Cosa sta succedendo a Roma con i rifiuti
19 min letturaPuò un servizio pubblico interamente pagato dai cittadini fallire? A Roma è possibile.
Nei giorni scorsi, a soli tre mesi dal suo insediamento, il CdA di Ama, la partecipata dei rifiuti del Comune di Roma, si è dimesso. Si tratta del sesto CdA, nominato dall’amministrazione comunale stessa, a cambiare nell’arco di tre anni. A lasciare, dopo la comunicazione del direttore generale di Roma Capitale Franco Giampaoletti sull’impossibilità di approvare il bilancio 2017 di Ama, la presidente Luisa Melara, l'amministratore delegato Paolo Longoni e il consigliere Massimo Ranieri. A bloccare l’approvazione del bilancio 2017 della società partecipata, la partita, tutta politica, su 18 milioni di crediti vantati da Ama per servizi cimiteriali, realizzati dal 2012 al 2018, che il Comune non riconosce.
Intanto in città è scattato il pre-allarme sanitario. Medici e presidi hanno parlato di rischio emergenza sanitaria. «Siamo pronti a chiamare le Asl per verificare le condizioni igieniche delle scuole, anche per arrivare alla chiusura degli istituti», ha dichiarato Mario Rusconi, presidente dell'associazione presidi (Anp) del Lazio. Nel frattempo continuano le segnalazioni dalle Asl per i cattivi odori sprigionati dall’immondizia e non mancano avvistamenti di topi e cinghiali.
Cosa sono 18 milioni rispetto al fatturato annuale di Ama?
Lo stallo tra Ama e Comune è iniziato in realtà più di un anno fa, nella primavera del 2018, quando il Cda della società partecipata, allora presieduto da Lorenzo Bagnacani, aveva presentato all’approvazione un bilancio in attivo di circa 600mila euro, al cui interno c’erano anche i 18 milioni di crediti vantati per i servizi cimiteriali. Il documento contabile fu bocciato dal collegio dei revisori nonostante in un primo momento avesse ottenuto un parere favorevole.
Ma cosa sono 18 milioni rispetto al fatturato annuale per il servizio che sfiora i 700 milioni di euro? Per quale motivo il Comune non vuole riconoscerli? L’ammontare dei crediti vantati da Ama per il servizio di igiene urbana nei confronti di Roma Capitale è infatti pari a 641,9 milioni al 31 dicembre 2017 (263 milioni al netto dei debiti verso la controllante), secondo la relazione del Collegio Sindacale del dicembre 2018, che Valigia Blu ha potuto visionare (di cui mostriamo uno screenshot). Inoltre, come si può vedere consultando il Bilancio Ama 2016 e la relazione del Collegio Sindacale al 31 dicembre 2016 Ama vantava 900 milioni. Alcuni di questi crediti sono datati e ancora in corso di riconciliazione, altri evidenziano «posizioni incagliate», come i crediti per il contratto di servizio 2014, un ammontare di 104,4 milioni di euro, che Roma Capitale sostiene di aver già pagato ad Ama nel 2015.
18 milioni sono tuttavia sufficienti a far chiudere in rosso il bilancio di Ama. Almeno secondo quanto scritto dall’ex AD di Ama, Bagnacani, in un esposto ai pm in cui afferma che la sindaca Raggi avrebbe esercitato “pressioni” indebite su di lui e sull’intero Cda dell’azienda, “finalizzate a determinare la chiusura del bilancio dell’Ama in passivo, mediante lo storno dei crediti per i servizi cimiteriali”. «È un credito certo, liquido ed esigibile – insisteva Bagnacani in un’intercettazione pubblicata da L’Espresso – perché non devo metterlo a bilancio?». La risposta della sindaca Raggi: «Lo devi cambiare comunque anche se ti dicessero che la luna è piatta». Raggi dichiarò poi a Piazza Pulita di non voler approvare il bilancio perché la sua chiusura in attivo avrebbe garantito premi di produzione «a pioggia, anche se la città è sporca» per i dirigenti Ama. L’ipotesi fu smentita il giorno dopo dall’assessora all’ambiente Pinuccia Montanari, sentita da Roma Today: «Non ne vedono da anni, non c’entrano niente con il bilancio». Roma Today spiega infatti come nel 2014 l’allora presidente di Ama Daniele Fortini decise di mettere un freno ai premi di produzione collegati al bilancio. L’intercettazione pubblicata da L’Espresso è parte degli audio consegnati da Bagnacani alla Corte dei Conti. La procura ha aperto una indagine su possibili pressioni per la chiusura in rosso del bilancio 2017, chiedendone poi l’archiviazione per mancanza di riscontri.
Sul nodo dei crediti cimiteriali, a febbraio cadevano l’AD Bagnacani e l’assessore all’ambiente Montanari. Montanari, ricostruisce Il Corriere della Sera, si era schierata con il Cda e si era dimessa in polemica con il collega al Bilancio, Gianni Lemmetti. Bagnacani era stato licenziato con un’ordinanza in cui si «dubita dell’affidabilità» del manager, perché contrario ai «generali principi di correttezza e trasparenza».
A maggio la sindaca ha poi annunciato l’ingaggio di 5 ufficiali del Ministero della Difesa a capo di altrettante Direzioni di Roma Capitale. A dirigere il Dipartimento Ambiente il generale di Brigata Silvio Monti è durato un mese. A inizio agosto il CdA di Ama approvava un nuovo progetto di bilancio 2017, con una chiusura in rosso di 136 milioni, derivanti «in massima parte» dalla svalutazione di un immobile di Ama, il Centro Carni, comunicata dalla società di gestione del fondo immobiliare - il Fondo Immobiliare Sviluppo - a cui l’immobile è stato conferito nel 2014 per la “valorizzazione“. Il valore dell’immobile al momento del conferimento era calcolato in base a una destinazione d’uso diversa da quella attuale, ma in assenza di indicazioni da parte di Ama e del Comune di Roma sulla realizzabilità del progetto futuro, l’immobile è stato svalutato.
Il nuovo progetto di bilancio era però identico al precedente rispetto al nodo dei 18 milioni di crediti per servizi cimiteriali, inseriti in un fondo rischi ad hoc e fatti rientrare nelle perdite. Una soluzione che non è piaciuta al Campidoglio. A fine settembre c’è stato un rimpasto di giunta, ma senza l’indicazione di un nuovo assessore all’ambiente. E così il tavolo di confronto sui conti Ama previsto non c’è mai stato.
Le dimissioni del sesto CdA in tre anni e la corsa contro il tempo per evitare la crisi rifiuti a Roma
In questo contesto sono arrivate le dimissioni del sesto CdA di Ama in tre anni. A motivare le sue dimissioni, però, non è solo la questione dei crediti non riconosciuti, ma la mancata collaborazione tra Comune e la società partecipata, quasi si trattasse di un soggetto privato antagonista del settore pubblico.
«Il tema pertanto non è la posta di bilancio, peraltro assolutamente neutra rispetto al risultato dell'esercizio ed al Patrimonio Netto della Società, ma è assai più grave, e probabilmente più scomodo per la sua Amministrazione, e verte esclusivamente sulla assoluta inerzia e constata mancanza di una fattiva e concreta collaborazione con AMA per superare le situazioni di criticità riscontrate su più piani, come rappresentato nel Nostro documento del 22 maggio u.s. e durante i 104 di governo societario», si legge nella lettera di dimissioni del CdA di Ama, che costituisce un atto d’accusa politico gravissimo. «Sembra di percepire da tale incomprensibile atteggiamento da parte di Roma Capitale, e dalle sue stesse comunicazioni pubbliche, che la stessa Roma Capitale consideri AMA non una propria emanazione (come di diritto e secondo il buon senso è), bensì un soggetto privato antagonista del pubblico interesse con l'ulteriore paradossale considerazione che il denaro dato ad AMA sia sottratto dai fini pubblici» prosegue, durissima, la nota. In altre parole, con la sua inerzia, la giunta starebbe provocando il fallimento della sua partecipata sulla pelle dei cittadini romani che pagano la tassa sui rifiuti più alta d’Italia dopo Napoli, in totale assenza di un dibattito pubblico.
La gestione dei rifiuti della Capitale è attualmente affidata a un’ordinanza della Regione Lazio emessa il 5 luglio scorso, dopo l’ennesima emergenza rifiuti scoppiata a giugno in una città senza un assessore all’ambiente, con un gestore senza un piano industriale e gli ultimi due bilanci non approvati, mentre il piano regionale per i rifiuti sarebbe arrivato solo a inizio agosto.
L’ordinanza prevedeva una lunga lista di obblighi mai rispettati, tra cui l’approvazione dei bilanci 2017 e 2018, la stipula di ulteriori contratti e l’approvvigionamento di eventuali impianti mobili per far fronte alla carenza impiantistica romana. Ma, rispetto all’ultima determinazione del fabbisogno impiantistico anche la Regione – che, in base al Decreto Ronchi del 1997, ha il compito di programmare la gestione dei rifiuti, le tariffe e il fabbisogno impiantistico (mentre al Comune spetta far proposte per le zone) – è sembrata cadere dalle nuvole. L’ultima determinazione della Regione stimava infatti quantitativi di rifiuti da trattare e valorizzare tali da valutare gli impianti esistenti «sufficienti»: la realizzazione di nuovi impianti non sarebbe stata necessaria, si leggeva nelle conclusioni del documento, per l’aumento previsto della differenziata. Ma già prima dell’incendio del TMB Salario i fatti mostravano il contrario. La stima della Regione era diversa per quanto riguarda gli impianti di smaltimento dei residui di trattamento, giudicati insufficienti. Nonostante il mancato rispetto degli obblighi previsti, l’ordinanza è stata prorogata fino al 15 ottobre. Intanto, per far fronte alla situazione di emergenza aggravata anche dalla chiusura del TMB Salario dopo l’incendio dell’11 dicembre 2018, i rifiuti viaggiano verso Marche e Abruzzo e tornano nel Lazio per essere smaltiti. Ma dove?
Il nodo della perenne emergenza rifiuti romana è infatti la carenza impiantistica autonoma e autosufficiente, oltre a un parco mezzi vecchio (a giugno fra il 55 e il 60% dei mezzi era fermo in officina e i molti dei mezzi più grandi, su cui vengono scaricati i rifiuti, erano guasti). Gli impianti pubblici di Ama sono (o meglio erano, prima dell’incendio dell’impianto di trattamento meccanico-biologico del Salario scoppiato l’11 dicembre 2018) cinque e trattano solo un terzo dei rifiuti indifferenziati, l’8% della differenziata, e il 6% della frazione organica. Il resto e i residui del trattamento sono spediti in giro per l’Italia e all’estero (in Austria, Grecia e Portogallo), con una spesa di 40 milioni l’anno, secondo la Regione Lazio. La carenza impiantistica alternativa di Ama condanna la città a uno stato di emergenza perenne e al ricorso ai due impianti di trattamento meccanico biologico (TMB) privati di Manlio Cerroni, proprietario della discarica di Malagrotta, chiusa nel 2013. Cerroni è stato indagato per associazione a delinquere dedita al traffico di rifiuti. L’ultimo rinvio a giudizio gli è stato recapitato giusto un paio di settimane fa per il malfunzionamento degli impianti negli anni scorsi, ricostruiscono Fraschillo e Rizzo su Repubblica. Ma sarà ancora ai suoi impianti che il Comune di Roma si rivolgerà dal 15 ottobre, allo scadere della proroga dell’ordinanza regionale.
Il nuovo piano regionale dei rifiuti impone a Roma di dotarsi di una discarica di servizio. Finora il Comune si è opposto a nuove discariche e inceneritori. Solo a luglio la sindaca Raggi aveva escluso nuovi impianti di questo tipo e assicurato che Ama stava lavorando a un piano industriale credibile e solido: «C'è la volontà di uscire da una situazione di criticità determinata dalla chiusura della discarica di Malagrotta», aveva dichiarato la sindaca.
Poi solo tre giorni fa, dopo le dimissioni del Cda e l’esplosione della nuova emergenza Ama, nelle osservazioni sul Piano rifiuti spedite alla Regione, il Comune ha parlato per la prima volta di inceneritori e discariche. «Crisi presto finita», ha dichiarato la sindaca in un intervento alla “Festa degli alberi” alla scuola Leopardi, a Roma. Intanto, dalla chiusura di Malagrotta sono passati sei anni, dall’insediamento della sindaca ne sono passati tre. Cosa, esattamente, oltre ad annunci e proclami di obiettivi non realizzati, ha fatto questa giunta per chiudere il ciclo dei rifiuti a Roma, evitare il disastro e il fallimento di Ama?
La chiusura della discarica di Malagrotta e il piano della giunta Marino
Il 30 settembre 2013 chiudeva la discarica di Malagrotta, una bomba ecologica all’interno della riserva naturale del litorale Romano, di proprietà dell’imprenditore Manlio Cerroni e del suo consorzio Co.la.ri (Consorzio Lazio Rifiuti). L’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, a tre mesi dall’elezione, dichiarava la fine di un’epoca trentennale: «Chiude la più grande discarica d'Europa e stiamo impostando un processo per l'organizzazione del ciclo dei rifiuti che non permetterà più che Roma rischi di trovarsi in emergenza». L’Unione europea aveva ordinato la chiusura di Malagrotta entro la fine del 2007, con il divieto di conferimento di rifiuti allo stato grezzo.
La previsione errata – che si è rivelata praticamente un’utopia – è sempre stata quella dell’aumento talmente importante della differenziata da far funzionare il servizio senza la creazione di nuovi impianti per lo smaltimento dell’indifferenziata. «L’obiettivo di portare in sicurezza la gestione dei rifiuti si basava su due linee principali», spiega in un post l’ex sindaco Ignazio Marino. «Anzitutto: bisognava portare la raccolta differenziata al 70% entro il 2018». Se dal 2013 al 2015 l’aumento della differenziata è stato di 10 punti percentuale (dal 31 al 41%), dal 2015 al 2017 l’aumento si è fermato al 3% (dal 41% al 44%). Il 44,3% del 2018 è lontanissimo dall’obiettivo. Ma almeno c’era un piano.
«Il secondo asse fondamentale del nostro piano si basava sulla realizzazione degli “ecodistretti” – scrive ancora l’ex sindaco Marino – per la trasformazione in “prodotto industriale” di tutti i rifiuti raccolti. Per realizzarli, avevamo previsto oltre 300 milioni di euro di investimenti».
Con la delibera 52 del 26 settembre 2015, due anni dopo la chiusura di Malagrotta, Roma Capitale rinnovava l’affidamento del servizio di igiene urbana ad Ama fino al 2029 con un nuovo contratto di servizio, concordando un Piano Economico Finanziario per tutto il periodo, basato sulla stabilità delle risorse economiche necessarie. Sulla base del PEF 2015-2029 Ama aveva predisposto un Piano industriale pluriennale (2015-2018) che prevedeva la realizzazione di quattro ecodistretti per la lavorazione dei rifiuti differenziati e indifferenziati per raggiungere l’autosufficienza impiantistica e il massimo recupero dei materiali. L’obiettivo era riuscire a trattare la quasi totalità dei rifiuti di Roma, eliminando la loro spedizione su 160 camion al giorno in altre regioni d’Italia. Il piano individuava tre dei quattro siti per la realizzazione degli ecodistretti, con la conversione dei due TMB di proprietà pubblica. Il progetto di ampliamento del TMB di Rocca Cencia, osteggiato dai cittadini, è stato definitivamente bocciato a maggio del 2018 dalla Regione Lazio.
Tre anni di nulla
Appena insediata, la nuova amministrazione capitolina 5Stelle bocciava il piano per gli ecodistretti. Ama approvava un nuovo piano industriale – approvato dal CdA Ama ma mai arrivato in aula, secondo la consigliera comunale del Pd, Valeria Baglio. Il piano prevedeva tre impianti di compostaggio, uno per il multimateriale e la conversione dei due TMB in “Fabbriche di materiali” con un investimento di 111 milioni di euro. Per ottenere il documento di programmazione le consigliere Baglio e Piccolo hanno dovuto richiedere un accesso agli atti, recandosi di persona alla sede di Ama e minacciando l’intervento dei Carabinieri.
Nell’aprile 2017 la giunta Raggi presentava un nuovo piano operativo per portare Roma verso un’economia circolare e a rifiuti zero, senza la costruzione di nuovi impianti. «Non chiamiamoli rifiuti, ma materiali post-consumo» dichiarava l’allora Assessore all’Ambiente Pinuccia Montanari. Il piano era basato su azioni e progetti: la promozione dell’acqua del rubinetto e di pannolini riutilizzabili per neonato, il compostaggio domestico, l’utilizzo di stoviglie di ceramica nelle mense scolastiche, una Green Card, lo sviluppo di Centri per il Riuso Creativo, centri di compostaggio di comunità, l’adozione di un regolamento ecofeste. Ancora, estensione della raccolta domiciliare a tutta la città, isole ecologiche di municipio, domus ecologiche, servizi personalizzati e 120 “micro-compostiere di comunità”. Obiettivo finale, la tariffazione puntuale: meno produci, meno paghi.
Per risolvere davvero l’emergenza rifiuti della Capitale senza la creazione di nuovi impianti, il piano operativo del Comune, incentrato su azioni e progetti, avrebbe dovuto ridurre la produzione di rifiuti oltre il 75% in un anno perché, per ammissione dell’Ama, «già prima dell’incendio del TMB Salario gli impianti aziendali coprivano meno del 25% del fabbisogno di trattamento dei rifiuti raccolti nella città di Roma».
Ma di tutto questo non c’è traccia. La differenziata è ferma, il porta a porta è fermo al 2017, non c’è traccia di nuove isole ecologiche o centri di riuso, di tariffa puntuale, di impianti per la differenziata, secondo quanto rilevato a gennaio 2019 da Legambiente Lazio. L’unica novità sono i progetti per la realizzazione di «due impianti di compostaggio insufficienti per dimensione e mai discussi con la cittadinanza»» ha dichiarato il presidente di Legambiente Lazio, Roberto Scacchi. A maggio i due progetti vengono bocciati dagli stessi uffici comunali in sede di conferenza dei servizi perché le aree individuate per gli impianti erano soggette a vincolo di tutela paesaggistica. L’unica altra novità in tema di impianti era stata annunciata dalla sindaca Raggi dopo l’incendio al TMB Salario a dicembre 2018: un “repair caffè”. Ma il progetto, di cui gira un online un video, si scopre essere parte della tesi di laurea del 2006 di un ingegnere di Ama.
A spezzare il sogno di risolvere la carenza impiantistica con annunci di obiettivi di difficile realizzazione, il dato del 2018: i rifiuti sono aumentati. Il 3% in più, un incremento di 90mila tonnellate, per un totale di 1,74 milioni di tonnellate, con un costo per il Comune di ulteriori 30 milioni di euro rispetto allo stanziamento iniziale (ma applicando i costi unitari alle nuove quantità l’importo aggiuntivo sarebbe dovuto essere di 20 milioni), si legge a pagina 18 della Relazione 2018 sullo stato dei servizi pubblici locali dell’Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici locali di Roma Capitale. Altri 17 milioni sono stati aggiunti per l’incremento dei costi di trattamento dell’indifferenziata con l’aumento delle tariffe degli impianti TMB Co.La.Ri di Cerroni, applicato retroattivamente, deciso dalla Regione Lazio.
Due cose sono cambiate negli ultimi anni: Roma è più sporca e il costo del servizio di Ama è lievitato
Il piano di aumentare la differenziata per chiudere il ciclo dei rifiuti aveva motivato già dal 2012 la sottrazione di fondi al servizio di spazzamento, ridotto del 26% (-45 milioni) in 5 anni, dirottati appunto sulla differenziata: l’aumento della differenziata avrebbe dovuto ridurre la raccolta e i costi di gestione dell’indifferenziata, portando il ritorno di fondi sul servizio di spazzamento. Successivamente, grazie all’aumento dei ricavi della vendita dei materiali recuperati, sarebbero diminuiti i costi della differenziata. Ma senza impianti per la chiusura del ciclo dei rifiuti è avvenuto esattamente il contrario.
Dal 2003 (anno in cui Roma ha adottato il sistema tariffario) al 2016 il costo è più che raddoppiato, passando da 362 a 724 milioni di euro, per poi scendere a 713 milioni di euro fra il 2017 e il 2018. Il costo unitario del trattamento e dello smaltimento dell’indifferenziata è più che triplicato (dal 2012 è raddoppiato), nonostante i rifiuti siano diminuiti fino al 2018, mentre il costo unitario della gestione della differenziata è raddoppiato e i ricavi sono diminuiti, con una correlazione negativa fra investimenti e costi, si legge nel rapporto di marzo 2018 “Il settore di igiene urbana a Roma” curato dall’Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici locali di Roma Capitale.
A incidere, ha ricostruito Legambiente nello studio “Ecosistema urbano 2018”, le spese per lo Spazzatour. Infine, prosegue il rapporto dell’Agenzia, dal 2012 i costi comuni di Ama (costi di gestione non direttamente connessi all’esecuzione della raccolta rifiuti) sono aumentati del 58%, «una crescita che desta qualche perplessità, anche perché è indice di scarsa trasparenza in un contesto monopolistico in cui il Piano Finanziario dovrebbe essere lo strumento che evidenzia le risorse necessarie per svolgere un servizio finanziato integralmente dai cittadini.
Gli impianti sulla carta
Lo scorso gennaio Ama aveva annunciato le linee guida del nuovo piano industriale 2019-2023. Gli obiettivi strategici da realizzare con azioni abilitanti dovrebbero portare a una Ama to-be, player di riferimento nella Circular Economy (cultura “circular”, digital transformation, cost saving).
Almeno il piano modificava, allineandoli con la realtà, gli obiettivi per la differenziata: non più al 65% ma 50% per il 2019, al 55%, contro il 67% inziale per il 2020. Il principio cardine del nuovo piano industriale era l’autosufficienza impiantistica, in ottica circular. «Ci sono voluti tre anni per arrivare alla stessa conclusione da cui era partita la programmazione nel 2015» ha commentato a Valigia Blu Estella Marino, ex assessore all’ambiente della giunta Marino.
Nelle linee guida veniva annunciato l’obiettivo di 13 nuovi impianti: «3 impianti per il trattamento degli scarti organici, 3 per il trattamento di plastica e metalli, 2 fabbriche dei materiali in sostituzione dei TMB, 4 per materiali specifici e 1 per la vetrificazione degli scarti di trattamento», si legge nel comunicato stampa.
Il percorso si è però interrotto per la mancata approvazione del bilancio da parte del Comune, come ha spiegato a luglio l’ex Ad di Ama, Lorenzo Bagnacani, in una lettera pubblicata da Il Manifesto in risposta alle dichiarazioni rilasciate dal neo-consigliere Ama (dimessosi in questi giorni) Massimo Ranieri che parlava di un “bagno di realtà”: «Anche se arrivassimo al 70% di raccolta differenziata resta comunque un 30% di indifferenziato da gestire, e per questo servono impianti di smaltimento». Ovvero, una discarica o un termovalorizzatore.
"Un bagno di realtà"
Un bagno di realtà che era già nei numeri, ma ignorato negli annunci della Sindaca Raggi. Per coprire il costo del servizio, coperto dalla tariffa sui rifiuti pagata dai cittadini, i piani finanziari di Ama devono tenere conto della realtà. Ovvero la pianificazione del servizio dovrebbe garantire una riduzione del costo, eventualmente recepita, non fissata, nei piani finanziari. Ma in assenza di un progetto sono diventati i piani finanziari stessi documenti “programmatici”.
Vale la pena leggere questi documenti. Ama aveva presentato un piano finanziario 2019 (approvato nella delibera dell’Assemblea Capitolina n. 140 del 19 dicembre 2018) da 754 milioni di euro, 41 milioni in più rispetto al piano 2018 (713 milioni di euro), in virtù dell’aumento dei rifiuti nel 2018. Ma il piano approvato è di poco più di 714 milioni: sono stati tagliati, rispetto a quello presentato da Ama, 18 milioni per «minori costi di produzione rifiuti», 6 milioni per la differenziata, effettivamente ferma, e 19,6 milioni per efficientamenti previsti (ottimizzazione delle risorse interne). Efficientamenti che si sommano a quelli già conteggiati da Ama per 48 milioni: un totale di 67 milioni da risparmiare, senza un piano vero e proprio. Più che una previsione di spesa, il piano finanziario di Ama è un artificio per far quadrare conti «che non tornano», aveva commento la consigliera comunale Pd, Valeria Baglio.
Anche il nuovo contratto di servizio tra il Comune e Ama, approvato a maggio 2019, in linea di principio non calcola il costo del servizio in base al fabbisogno ma stabilisce un tetto massimo di spesa del costo a cui conformare il servizio. Ma, si legge a pagina 6 del parere dell’Agenzia, «l’obiettivo dell’efficientamento e della riduzione dei costi del servizio (art. 8, comma 3) senza alcun riferimento ai fabbisogni e ai costi standard e senza una contabilità analitica aziendale, comporta alcune incongruenze (riscontrate in vari incisi all’interno dell’articolato, che, tenendo conto delle risorse disponibili, sembrano attenuare le responsabilità dell’azienda circa i risultati che potrebbe conseguire) e soprattutto il rischio che il livello quali-quantitativo del servizio effettivamente erogato sia determinato dalla quantità di risorse impiegate e non da una programmazione certa». Il contratto di servizio approvato dal Comune ha in parte recepito le osservazioni dell’Agenzia, mantenendo però la dicitura “Fermo restando la disponibilità delle risorse economiche stabilite dai Piani Finanziari annuali”.
Fra i pochi suggerimenti non recepiti, scrive l’Agenzia, «quelli più rilevanti riguardano l’impegno richiesto a Roma Capitale di programmare (…) la realizzazione dell’impiantistica necessaria per la chiusura del ciclo dei rifiuti (…) cui dovrebbe corrispondere un impegno da parte di Ama a minimizzare il trasporto dei rifiuti».
Dove finiscono gli investimenti
Se il nodo di tutta la faccenda è la carenza impiantistica, nel piano finanziario 2019 non c’è traccia di investimenti in impianti ad eccezione degli strumenti e dei centri di raccolta. Dei circa 68 milioni di euro stanziati alla voce investimenti (sul totale di 714 milioni del piano), 15 milioni sono per domus ecologiche e centri di raccolta, il resto è per veicoli e strumenti di raccolta e beni immateriali. Almeno il piano 2018 ha interrotto il taglio di fondi per il servizio di spazzamento stanziando 4 milioni in più rispetto al 2017.
Ma come criticare la scelta dei mancati investimenti, del resto, quando le previsioni di investimenti contenute nei piani finanziari precedenti non sono mai state rispettate? Secondo la Relazione 2018 sullo stato dei servizi pubblici locali, «ogni anno sono stati approvati e finanziati in tariffa significativi incrementi di costo, giustificati con variazioni nell’organizzazione dei servizi, ambiziosi obiettivi di raccolta differenziata (mai conseguiti), nonché ingenti programmi di investimento - di cui buon parte riferita ad impianti - realizzati solo in minima parte». Dei 30 milioni di euro approvati per investimenti in impianti per il 2016 sono stati spesi 700mila euro. Dello stanziamento di 38 milioni in impianti per il 2017 ne sono stati spesi 16; 18,8 quelli spesi sul totale di 88 milioni previsti per il 2018 (80 secondo il PF 2019) – di cui solo due milioni per impianti, secondo la relazione del Collegio Sindacale (i bilanci Ama 2017 e 2018 devono ancora essere approvati).
Che fine fanno i fondi non spesi? Secondo l’Agenzia, sentita da Valigia Blu, gli investimenti coprono una spesa ammortizzata in più anni e gli importi dovrebbero essere reinvestiti ma, mancando una contabilità analitica di Ama, non è possibile sapere dove vengono ripartiti i fondi stanziati per gli investimenti in impianti mai realizzati.
La crisi romana dei rifiuti ci parla del fallimento di un settore pubblico privo di una guida, che finisce per favorire interessi privati,e del fallimento di una classe politica la cui attuale strategia di governo consiste nell’adozione di soluzioni emergenziali al posto di progetti. Quello che Roma sconta quotidianamente è l’assenza di visione, di strategia e di volontà politica nell’affrontare la questione degli impianti necessari a chiudere il ciclo dei rifiuti, una questione ambientale cruciale, che non si può delegare all’iniziativa individuale, per quanto virtuosa.
Le ipotesi più probabili circa un possibile movente dietro la volontà del Comune di Roma di far fallire Ama riguardano – secondo le opposizioni – lo strumento del concordato preventivo (che, spiegava in una lunga relazione il consigliere regionale del Pd, Eugenio Patanè, “consentirebbe al Comune di liberare risorse dal bilancio di Roma Capitale, alleggerendolo; di prendere tutti debiti della partecipata con un piano di rientro concordatario”), o il passaggio delle attività più redditizie ad Acea, la multiservizi che gestisce il settore idrico, partecipata al 49% da privati. La totale assenza di dibattito pubblico, trasparenza e partecipazione sul futuro di Ama, e dietro lo spettro del suo fallimento, è tra le cose più gravi che siano capitate a Roma negli ultimi anni. E la sindaca Raggi e la giunta attuale hanno grandi responsabilità.
Aggiornamento 8 ottobre 2019: Rispetto alla prima versione dell'articolo, è stato aggiunto un paragrafo che spiega quali sono le diverse competenze spettanti per legge a Regione e Comune dove si fa riferimento all'ordinanza della Regione Lazio e alla proroga al 15 ottobre: "L’ordinanza prevedeva una lunga lista di obblighi mai rispettati, tra cui l’approvazione dei bilanci 2017 e 2018, la stipula di ulteriori contratti e l’approvvigionamento di eventuali impianti mobili per far fronte alla carenza impiantistica romana. Ma, rispetto all’ultima determinazione del fabbisogno impiantistico anche la Regione – che, in base al Decreto Ronchi del 1997, ha il compito di programmare la gestione dei rifiuti, le tariffe e il fabbisogno impiantistico (mentre al Comune spetta far proposte per le zone) – è sembrata cadere dalle nuvole. L’ultima determinazione della Regione stimava infatti quantitativi di rifiuti da trattare e valorizzare tali da valutare gli impianti esistenti «sufficienti»: la realizzazione di nuovi impianti non sarebbe stata necessaria, si leggeva nelle conclusioni del documento, per l’aumento previsto della differenziata. Ma già prima dell’incendio del TMB Salario i fatti mostravano il contrario. La stima della Regione era diversa per quanto riguarda gli impianti di smaltimento dei residui di trattamento, giudicati insufficienti".
Immagine in anteprima via Piero Filotico