dell’ambasciatore russo era stato trovato senza vita, cadendo in circostanze misteriose dai piani alti del palazzo. L’informazione, inizialmente tenuta nascosta, era filtrata dal controspionaggio tedesco. L’ambasciata russa aveva chiuso il caso derubricandolo a “tragico incidente”, rifiutando l’autopsia richiesta dalla polizia tedesca – le leggi del paese ospitante non si applicano al territorio fisico delle ambasciate straniere.
Nei giorni successivi al 24 febbraio, dopo la decisione del presidente russo Vladimir Putin di procedere con l’invasione su larga scala dell’Ucraina, ci sono state diverse manifestazioni davanti all’ambasciata. Durante una di queste, un uomo russo “trasferitosi vent’anni fa da Mosca, e da anni critico verso l’imperialismo russo in Cecenia, Georgia e Ucraina”, racconta Olena, “era stato il primo a lasciare in mezzo alle panchine un mazzo di fiori, inginocchiandosi per chiedere perdono rispetto alla politica del suo paese”. Da quel momento Olena ha deciso, insieme ad altri quattordici attivisti, “per lo più tedeschi”, di presentarsi davanti all’ambasciata ogni mattina, riempendo quello di significato simbolico con le fotografie dei crimini di guerra compiuti dai russi. Da quel momento in poi, diversi i passanti si fermano a lasciare degli oggetti, contribuendo ad allargare il carico emotivo di questa installazione spontanea.
Olena è madre di due bambini, insieme ai quali si è ritrovata in Germania in seguito all’invasione, separati dal marito rimasto a Kyiv. La famiglia viveva fino al 2014 in Crimea, dove si era trasferita da Žytomyr ed era proprietaria di una piccola impresa. “Venuti a sapere della nostra posizione filo-ucraina, delle persone sconosciute, protette dai famosi omini verdi, entrarono nell’ufficio di mio marito” racconta Olena, e nel farlo sembra aver ormai superato qualsiasi legame emozionale con quel passato. “La nostra attività ci venne estorta, ovviamente senza alcun indennizzo, e mio marito mi comprò il primo biglietto disponibile per Kyiv, poiché aveva paura delle conseguenze del mio carattere ribelle in quel contesto”, conclude con amara ironia. Il marito l’ha poi raggiunta nella capitale ucraina, mentre sua madre è rimasta a Kerch anche dopo l’annessione russa della penisola. “Ha quasi ottant’anni, e cerca di parlare il meno possibile coi vicini, poiché è pieno di delatori”, spiega Olena.
Durante la prima parte della conversazione, Elvira ci osserva silenziosa, per nulla distratta. Spiega di non essere direttamente coinvolta nell’organizzazione del sit-in davanti all’ambasciata, quanto di essere, piuttosto, un aiutante “nelle faccende legali e pratiche quotidiane”, mentre ha manifestato in qualsiasi zona di Berlino dopo l’invasione. Lei in Crimea ci è proprio nata, nel suggestivo villaggio di Koreiz a strapiombo sul Mar Nero, nei pressi di Yalta. Per lo stesso tragico destino di Olena, tuttavia, aveva dovuto lasciato la sua terra nel 2014, trasferendosi coi genitori nella città di Dnipro. E così come Olena dopo l’invasione si è ritrovata Berlino, dove continua i suoi studi in Scienze internazionali e diplomatiche.
Entrambi i suoi genitori si trovano a Bakhmut, nel punto più caldo della guerra nelle ultime settimane. “Non hanno chiesto di stare insieme, sono semplicemente arruolati nello stesso battaglione territoriale. Mio padre è nell’artiglieria, già nel 2016 aveva combattuto da volontario in Donbas. Oggi è incaricato di maneggiare gli HIMARS, per intenderci”, spiega Elvira con gli occhi luccicanti forse più per l’ammirazione del coraggio paterno che per la semplice commozione. “Mia madre è un medico militare, e si trova qualche chilometro più lontano dalle zone in cui si combatte attivamente”. Le chiedo quanto regolarmente riesce a essere in contatto con loro. “Mi possono chiamare e mandare messaggi, ovviamente su linee cifrate”. L’anno nuovo – attorno a noi, nella piazza antistante la porta di Brandeburgo, vanno avanti i preparativi per il concerto di Capodanno – sarà il nono in cui non torna nella propria casa di origine, in quella Crimea “in cui il mare è stupendo ovunque” mentre rispondeva sorridendo a una domanda di Olena, che in quel momento cercava di ricordare il nome di una città in Crimea fornendo come primo indizio il bel mare. Nella penisola annessa dai russi, le misure contro i dissidenti come lei sono durissime: un giovane di origini tatare, mi racconta, è stato condannato a 25 anni di reclusione per aver semplicemente ricoperto di vernice gialloblù il muro di un’amministrazione cittadina, in segno di protesta contro l’invasione. Prima di presentarmi, avevo origliato Elvira e Olena lamentarsi, in realtà con ironia e noncuranza, rispetto a un passante che poco prima aveva cercato di provocarle verbalmente. “Spero almeno non fosse tedesco” aveva detto Olena. Domando quanto spesso capitino questo tipo di situazioni a Berlino. “A volte si tratta di russi filogovernativi scappati dal paese dopo la mobilitazione, e in Germania sono molti”, racconta Olena. “Più spesso si tratta di estremisti tedeschi, ma agiscono in maniera per lo più individuale e disorganizzata. Non ho basi sufficienti per stabilire la prevalenza di un credo politico rispetto all’altro”, e cioè se siano vicini all'estrema destra di AfD oppure all’estrema sinistra. Se le provocazioni fisiche durante il giorno sono molte ed eterogenee, la maggior parte delle azioni ostili che attaccano fisicamente l’installazione è infatti anonima, spesso gli attacchi avvengono di notte. Elvira e Olena mi fanno notare una delle bandiere ucraina stese sulle transenne che affacciano sul lato della strada in cui c’è l’ambasciata russa. Qualcuno aveva tentato di bruciarla, il lato sinistro è carbonizzato ma la bandiera è rimasta al suo posto. “Questo tipo di attacchi sta diventando molto frequente e ogni volta andiamo alla polizia per denunciare e capire di chi si tratta”, spiega Elvira. “Puntualmente ci rispondono wir werden lösen, risolveremo, ma poi per due mesi non si fanno sentire e ogni caso cade nel vuoto”, continua rammaricata. “Questo nonostante potrebbero teoricamente richiedere l’accesso alle registrazioni delle telecamere a 360 gradi dell’ambasciata per individuare i vandali, ma rinunciano anche solo a provare di fare chiarezza. Gli attacchi dei nostri confronti non sembrano essere una loro priorità”.
Elvira racconta però fiera di aver contribuito all’installazione di alcuni murales sull’altro lato del viale, dopo una lotta estenuante di tre mesi con il comune berlinese. Al fianco di quelli dedicati a Willy Brandt, raffigurano i volti di civili, pompieri e soldati ucraini. Le immagini sono separate da alcune scritte in giallo su sfondo blu in lingua inglese, fra cui “bravery is stronger then bombs” ("il coraggio è più forte delle bombe"). L’amministrazione comunale aveva negato a lungo l’autorizzazione. “Il loro timore è che la potenza di alcune frasi avrebbe potuto essere concepita come un affronto diretto all’ambasciata”, dice Elvira, “ma dopo le nostre pressioni hanno ceduto”.
Olena non sembra interessarsi molto alla politica interna tedesca, mentre Elvira potrebbe sciorinare qualsiasi dichiarazione di Scholz e dei suoi ministri dal 24 febbraio in poi. Sembra contrariata soprattutto della posizione ambigua sia del governo che di una parte della popolazione tedesca sull’invio di armi [invio che è stato poi annunciato a inizio gennaio - NdA]. “L’Ucraina ha chiesto al governo tedesco carri armati Leopard e sistemi di difesa aerea Patriot, ma il Parlamento continua a bloccare gli aiuti, rallentandoli drasticamente”. Descrive la situazione come paradossale: “dicono che per imparare a usare i Patriot ci vogliono dieci mesi di addestramento, ma se ce li avessero mandati all’inizio della guerra, i nostri soldati avrebbero già imparato e avremmo avuto uno strumento in più per proteggere i cieli dai missili russi”.
L’indecisione del governo riflette quella della popolazione. “I tedeschi sono riluttanti poiché sono consapevoli che gli armamenti a loro disposizione siano carenti, dopo che l’esercito è stato smantellato in seguito alla seconda guerra mondiale”, continua Elvira. “Tra la popolazione, sono tanti che preferiscono dichiararsi neutrali a priori rispetto a Russia e Ucraina, poiché non vogliono che la Germania entri attivamente nel conflitto”. Le parlo della situazione in Italia e del dibattito politico intorno alla guerra. “Sì, ho sentito della situazione in Italia, ed è triste. Ma non così diverso da ciò che accade qui”, risponde Elvira. “Ho conosciuto tantissime persone fantastiche che ci aiutano e continuano tutt’oggi a supportare, collaborando con noi. È altrettanto diffusa, tuttavia, una concezione semplicistica di pacifismo, i cui sostenitori sembrano volutamente non voler capire le esigenze dell’Ucraina in questa fase della guerra”.
Olena mi racconta che l’episodio più particolare è accaduto in pieno giorno, quando una signora russa si è prima avvicinata minacciosamente alzando la voce, e poi ha proceduto a strappare con veemenza gli striscioni e le bandiere appese tra gli alberi. Ripenso come, paradossalmente, l’intera installazione, davanti alla quale si fermano oggi migliaia di berlinesi e turisti ogni giorno, è nata da quell’uomo scappato da Mosca venti anni fa, mentre alcuni suoi connazionali vorrebbero far sloggiare Olena e gli attivisti. Chiedo a lei ed Elvira il loro punto di vista su un tema sempre più centrale nel dibattito pubblico ucraino: come relazionarsi ai russi quando la guerra sarà finita?
“Non li ritengo tutti uguali e spietati, è ovvio, soprattutto all’inizio molti russi si sono uniti alle nostre manifestazioni”, prende la parola Olena. “Una volta che tutto ciò sarà finito, però, dovranno pagare, in quanto società, per i crimini compiuti da un governo a cui non hanno saputo opporsi”. Nella sua semplicità, la sua risposta mi ricorda la distinzione di Hannah Arendt fra colpa, morale perciò individuale, e responsabilità, politica dunque collettiva. Riguardo le aspettative su un cambiamento in Russia, Elvira è pessimista: “ho poca fiducia in una transizione liberale e democratica in futuro, la storia russa sembra raccontare un eterno loop, in cui si passa da un tipo di autoritarismo a un altro”.
La preoccupazione più grande di Elvira, in quel momento, sono i fuochi di artificio alla vigilia della notte di Capodanno. Dopo poche ore a Berlino, mi ero già reso conto di quanto fossero popolari in Germania, specialmente fra i più giovani. “Per i rifugiati ucraini è un grosso problema, poiché le esplosioni fanno riaffiorare, in pochi istanti, i traumi sopiti e il ricordo dei bombardamenti”. Poco dopo la mezzanotte, scorro su Telegram le notizie delle raffiche di missili lanciate dai russi sulle città ucraine. Sulla schiena di un drone i russi avevano macabramente scritto “auguri di buon anno”. La mattina dopo, guardo le storie su Instagram dei festeggiamenti dei miei amici e tra di esse c’è anche quella di Elvira, con cui mi ero scambiato i contatti prima di salutare lei e Olena. Quando avevamo parlato di persona non si era lasciata toccare da nessuna emozione, nemmeno quando aveva parlato delle vicende più drammatiche della sua vita. Nel video si trova su un balcone, e riprende i fuochi sparati a Berlino la notte prima per festeggiare l’anno nuovo. L’immagine trema, così come le mani che reggono il telefono. Elvira cambia la videocamera da esterna a frontale, e inquadra il suo viso. Si vedono i suoi occhi in lacrime.