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Le accuse di stupro e violenza sessuale contro Russell Brand: la punta dell’iceberg di un sistema che protegge i predatori

23 Settembre 2023 10 min lettura

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Le accuse di stupro e violenza sessuale contro Russell Brand: la punta dell’iceberg di un sistema che protegge i predatori

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È scoppiato un nuovo scandalo #MeToo nel Regno Unito. Al centro delle accuse per stupro e violenza sessuale, nonché abusi psicologici e lavorativi, Russell Brand. Comico, attore e conduttore, negli ultimi anni ricovertitosi a guru sui social, è stato accusato da quattro donne diverse, dopo lunghe indagini dei media.

Come per il caso Weinstein, è stato il giornalismo investigativo a mostrare le lacune del sistema, offrendo una sponda alle donne disposte a parlare. È partito tutto da un’inchiesta congiunta di Times, Sunday Times e di Channel 4, cominciata da segnalazioni che risalgono al 2019. Da allora i giornalisti hanno sentito centinaia di persone, verificato ampiamente le fonti, raccolto messaggi, email e documentazioni mediche. Un lavoro d’inchiesta di squadra per i cui risultati, ha spiegato  il Times, nessuna delle fonti è stata pagata. La specifica serve a prevenire le usuali insinuazioni su chi denuncia: “cerca soldi”, “cerca fama”. È anche per tutelarsi da queste accuse che le donne in questione hanno scelto l’anonimato.

La prima a parlare con i giornalisti è Alice. I fatti sono del 2006, quando lei aveva 16 anni e lui, già molto famoso, 31. La relazione, nonostante l’enorme divario di potere, è nata come consensuale (nei limiti del consenso di una giovanissima rispetto a un uomo adulto e famoso). Da subito, racconta Alice, è diventata apertamente violenta e controllante. Lui la istruiva su come mentire ai genitori, e nel frattempo si assicurava di tenere nascosto il rapporto, per esempio dicendole di salvare il suo numero con un nome diverso. Si riferiva a lei come a “la bambina” (the child). L’abuso psicologico diventa fisico quando, secondo il racconto di Alice, Russell Brand la forza a un rapporto orale con tale violenza che lei, dopo aver detto di no e aver rilevato con sgomento che quel “no” per lui non conta, per liberarsi è costretta a dargli un pugno nello stomaco.

Dopo lo scoppio dello scandalo, a BBC Radio Alice ha parlato anche della connivenza di chi, all’epoca, lavorava con Russell Brand. A venirla a prendere per portarla a casa del comico sarebbe stata proprio un’auto del servizio pubblico britannico, per cui Brand lavorava. Il management era complice ma preoccupato, e  aveva suggerito a Brand di tenere Alice nascosta o di presentarla, nel caso, come figlioccia o nipote. Per fortuna la relazione abusante dura pochi mesi. Non altrettanto breve il processo di guarigione dal trauma.

La seconda donna di cui parla l’inchiesta è Nadia. Secondo i giornali britannici sarebbe stata violentata da Brand nel 2012. Dopo aver detto di no a un rapporto a tre, per tutta risposta sarebbe stata abusata. A un messaggio in cui lei diceva a Brand quanto fosse sbagliato quello che ha fatto, e che “quando una ragazza dice di NO è no”, lui avrebbe risposto: “Very sorry”. Molte scuse, molto consapevole di quanto appena fatto.

Loro due non sono le uniche che hanno trovato la forza e la rete giusta per parlarne pubblicamente. La terza è Phoebe: secondo il suo racconto, lei e Brand stavano lavorando insieme, lui si è spogliato e l’ha buttata sul letto. Un altro caso in cui i “no” non sono stati ascoltati. Phoebe ha urlato così forte che, quando è uscita di lì, ha incontrato delle persone che le hanno detto di averla sentita e in seguito le hanno chiesto scusa per non essere intervenute.

C’è infine una quarta donna, e anche in questo caso le accuse sono di aggressione sessuale e abusi emotivi. 

Rispetto a quanto raccontato dalle donne e comprovato dai riscontri dei giornalisti, una puntualizzazione giuridica è necessaria per capire il diritto inglese e le sue differenze con quello italiano. “Rape è lo stupro che prevede la penetrazione, “sexual assault sono gli atti di natura sessuale non consensuale che non corrispondono a penetrazione. In Italia, l’articolo 609bis del codice penale li mette entrambi sotto il cappello di “violenza sessuale”. Inoltre l’età minima del consenso è di 16 anni.

Le differenze sono per lo più solo terminologiche, ma vanno conosciute, visto che l’ondata #MeToo è partita nell’ottobre 2017 sulla scia del caso Weinstein e raramente gli approfondimenti giornalistici si sono soffermati sulle divergenze tra i sistemi giuridici dei vari paesi. Eppure il diritto comparato in questo caso è fondamentale per capire i contesti di partenza. Il fatto, per esempio, che le denunce possano arrivare molto oltre un termine che qui, per le violenze sessuali, è di soli 12 mesi, è qualcosa che va saputo prima di saltare sulla sedia e dire: “Parlano sempre dopo tanti anni”. In Italia non è possibile e dopo un anno taci per sempre, ma in altri paesi si tiene conto della difficoltà di denunciare i reati sessuali.

Ma chi è Russell Brand? In Gran Bretagna e negli Stati Uniti è molto famoso, da noi un po’ meno: come detto all’inizio, negli ultimi anni si è riciclato come guru sui social. Parla di tutto, dal benessere alla guerra, e più precisamente coltiva un pubblico che diffida dei media e delle donne. Secondo la femminista Rebecah Boynton (che su Instagram si definisce “una persona, non un personal brand), Brand ha il complesso di Dio e stava “tremando dall’ottobre 2017”, aspettando che una o più donne uscissero allo scoperto; nel frattempo avrebbe usato i social per costruirsi un’audience ad hoc, pronta a mettere in dubbio i media nel momento in cui qualcuna avesse deciso che era il caso di rompere il silenzio. 

La reazione di Russell Brand sembrerebbe darle ragione. Quando è stato contattato dai media per poter dire la sua prima dell’uscita dell’inchiesta, la prima reazione è stata far sapere tramite avvocati di non poter replicare nel merito, dato che non conosceva l’identità delle accusatrici. Ma chiedere ai giornalisti di rivelare le fonti significa chiedere loro di violare la deontologia, col rischio di esporre le persone in questione al rischio di minacce e ritorsioni. La seconda reazione di Brand è stata un video e metterlo su YouTube, nel quale ha denunciato un complotto contro di lui. Nel video Brand si chiede, e chiede a chi lo segue, se non ci sia “un’altra agenda in ballo”. Si descrive come un personaggio scomodo, e parla dell’inchiesta come di una “litania di attacchi aggressivi”. 

La postura scelta è, ancora una volta, il vittimismo. Brand dice infine di non aver mai avuto segreti sulla sua vita sessuale “molto, molto promiscua”, “ma consensuale”. Tuttavia il fatto di parlare molto spesso del sesso che si fa non è una garanzia di onestà a riguardo. Ricordiamo in tal senso un libro splendido, Il consenso di Vanessa Springora, uscito un paio di anni fa per La nave di Teseo. La scrittrice racconta di una relazione abusante (lei aveva 13 anni) con un altro scrittore, Matzneff, che era solito scrivere libri sulla pedofilia in cui i ragazzini e le ragazzine risultavano provocare il protagonista, vittima assoluta del desiderio e di questi sporcaccioni. Springora parla anche della differenza tra quel capolavoro che è Lolita di Nabokov e i libri di Matzneff: c’è chi scrive per capire l’oscurità e le zone grigie, e chi scrive per giustificarle e giustificarsi. Tornando al nostro caso: nel video Russell Brand nega le accuse, chiamandole “litania” - come un piagnisteo - e “aggressive”, perché i piagnistei legittimi sono quelli degli uomini denunciati per stupro.

Le reazioni all’inchiesta del Times e di Channel 4 sono parte integrante del #MeToo britannico. Gli ex colleghi (tra cui quelli di Channel 4), hanno dichiarato che li faceva sentire dei pimp, dei papponi, perché ci si aspettava da loro che gli presentassero giovani donne. La BBC ha dichiarato di aver avviato delle indagini interne, anche se sono passati degli anni, per approfondire complicità denunciate dall’inchiesta, per esempio con la storia dell’utilizzo di una macchina della BBC stessa, con tanto di autista, per fini privati e predatori.

Anche Amnesty International si è mossa. Russell Brand aveva partecipato a due grossi spettacoli per loro, uno nel 2006 e l’altro nel 2012, e la onlus ha ritenuto di invitare le donne che erano a quegli eventi di beneficenza a parlare di eventuali comportamenti illeciti di cui potrebbero essere state vittime. Amnesty ha dichiarato inoltre di non avere rapporti in corso con Brand. 

Dalla pubblicazione della notizia su Russell Brand, il Times ha comunicato di aver ricevuto nuove segnalazioni da svariate donne, e che ora procederà rigorosamente con i dovuti riscontri. Nel frattempo, venerdì 22 settembre il Guardian ha scoperchiato il vespaio del mondo della commedia, in cui le comiche che hanno provato a chiedere aiuto ai colleghi hanno ricevuto l’equivalente del motto nostrano: e fattela una risata. Nell’articolo, insieme ad altre esperienze anonime, è scritto esplicitamente: “Ci sono dozzine di Russell Brand”.

Altre conseguenze della notizia, in questa prima settimana, hanno visto la polizia affermare che ci saranno “ulteriori contatti (dopo quello del 16 settembre, ndr) conl Sunday Times e Channel 4 per garantire che tutte le vittime di reato con cui hanno parlato siano consapevoli di come possono segnalare eventuali accuse penali alla polizia”. Tuttavia, nonostante la disponibilità esibita per quanto riguarda i reati sessuali la polizia britannica negli ultimi anni ha dimostrato di essere parte del problema. Si pensi ai dati allarmanti che sono usciti dopo l’uccisione di Sarah Everard da un poliziotto, dati che si possono confrontare in lingua originale qui e in lingua italiana nell’elaborazione di un articolo di Simona Gautieri per il Ticino, qui.

A parte i controlli della polizia, il ministro degli Esteri ha parlato con la BBC di pericoli che derivano dalle differenze di potere, segnalando come a rischio proprio il mondo dello spettacolo, del cinema e quello della politica. Un’analisi che - a differenza di quelle italiche degli ultimi tempi - lascia fuori lupi, mostri e alcol e, incredibilmente, parla dell’unica cosa che sostanzia gli stupri: un abuso di potere.

La compagnia di social media analytics Social Blade ha stimato che Russell Brand guadagnava circa 4000 sterline per ogni video postato su Youtube, dove ha 6 milioni e mezzo di follower. Da martedì 19 settembre non è più così. Youtube ha lasciato i video online, ma ha tolto a Brand la possibilità di guadagnarci sopra. Lui, comunque, si era già organizzato spostandosi sulla piattaforma Rumble, dove le policy sono più permissive. La piattaforma stessa sembrerebbe aver preso posizione, cavalcando le accuse di “cancel culture”, ma compagnie come Burger King - tra le altre - che hanno messo inserzioni su Rumble se ne stanno andando per paura di essere associate a Brand. Il quale, nel frattempo, ha pubblicato ieri un nuovo video che ha superato in poco tempo il milione di visualizzazioni, ed è molto difficile immaginare che possa definirsi “cancellato”: probabilmente non ha mai avuto una audience più ampia e internazionale di così.

Il Guardian riporta inoltre che la BBC ha tolto dalle sue piattaforme di streaming iPlayer e Sounds le collaborazioni con Russell Brand. Sempre martedì 19, la commissione che al Parlamento si occupa di cultura, media e sport, presieduta dalla conservatrice Caroline Dinenage, ha scritto a TikTok per sapere se permette ancora a Russell Brand di guadagnare dai video.

Vale la pena di notare che non sono le donne interessate dal caso a chiedere che l’accusato lavori di meno: sono piattaforme private (YouTube, in questo caso) o forze, in maniera esplicita o meno, conservatrici. Comunque, prima che chiunque parli di cancel culture o di complotti, un’informazione sarà dirimente. Il giorno delle accuse Brand ha ricevuto un messaggio di supporto da Elon Musk, proprietario dell’ex Twitter, ora X. Proprio su X il suo video intriso di vittimismo - in cui fa riferimento a “quando lavoravo nel mainstream” - è stato visto 69 milioni di volte. È stato sempre Musk, ieri, a invitarlo a usare X con un suo status. Se non è mainstream uno che ha dalla sua chi gli fa fare 69 milioni di visualizzazioni mentre dice che quattro donne e tre team di giornalisti sono dei bugiardi, è difficile definire cosa lo sia. 


Parlando di connivenze: la maggior parte dei colleghi comici ha taciuto o non ha voluto metterci la faccia. Uno ha parlato, però. Si tratta di Daniel Sloss che, prima che Twitter diventasse X, ha chiamato in quel modo uno spettacolo di stand up comedy incredibile, in cui sul finale parla dello stupro subito da una sua amica e lo fa con un’intelligenza, una sensibilità e un sense of humour superlativi. X è consigliatissimo e si trova gratis sul sito di Daniel Sloss. Il comico, che con quello spettacolo del 2019 aveva già preso la sua posizione, molto diversa dalla retorica #notallmen, l’ha rifatto in maniera più coraggiosa adesso. Davanti alle telecamere di Channel 4 Sloss ha dichiarato che sapevano tutti chi fosse Russell Brand. E che le colleghe si passavano la voce in chat di gruppo su WhatsApp di evitarlo, proprio per non incorrere nelle situazioni denunciate dall’inchiesta.

Ma è stata una donna la prima ad accusarlo davanti alle telecamere. Nel 2018, Brand partecipò al programma televisivo Roast battle, su Comedy Central, format che vede i comici invitati dirsele di tutti i colori. La collega Katherine Ryan lo affrontò a muso duro durante le registrazioni. È proprio dopo la prima stagione di Roast battle che Brand sembra essersi dato alla fuga dalle televisioni e ripensato guru sui social. 

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Katherine Ryan in questi giorni è stata contattata più volte dai giornali britannici e ha detto di non volere dire una parola in più di quelle che disse allora a Brand. Ha specificato una linea di condotta da seguire sul consenso, che esula dal sesso e riguarda le relazioni tutte, anche quelle lavorative e anche il giornalismo: «No è una frase completa». Non vuole dire una parola in più, anche perché quello che voleva dire l’ha già detto. L’anno scorso, in un’intervista col giornalista della BBC Louis Theroux ha dichiarato: “Nessuno ha perpetrato alcuna aggressione sessuale contro di me”. Semplicemente è successo che: di fronte a un sacco di persone, nel format dello show ho detto in faccia a questa persona che è un predatore”.

Insomma, very sorry Russell. Il #MeToo, nonostante le reazioni e quello che è stato definito post-machismo, sembra ancora vivo e vegeto. Ma se ci sono state donne che hanno avuto il coraggio di parlare, e giornalisti disposti a lavorare per anni dietro a voci e sospetti per far emergere i fatti, non bisogna dimenticare che storie di questo tipo si trovano di solito dietro un muro molto difficile da scalfire, fatto di complicità, intimidazioni, paura di ripercussioni legali e professionali. E a puntellare quel muro c’è anche la consapevolezza che, quando uno è al vertice, tutto sembra essergli concesso, anche gli abusi - o peggio. C’è un motivo se delle voci note in un certo ambiente rimangono tali per anni, ed è necessario capirlo per vedere le dinamiche di potere che proteggono i predatori. 

(Immagine in anteprima: grab via YouTube)

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