Perché la riforma della formazione docenti non piace al mondo della scuola
7 min letturaLa riforma del reclutamento e della formazione dei docenti, inserita nel decreto-legge n.36 sull'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (detto Pnrr 2), sta per diventare legge: dopo il sì del Senato, che ha approvato il testo con qualche modifica, martedì sera il decreto ha ottenuto il via libera anche alla Camera, con un voto di fiducia. Ora si attende solo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale. La riforma affronta due nodi cruciali per il mondo della scuola: il percorso che gli aspiranti docenti devono intraprendere per diventare insegnanti di ruolo, e la formazione che dovranno continuare a svolgere dopo essere stati assunti.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la riforma traccia il percorso che dovranno svolgere i giovani che intendono diventare docenti della scuola secondaria: l’iter prevede un diploma di laurea magistrale, un percorso abilitante di 60 cfu (crediti formativi universitari), il superamento di un concorso nazionale e infine un anno di prova con un test finale. I 60 crediti necessari per ottenere l’abilitazione (di cui almeno 20 di tirocinio con un docente-tutor) potranno essere conseguiti anche durante il percorso di studi, mentre i concorsi, che saranno programmati su base annuale, si svolgeranno con domande aperte, e non più a crocette.
La seconda parte della riforma, quella riferita alla formazione del personale assunto, è quella che ha suscitato più perplessità. Con la riforma si istituisce una formazione con accesso volontario - sviluppata su programmi triennali - ma “incentivata”: vuol dire che i docenti saranno retribuiti, ma non tutti: solo una parte dei professori che parteciperanno con successo ai corsi di formazione. Agli altri docenti, “è corrisposto comunque un compenso in misura forfettaria”. La formazione riguarderà “attività di progettazione, tutoraggio, accompagnamento e guida allo sviluppo delle potenzialità degli studenti, volte a favorire il raggiungimento di obiettivi scolastici specifici e attività di sperimentazione di nuove modalità didattiche”.
Anche per questo, verrà quindi istituita una Scuola di Alta formazione che, sotto la vigilanza del ministero dell’Istruzione, si occuperà di “coordinare la formazione in servizio dei docenti di ruolo [...] garantendo elevati standard di qualità uniformi su tutto il territorio nazionale”. L’aggiornamento professionale dovrà svolgersi all’infuori dell’orario di lavoro e finanziato con i fondi ricavati dal taglio delle cattedre previsto in conseguenza del calo della natalità. Il taglio della Carta del docente, che avrebbe dovuto finanziare la formazione continua, è stato sospeso in extremis: fino al 2024, il valore della carta rimarrà di 500 euro e non si abbasserà ai 375 previsti.
Intervistato su Corriere.it, il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha detto che si tratta di “una riforma molto importante di cui sono molto contento, perché pone il tema della carriera sulla formazione. La formazione iniziale è descritta in maniera molto chiara, limpida, con un percorso definito, accompagnato da concorsi annuali. E poi una formazione per tutti, dedicata soprattutto all’acquisizione degli strumenti del digitale. Quindi una formazione per tutti c’è ed è chiara. Una formazione incentivata e valutata. La valutazione riguarda tutti gli insegnanti, proprio sulle funzioni di sistema. Abbiamo stabilito che c’è una carriera attraverso anche il tutoraggio ai futuri docenti”. Bianchi aveva risposto alle critiche sollevate proprio dal Corriere della Sera con un articolo di Gian Antonio Stella, che sosteneva che per i docenti non ci fosse possibilità di carriera, se non per anzianità, e si chiedeva “perché mai un giovane brillante, innamorato della scuola, disposto a fare sacrifici che altri non farebbero, dovrebbe sentirsi attratto da un ambiente del tutto disinteressato ad assumere chi di più studia, chi di più si aggiorna, chi di più approfondisce le lingue straniere se a quello Stato, a quell’ambiente, a quella scuola interessano troppi singoli anonimi individui che potrebbero non dare mai neanche una briciola in più di quanto viene loro chiesto?”.
Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, in un articolo pubblicato su Repubblica il 17 giugno, esprime le stesse perplessità: se il testo ha il “pregio di dare un percorso definito a chi vuole diventare insegnante”, il difetto è che “per portare i migliori talenti all’insegnamento, non basta: bisogna formarli bene e selezionarli con serietà”. E, aggiunge, “creare le condizioni di un lavoro di prestigio sociale, nel quale chi si impegna e ha attitudine deve poter assumere maggiori responsabilità. Va capovolta la logica attuale: a un insegnante va chiesto molto e molto va dato. In primo luogo, una carriera che preveda crescenti compiti organizzativi e didattici al servizio della scuola e una crescita retributiva adeguata, legata all’impegno e alle capacità, non solo all’anzianità. Qui il decreto delude. Rinuncia di fatto all’obbligo di formazione continua per tutti (ma come pensare che un insegnante oggi non debba aggiornarsi?), né delinea alcun meccanismo di carriera”.
Anche docenti e sindacati non sono entusiasti della riforma. Il pedagogista Franco Lorenzoni, in un post pubblicato sulla sua pagina Facebook, ha sottolineato che “ancora una volta la formazione in servizio non è obbligatoria, non è finanziata adeguatamente, non diventa elemento costante dell’impegno lavorativo di tutte e tutti noi insegnanti, con conseguenti aumenti dei salari, che continuano a essere tra i più miseri d’Europa. La formazione iniziale “ha molti punti critici e, a differenza di ciò che è auspicato nelle direttive europee, non sono stati coinvolti a sufficienza gli attori principali di questo processo in una discussione partecipata ampia, come meritano scelte che riguardano la qualità delle nostre scuole, cioè il futuro di tutte e tutti”.
I sindacati di categoria il 30 maggio hanno organizzato uno sciopero generale per manifestare contro la riforma, e hanno sollevato critiche anche sulle modalità con cui si sono introdotte importanti novità per il mondo della scuola: con un decreto legge e non attraverso una riflessione collettiva. “Questioni così importanti non possono essere prese per decreto legge: il metodo è pessimo”, ha detto a Valigia Blu Rino Di Meglio, coordinatore del sindacato Gilda degli Insegnanti. “Ma tralasciando la forma, anche la sostanza non è di grande qualità. Di buono c’è l’intenzione di chiarire il percorso in entrata dei docenti e il concetto di puntare sulla formazione degli insegnanti. Ma tutto è molto confuso. Se la formazione è da considerare come parte dell’attività lavorativa, perché i docenti dovrebbero farla in maniera facoltativa, in orario extra lavorativo, e senza essere retribuiti?”
Il sindacalista è scettico anche sulla formazione della Scuola di Alta Formazione, “di cui si sa soltanto il costo dei presidenti e del direttore generale. Altro nel testo non c’è: non è scritto nulla di scientifico. Non credo che sia questo il modo di rilanciare la professione del docente”. La Scuola di Alta Formazione si occuperà di fornire le linee di indirizzo e accreditare le strutture che erogheranno i corsi e garantire elevati standard di qualità uniformi su tutto il territorio nazionale. Alla guida della Scuola ci sarà un Presidente nominato con decreto del presidente del Consiglio su proposta del ministro dell’Istruzione, scelto tra professori universitari ordinari o tra soggetti con competenze manageriali “dotati di particolare e comprovata qualificazione professionale nell’ambito dell’istruzione e formazione”. Il presidente guiderà un Comitato di indirizzo composto da cinque membri fra cui i due presidenti dell’Invalsi e dell’Indire e due componenti nominati dal ministro dell’Istruzione “tra personalità di alta qualificazione professionale”.
Ma al di là dei ruoli descritti, il progetto della Scuola di Alta Formazione è ancora fumoso. La stessa Indire, l’ente di ricerca del ministero dell’Istruzione che dovrebbe esserne direttamente coinvolta, non ne conosce i dettagli, e solo da due giorni ha una nuova presidente: dopo le dimissioni di Luigina Mortari, che aveva lasciato l’Indire ad aprile, è stata nominata come Presidente facente funzioni Cristina Grieco, già membro del cda di Indire.
Per Ivana Barbacci, segretaria generale della Cisl scuola, quella descritta dalla riforma è “una formazione fine a sé stessa, che non corrisponde a un disegno organico. Sono interventi fragili”, ha commentato a Valigia Blu. “Il taglio di 10mila docenti resta. Il calo della natalità non giustifica la misura: avremmo dovuto invece utilizzare gli eventuali posti in più per aumentare l’offerta formativa e superare i divari territoriali - aggiunge la sindacalista - e poi c’è il tema del reclutamento delle giovani docenti: noi siamo del parere che il percorso non debba essere costruito sulla base dei crediti formativi erogati dalle università. Gli atenei, soprattutto quelli del Nord, non hanno interesse a proporre questi percorsi, quindi prenderanno l’abilitazione soprattutto i giovani del sud. E continueremo quindi a non avere docenti al nord, dove ce n’è più bisogno. Per chi vive nelle regioni del nord, quella del docente non è una professione ambita, e questa riforma non inverte la tendenza”.
E sulla formazione successiva, quella da seguire una volta diventati docenti, Barbacci ritiene che non sia “finalizzata a nulla: è da intendere come un bonus, una tantum, ma non fa progredire i docenti dal punto di vista professionale. Quello che era descritto nel PNRR era invece un piano di formazione strutturato e programmato. Non credo che sia questo, il modello che ci chiedeva l’Europa. Questa riforma poteva essere veramente un’opportunità di rilancio del ruolo dell’insegnante, e invece è solo un’occasione persa”.
Anche secondo Carlo Mazzone, docente di informatica dell’Istituto Tecnico Industriale ‘Lucarelli’ di Benevento, la riforma non propone un cambiamento nel modo in cui si intende la formazione all’interno della scuola. “Non puntando su una formazione costante e obbligata, viene lasciato tutto alla singola iniziativa del docente. Ma la formazione dovrebbe essere a monte, per tutti - spiega a Valigia Blu - altrimenti singole innovazioni si inseriscono, isolate, in un contesto scolastico ottocentesco”. Mazzone è stato tra i 10 finalisti del prestigioso Global Teacher Prize, creato dalla Varkey Foundation in collaborazione con l’Unesco per premiare i docenti che hanno saputo introdurre una didattica innovativa. Per il docente, limitarsi a seguire dei corsi non vuol dire essere formati. “Non basta ascoltare una lezione, bisogna vedere poi se si è innovativi in classe. E questo può essere possibile solo coinvolgendo nel processo di formazione l’intera classe o scuola”. Il modello di formazione a cui guarda Mazzone, è quello dei progetti PON, i “Programmi Operativi Nazionali” finanziati dalla Commissione europea: progetti svolti all’interno delle scuole sulla base di proposte avanzate da docenti e poi realizzati all’interno degli istituti. “In questo modo si investe in progettualità reale: c’è la formazione per il docente, che deve investire su sé stesso per erogare il servizio, e allo stesso tempo si attiva un processo che coinvolge tutta la comunità e il territorio. Una formazione legata ai bisogni del contesto in cui si trova il docente, e non erogata da enti esterni”, spiega Mazzone.
Per il professore di informatica, quindi, togliere fondi dalla scuola (cattedre e taglio della carta del docente), per rimetterli nella scuola ma distribuendoli tra pochi, “non ha molto senso: così diventa una guerra tra poveri. Sono contentini che non cambiano la sostanza: quella del docente non è una professione attrattiva. Al di là del riconoscimento economico, è il ruolo sociale che va recuperato. Si deve investire realmente nella formazione e nei territori, perché quella è la vera materia prima che abbiamo: altro che gas ed energia, la scuola e la formazione dovrebbero essere la nostra ricchezza, e se non si investe in questi settori sarà tutto più difficile”.
Immagine in anteprima via thelondonschool.it