L’invasione in Ucraina apre la strada alla nuova guerra fredda in Africa
9 min letturaLa sintesi più chiara ed efficace sulla posizione del continente africano nel nuovo contesto mondiale scosso dall’invasione della Russia in Ucraina, l’ha data il sudafricano William Gumede. L’intellettuale, direttore di Democracy Works, ha detto: “È come se una nuova Guerra Fredda si stesse svolgendo in Africa, dove le parti rivali stanno cercando di ottenere influenza".
Le parti rivali sono - appunto - Russia, Europa, USA e relativi alleati e l’influenza di cui si parla è in realtà ricca di sfaccettature che vanno dalla politica allo sfruttamento economico passando da sostegni militari, aiuti e tentativi di persuasione. Dove i leader di una parte e dell’altra provano a convincere le controparti africane a non fidarsi e a sostenere invece le cause giuste.
Si è visto chiaramente durante la girandola di visite dei giorni scorsi. Protagonisti il ministro degli esteri russo, Sergey Lavrov; il presidente francese, Emmanuel Macron; il capo dell’Agenzia per lo sviluppo internazionale degli USA, Samantha Power (ospite in Kenya e Somalia), mentre sono state annunciate altre visite da parte dell’ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Linda Thomas-Greenfield (Uganda e Ghana)e del segretario di Stato, Anthony Blinken (Sudafrica, RD Congo, Rwanda). Macron (che è stato in Camerun, Benin, Guinea Bissau) ha attaccato apertamente la Russia per le sue mire in Africa, affermando che “Mosca sta tessendo una tela colonialista e imperialista in Africa così come in Ucraina”. Ricordandosi di sottolineare: “Parlo a un continente che ha subito entrambe”. Autocritica?
Quello che importa di più adesso – e in Africa risulta a tutti chiaro – è evitare che la Russia continui ad estendere la sua influenza nel continente. E la Francia sta cercando di farlo aprendo anche un processo di riconciliazione. È stato annunciato che ad ottobre vedrà la luce a Cotonou la Fondazione per l’innovazione e la democrazia e a guidarla sarà uno dei massimi intellettuali africani, Achille Mbembe. Un modo, evidentemente, di riportare le relazioni afro-europee su un piano di ideali e nuove condivisioni. La guerra fredda era stata anche questo: uno scontro di ideologie e di modi di vedere il mondo. Uno scontro che oggi ritorna, ma - oltre che allargato a nuovi attori - più pericoloso e con esiti che possono destabilizzare completamente le relazioni geopolitiche su cui finora era girato l’assetto mondiale.
Del resto anche Lavrov – che ha usato le visite ai Capi di Stato di Egitto, RD Congo, Uganda ed Etiopia per cercare garanzie del sostegno a Mosca - non ha usato mezze misure per lanciare i suoi strali contro l’Occidente accusato ripetutamente di avere ancora una “mentalità coloniale”. E per ribadire che “la crisi del grano non è colpa nostra”. Ma il peso della presenza russa nel continente africano non è proprio cosa di questi giorni. È da molti anni, ormai, che il Cremlino si è garantito una presenza strategica in Africa. E lo ha fatto con azioni ufficiali e condivise (come il primo vertice Russia-Africa ospitato a Sochi nel 2019) ma soprattutto passando da accordi bilaterali e contando su una presenza militare e di tipo securitario in cui continua però a negare il coinvolgimento. Come la presenza di gruppi paramilitari e mercenari impegnati a sostenere leader africani che vogliono contenere disordini e proteste nel loro paese e tenersi stretti al potere.
Andiamo con ordine. A Sochi il presidente Putin non solo chiarì lo spirito anti-colonizzatore dei rapporti tra il suo paese e quelli africani - "non parteciperemo a una nuova 'ripartizione' della ricchezza del continente. Piuttosto, siamo pronti a impegnarci in una competizione per la cooperazione con l'Africa" - ma sottolineò che lo sviluppo di tali relazioni sarebbe stato da quel momento in poi una priorità della politica estera del Cremlino. Un’ufficialità che segue di anni le manovre russe all’interno del continente, soprattutto di alcuni paesi e soprattutto nel campo della cooperazione militare. Già nel 2018 si contavano almeno 20 accordi bilaterali con altrettanti Stati africani. Accordi che riguardano addestramento, fornitura di armi, anti-terrorismo, assistenza per la sicurezza. Molti di questi paesi sono regimi autoritari ed alcuni, per restare al potere, come dicevamo, si sono avvalsi di truppe mercenarie che hanno finito per destabilizzare situazioni già critiche. È accaduto nella Repubblica Centrafricana, in Mali, nella Repubblica Democratica del Congo, in Etiopia, in Sudan, in Libia. E persino, inaspettatamente , in Madagascar. Una presenza che continua ad espandersi. In Burkina Faso, ad esempio, dove il colpo di Stato del gennaio scorso ha fatto piombare il paese in una profonda crisi. Ed è chiaro che presenze e supporti militari siano un modo per tenere i piedi ben saldi nel continente anche al fine di assicurarsene vantaggi economici. Non sempre acquisiti con mezzi leciti. Come nella Repubblica Centrafricana incredibilmente ricca di oro, diamanti e uranio, dove il supporto al regime di Bangui avrebbe assicurato l’accesso alle miniere o in Mozambico (Cabo Delgado, la provincia che ha visto aumentare negli anni la presenza di gruppi armati terroristici, ha la più alta riserva di gas naturale scoperta negli ultimi anni) dove il gigante russo del petrolio, Rosneft, si è assicurato lo sfruttamento di gas naturale in aree off-shore.
Recentemente le denunce si sono fatte ancora più circostanziate: come quella di depredare le miniere d’oro del Sudan per finanziare la guerra in Ucraina. E alla regia di queste operazioni – così come dello stretto legame tra Mosca e la giunta sudanese – c’è sempre lui, Yevgeny Prigozhin, l’oligarca russo alleato chiave del presidente Vladimir Putin. Pare che la Russia, secondo grande esportatore di armi a livello mondiale, dopo gli USA, stia cominciando a vedere gli “effetti” della guerra in corso nella riduzione e distruzione del suo enorme apparato bellico. Notizie dell’intelligence americana che ha tutto l’interesse a farle girare. È ancora presto per dire quanto questo inciderà sulle esportazioni di armi in Africa che, nel 2021, si calcolava fossero aumentate del 23% rispetto ai quattro anni precedenti confermando la Russia come il più grande esportatore di armi nell’Africa sub-sahariana.
L’influenza di Mosca in Africa intende passare anche dall’economia. Il commercio tra la Russia e i Paese africani dal 2015 si è raddoppiato, attestandosi oggi a circa 20 miliardi di dollari all’anno. Appena un decimo di quanto realizza la Cina, ma è solo l’inizio assicurano personalità della finanza con stretti legami con il governo russo. Ad allargare la strada del commercio e degli investimenti saranno contatti già in atto e nuovi progetti come quello che riguarda la realizzazione del Russian Export Center a Port Said vicino al Canale di Suez. Ma c’è un altro progetto che preoccupa l’Occidente: l’acquisizione (nel 2020) di una base navale in Sudan, ritenuta una pietra miliare nella strategia di Mosca in Africa. E mentre la giunta militare in Sudan assicura che le trattative rimangono aperte l’intelligence americana al contrario fa sapere che il piano si è arenato. L’interesse della Russia è anche concentrato sui porti di Berbera in Somaliland e Massaua e Assab in Eritrea.
E poi c’è il settore dell’energia destinato, nelle intenzioni della Russia di Putin, a dare grosse soddisfazioni. La Rosatom, principale azienda nazionale nel settore dell’energia nucleare, ha piani enormi in un settore che in Africa è terreno fertile. Tra questi la realizzazione di un impianto nucleare in Etiopia entro il 2029 (da utilizzare anche per fini medici, agricoli e di ricerca), un impianto da 1200 megawatt da 60 miliardi di euro in Egitto finanziato con un prestito russo e appena iniziato, un centro di scienze e tecnologie nucleari in Rwanda.
Stringere i legami con i paesi africani - siano essi di sostegno militare o promesse economiche – è fondamentale alla Russia anche per assicurarsi un sostegno in sede di voto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. In tale organismo l’Africa detiene tre seggi a rotazione, i cosiddetti A3. Negli anni passati le buone relazioni tra Mosca e i leader di quei paesi hanno garantito voti a sostegno dei suoi interessi. Per esempio - sottolinea Africa Center for Strategic Studies - nel gennaio 2019, quando il Consiglio di sicurezza considerò la richiesta di esponenti dell'opposizione nella Repubblica Democratica del Congo di condurre un'indagine sui presunti brogli alle elezioni presidenziali, l'A3 (Costa d'Avorio, Guinea Equatoriale e Sud Africa, all'epoca) si schierò con la Russia per arrestare l'iniziativa. Allo stesso modo, nell'aprile 2019, l'A3 sostenne gli sforzi russi per bloccare una dichiarazione di condanna del colpo di Stato in Sudan invocando il principio di non intervento. Nello stesso mese, l'A3 votò con la Russia per fermare una risoluzione voluta dal Regno Unito che chiedeva un cessate il fuoco in Libia e condannava le azioni del signore della guerra libico, Khalifa Haftar. Insomma, la Russia è stata in grado di utilizzare i voti africani al Consiglio di sicurezza per indebolire le voci democratiche e con obiettivi di riforma nel continente.
Scenari imprevedibili potrebbero inoltre aprirsi in Libia. L’incremento della presenza nel paese - dove sostiene il “governo di Tobruk” del Libyan National Army (LNA) e il suo comandante Khalifa Haftar - potrebbe in futuro garantire alla Russia l’accesso alle basi navali e aeree nel Mediterraneo orientale tale da minacciare i confini dell’Europa meridionale. Intanto, però, sta circolando anche la notizia che i mercenari operativi sul fronte libico potrebbero essere richiamati sul fronte ucraino. Altri fondamentali aspetti dell’influenza russa in Libia, ma anche nel Sahel – ricorda sempre l’Africa Center for Strategic Studies – è che questi siano snodi chiave della migrazione e delle rotte del traffico di esseri umani. La Russia quindi “ha la capacità di provocare crisi umanitarie e politiche per l'Europa sfidando allo stesso tempo le sfere di influenza storicamente europee (principalmente francese) in Africa”.
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Insomma, la Russia, dopo decenni di relativa assenza dal continente, è tornata prepotentemente in scena. Come sottolinea Paul Stronsky, ricercatore del Carnegie’s Russia and Eurasia Program , la posizione di rivendicazione di ambizioni globali non si è manifestata in nessun luogo in modo più visibile quanto “nei tentativi della Russia di tornare in Africa, un'arena abbandonato tre decenni fa, quando le ambizioni globali sono diventate un peso troppo grande da sopportare per un’economia, quella sovietica, che stava subendo una vera e propria disintegrazione”. Quella che allora era l'Unione Sovietica ha intrattenuto per decenni ampie relazioni in tutta l'Africa attraverso il suo sostegno ai movimenti di liberazione nazionale in Angola, Mozambico, Guinea-Bissau. Ha corteggiato regimi di sinistra come quello etiope. È intervenuta in conflitti interni, come quello dell'Ogaden, definito l’hotpost africano più pericoloso nel tempo della guerra fredda e dove si giocò anche il ruolo dell’altro superpotere dell’epoca, gli USA. Per non parlare del sostegno alla lotta anti-apartheid in Sudafrica. Pur essendosi allontanata per alcuni anni, ora la Russia può avvantaggiarsi dell’eredità che ha lasciato e che probabilmente vuole far conoscere alle nuove generazioni dando loro anche opportunità di stringere legami più stretti con il paese. Tra il 2010 e il 2018 il numero degli studenti africani nelle università russe è cresciuto del 130%, passando da 6.700 a 15.000. È aumentato anche il numero delle borse di studio. Il programma è di raddoppiare questo numero entro un paio danni.
Della crescita di influenza della Russia in Africa sono ben consapevoli gli Stati Uniti e l’Europa. I primi vogliono ora “rimediare” alla relativa assenza dal continente – corrispondente anch’essa alla fine della Guerra Fredda. Il presidente Joe Biden sembra impaziente – e lo ha sottolineato in una dichiarazione ufficiale – di ospitare l’US-Africa Leader Summit in programma dal 13 al 15 dicembre di quest’anno a Washington, facendo seguito al primo evento voluto da Barak Obama nel 2014. Prima, però, tra ottobre e novembre ci sarà il secondo summit (dopo quello di Sochi) tra la Russia e l’Africa.
Dal canto suo l’Europa sta rinnovando i rapporti con i leader africani - e anche le promesse. Nel 2019, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, scelse proprio l’Africa come prima visita fuori dall’Europa e sottolineò l’impegno dell’Europa a voler costruire una “partnership tra eguali”. Non a caso per il suo discorso scelse il quartier generale dell’Unione Africana ad Addis Abeba “casa – disse – di tutti gli africani”. E recentemente, in occasione del summit tra l’Unione Europea e l’Unione Africana (febbraio 2022) il comunicato congiunto ha assicurato una “rinnovata partnership” e un pacchetto di investimenti entro il 2030 pari a 150 miliardi di euro.
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E la Cina? Nel relativo “vuoto” lasciato in questi anni dalle grandi potenze il Dragone si è inserito prepotentemente. Finora non ci sono segnali che Beijin sia preoccupata della penetrazione russa in Africa. Per ora la sfida è con l’Occidente. Così come è stato fin dall’inizio. Sì, una nuova guerra fredda si sta combattendo sul suolo africano, ma a differenza di allora (a parte l’allargamento all’Europa e altre potenze, come la Cina o anche la Turchia – anch’essa con crescenti interessi nel continente) oggi i leader africani sono più forti, scaltri, preparati. E soprattutto più emancipati rispetto alle potenze occidentali di quanto fosse concesso a coloro che avviavano il cammino dell’indipendenza. Oggi, questi leader conoscono la forza e la misura della negoziazione. Alcuni la stanno usando a loro vantaggio, per rafforzare il loro potere, ma la maggior parte la usa per costruire il benessere del proprio paese. Lavorando con le altre potenze mondiali e con i loro rappresentanti sapendo di poter essere partner a pari livello. Non a parole, ma nei fatti.
Immagine in anteprima: Il summit Russia Africa a Sochi, in Russia, nel 2019 – South African Government, Creative Commons BY-ND, via European Council of Foreign Relations