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Meno contenuti, più qualità: ripensare la gestione delle comunità online

5 Novembre 2015 5 min lettura

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Meno contenuti, più qualità: ripensare la gestione delle comunità online

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Il The Guardian ha pubblicato una guida che mira a ripensare in modo piuttosto radicale il community management a partire da un principio: pubblicare tanti contenuti di scarsa qualità non serve più a nessuno. Non serve ai mittenti, che non traggono alcun vantaggio dall'algoritmo che regola la rilevanza di ciò che appare sul nostro news feed di Facebook. Non serve ai destinatari, che sono bombardati da messaggi che arrivano contemporaneamente e da diverse piattaforme e hanno bisogno di trovare ciò che interessa loro davvero, in tempi brevi.

In quest'ottica, la notizia della riduzione di contenuti pubblicati  dagli utenti su Facebook nell'ultimo anno potrebbe non essere un indicatore di crisi, bensì di maturità. Lo scopriremo nei prossimi tempi.

La guida, realizzata da Jerry Daykin, offre sette consigli:

1) Less is more non è solo una scelta, è quasi un dovere

Il primo punto presente nell'articolo manda per aria alcuni totem del social media management sulla corretta quantità di pubblicazioni su una pagina Facebook e sull'eterogeneità nella produzione di contenuti. Daykin dice che un'azienda dovrebbe comunicare con i consumatori non più di due volte alla settimana e, quindi, non più di otto volte al mese. Inoltre un contenuto utile per i destinatari può essere pubblicato anche per più di una volta in un arco di tempo limitato, riducendo ulteriormente la necessità di produrre post originali. Unica eccezione a questa regola: la produzione di contenuti per nicchie particolarmente riconoscibili e motivate, che potrebbero gradire un'attivazione maggiore da parte dei mittenti.

2) I video sono potenti, ma se tutti li usano è più difficile farsi notare

I video hanno un grande potenziale sinestetico (attraverso un unico contenuto si possono far passare messaggi video, audio e scritti) e sono dunque la scelta principe per i social media, insieme alle foto che ancora oggi rappresentano la tipologia di contenuto a generare il miglior tasso di coinvolgimento. L'effetto-novità dei video, in particolare dei video caricati direttamente sulla piattaforma, è quindi rapidamente svanito e oggi siamo entrati nella fase opposta: ci sono video ovunque, anche non rilevanti per gli utenti.

Il semplice caricamento di un video non è dunque una garanzia di successo; serve una maggiore quantità di lavoro nella fase di progettazione. Il Guardian suggerisce l'utilizzo di animazioni per i video brevi, e di un racconto molto coinvolgente, sin dall'inizio del video, per i contenuti più lunghi.

3) Il miglior contenuto potrebbe provenire da un utente (e non da un comunicatore professionale)

Il cambiamento delle competenze necessarie per la gestione dei social media (meno importanza della forma scritta, più importanza della capacità di produzione di contenuti multimediali) rende meno efficaci gli stessi social media manager che solo pochi anni fa hanno ottenuto grandi risultati. Siccome non tutte le aziende e non tutte le agenzie di comunicazione hanno la possibilità di formare le risorse interne trasformando radicalmente e continuamente il loro set di competenze, è sempre più probabile che le idee migliori (e le capacità per realizzarle) siano più disponibili all'esterno del gruppo di lavoro che si occupa di comunicazione.
Per questo il Guardian suggerisce di trovare meccanismi chiari e stabili di crowdsourcing per migliorare la propria capacità di produzione di contenuti.

4) La 'conversazione online' non consiste semplicemente nella produzione di campagne che rendono più simpatico un brand

Il real-time marketing, le campagne in tempo reale mirate a migliorare la reputazione digitale dei brand, è certamente un punto di forza in una strategia digitale professionale e quindi non è in discussione l'utilità dell'adozione di questo tipo di approccio, soprattutto se c'è coerenza tra l'identità aziendale e l'argomento oggetto della campagna (in particolare se collegata a specifici fatti di attualità). Pensare che questo esaurisca il ruolo dialogico che gli utenti della Rete si aspettano dalle organizzazioni con cui interagiscono sarebbe però un grave errore, soprattutto se si pensa che fare "i simpatici" sia sufficiente a non affrontare le questioni più rilevanti poste dagli utenti online.

Il The Guardian suggerisce di tornare all'origine della parola "conversazione": rispondere alle richieste dei clienti, includere le loro idee nella strategia aziendale (o perlomeno nella strategia di comunicazione), e soprattutto fare tutto il possibile per impedire qualsiasi scivolamento negativo dell'immagine del brand legata alla mancanza di apertura e trasparenza.

5) La verità è sexy e continuerà a esserlo per molto tempo

"Marketing only works when consumers can easily attribute it back to something memorable". Questo è, e rimane, il centro di tutto, nonostante tutti gli elementi di scenario cambino velocemente. E senza coerenza, senza verità è davvero difficile consegnare "something memorable" ai protagonisti della nostra comunità digitale.

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6) Le aziende sono guidate dalle persone e non dai dati

Siamo senza dubbio nella stagione dei dati: non è mai stato così facile raccoglierli, ordinarli, sintetizzarli, rappresentarli graficamente. Sarebbe dunque folle continuare a prendere decisioni in totale assenza di un confronto con analisi quantitative (e qualitative, quando è possibile).
Eppure, come probabilmente molti professionisti della comunicazione avranno sperimentato nella loro esperienza lavorativa, esistono ancora tanti decisori che ritiene che il "fiuto" valga più dei dati, quindi è importante ribadire che chi pensa, oggi, di vivere di sola intuizione è destinato a imbattersi in errori macroscopici, soprattutto in un contesto che cambia così tanto rapidamente da rendere inutile la riproduzione automatica di buone pratiche sperimentate in passato.

Chiarito questo aspetto, bisogna però aggiungere altri due elementi alla riflessione: far coincidere il successo esclusivamente con la presenza di buoni indicatori quantitativi è rischioso, perché si rischierebbe di perdere di vista l'analisi qualitativa, i sentimenti profondi dei consumatori nei confronti del brand. Secondo, e ancora più importante: se si vivesse di soli dati, si rischierebbe di realizzare strategie di cortissimo respiro, totalmente schiacciate sulle reazioni contingenti. I cambiamenti profondi, invece, hanno bisogno di tempo e anche di qualche dolorosa scivolata durante la corsa verso il miglioramento.

7) Basta report troppo frequenti, basta report concentrati solo sul digitale

A che serve aver ottenuto grandi dati di engagement sui social media se l'azienda che sto comunicando non cresce né in fatturato, né in vendite, né in reputazione aziendale? A nulla, probabilmente. E allora a che serve fare analisi su base settimanale senza aver dato uno sguardo di insieme a tutti gli aspetti che si "muovono", online e offline, durante una campagna di comunicazione? Ha più senso invece realizzare report completi alla fine di uno sforzo strategico multimediale che tengano conto di tutti gli sforzi fatti sui singoli canali.
Il diradamento dei report (e il relativo aumento di complessità di questi ultimi) ovviamente non autorizza nessun social media manager a ignorare i feedback della rete (punto 3 e 4 di questa guida) e a raccogliere dati preziosi per valutare cambi di strategia (punto 6 della guida).

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