L’Italia attende ancora la riforma della legge elettorale
12 min letturaCade il governo, il presidente della Repubblica scioglie le Camere e il 25 settembre, con qualche mese di anticipo, l'Italia tornerà a votare per eleggere il nuovo parlamento. A mancare è però una riforma delle legge elettorale che pure ci si attendeva dopo la riduzione del numero dei parlamentari, decisa con la legge costituzionale del 2019 e confermata dal referendum del 20 e 21 settembre 2020. La legge elettorale, infatti, deve (cercare di) garantire che il diritto di voto dei cittadini si traduca nella corretta divisione dei seggi parlamentari e, proprio per questo, rappresenta il punto di tensione e di equilibrio di ogni democrazia.
A questa naturale complessità, in questo caso, devono peraltro aggiungersi le valutazioni e i correttivi derivanti dalla riduzione del numero dei parlamentari.
I correttivi necessari dopo la riduzione del numero dei parlamentari
La riforma costituzionale del 2019 ha previsto la riduzione del numero dei parlamentari: da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori elettivi, con una diminuzione di più di un terzo del totale dei componenti delle camere. Per quanto il dibattito sul tema sia apparso semplice, ai limiti del semplicismo, la riforma richiede diversi adeguamenti, sia rispetto al funzionamento del Parlamento, sia rispetto alla sua elezione.
Innanzitutto entrambi i rami parlamentari stanno provvedendo alla riforma del proprio regolamento: a Palazzo Madama è ormai calendarizzata in aula, mentre alla Camera è un po’ più indietro. La riforma dei regolamenti di Camera e Senato deve necessariamente arrivare prima dello scioglimento delle Camere e dell’insediamento del primo Parlamento a misura ridotta, per adeguare le procedure alla differente consistenza numerica dei senatori e deputati eletti.
Di fronte alla riduzione dei parlamentari, inoltre, ci si è chiesti se non fosse il caso di ridurre anche il numero di delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica: se infatti in passato il rapporto tra rappresentanti locali e parlamentari era di circa uno a quindici, con la nuova compagine parlamentare il rapporto diventa di uno a dieci.
Sul punto era stato presentato alla Camera un disegno di legge che avrebbe modificato l’art. 83 della Costituzione, adeguando la presenza dei delegati regionali alla nuova composizione parlamentare, così riducendone il numero per ogni regione (salvo la Valle d’Aosta), da 3 a 2. In Commissione Affari Costituzionali, tuttavia, questa intenzione di riforma è stata abbandonata: lo stesso firmatario l’on. Fornaro (LeU) ha evidenziato come una riduzione simile avrebbe di fatto impedito il principio di rappresentanza delle minoranze.
Nello stesso disegno di legge così emendato, approvato alla Camera e ora all’esame del Senato, è invece rimasta la modifica della base elettiva di quest’ultimo: proponendo la revisione dell’art. 57 della Costituzione, si intende superare la base regionale per l’elezione del Senato, passando a una base di tipo circoscrizionale. Ed è proprio sulle circoscrizioni che si è già provveduto a una riforma: con la legge delega 51/2019, infatti, il Parlamento ha dato mandato al Governo di ridefinire i collegi elettorali nei sessanta giorni successivi all’entrata in vigore della riforma costituzionale. Con il conseguente decreto legislativo 177/2020, quindi, sono stati determinati nuovi collegi uninominali e plurinominali, così da adeguare la legge elettorale vigente alla riduzione della composizione parlamentare.
Al momento, da un punto di vista puramente tecnico, non c’è bisogno di ulteriori riforme: la legge elettorale 165/2017, il cosiddetto Rosatellum con cui è stato composto l’attuale Parlamento, resta in vigore nonostante la riduzione numerica di deputati e senatori. Uno sguardo più attento sul contesto elettorale e sui delicati equilibri istituzionali, oltre che sulle anomalie normative degli ultimi anni, impone tuttavia ulteriori riflessioni.
Il Rosatellum: com’è nato e come funziona
Il Rosatellum prende il nome dal suo relatore, Ettore Rosato, eletto con il Partito Democratico e ora capogruppo di Italia Viva. La legge fu votata da una maggioranza larga che comprendeva anche Forza Italia, la Lega e i gruppi capitanati da Angelino Alfano e da Denis Verdini.
Il Rosatellum delinea un sistema elettorale misto, che è stato già applicato per le elezioni politiche del 2018. Circa tre ottavi dei seggi sono assegnati con un sistema maggioritario tramite collegi uninominali: per ogni collegio ottiene il seggio il candidato più votato. La restante parte dei seggi è invece assegnata con metodo proporzionale, purché sia superata la soglia di sbarramento, differenziata tra singole liste e coalizioni: per accedere alla ripartizione dei seggi una lista deve arrivare almeno al 3% dei voti validi a livello nazionale, mentre per le coalizioni la soglia è pari al 10% dei voti validi a livello nazionale, purché almeno una lista della coalizione abbia raggiunto il 3%.
Il funzionamento di questa legge elettorale richiama il Mattarellum, che ha segnato le elezioni politiche degli Anni Novanta e dei primi Anni Duemila con un sistema misto, a prevalenza maggioritaria, mitigato però da un meccanismo di riequilibrio che è invece assente nell’attuale sistema elettorale: lo scorporo.
Lo scorporo consisteva nel sottrarre, per la ripartizione della quota proporzionale, una parte dei voti ottenuti nei collegi uninominali dagli eletti collegati alle liste stesse (ossia il numero di voti ottenuti dal secondo classificato aumentato di uno). L’assenza di questo meccanismo nel Rosatellum amplifica l’impatto dei seggi ottenuti nei collegi uninominali, alterando la ripartizione dei voti per la quota proporzionale e ponendo dubbi di costituzionalità, alla luce di quanto emerso dalle due sentenze della Consulta sulle due precedenti leggi elettorali, la legge 270/2005 e la legge 52/2015, meglio note come Porcellum e Italicum.
Non si può tralasciare il fatto che il Rosatellum fu presentato come la legge elettorale necessaria per uscire da uno stallo istituzionale su cui lo stesso presidente Mattarella aveva manifestato preoccupazioni. Il sistema elettorale in vigore nel 2017 era infatti il risultato di una serie di decisioni, politiche e giurisprudenziali, che si erano sedimentate nel cosiddetto Legalicum, privo di sistemi omogenei nell’elezione delle due Camere. Ma è il caso di fare un passo indietro e di seguire la cronologia repubblicana delle leggi elettorali.
Dalla Prima Repubblica al Mattarellum: questione di legge elettorale
Senza addentrarci troppo nei tecnicismi, sia per l’Assemblea Costituente che, in seguito, per il Parlamento fu previsto un sistema elettorale proporzionale. Questo è rimasto fino al 1993 con la legge 29/1948, per il Senato, e con il D.P.R. 361/1957, per la Camera, entrambi tuttora in vigore, pur con molte modifiche che hanno cambiato di fatto il sistema elettorale.
Tra il 1946 e il 1993 l’unica parentesi degna di nota, seppur priva di effetti elettorali, fu la legge 148 del 1953, soprannominata “Legge Truffa”, su cui il governo De Gasperi pose la questione di fiducia (come avvenuto di recente sia nel 2015 per l’Italicum, sia nel 2017 per il Rosatellum). Pur mantenendo il sistema proporzionale, la legge prevedeva un premio di maggioranza: qualora una lista o una coalizione avesse raggiunto il 50%+1 dei voti validi avrebbe ottenuto il 65% dei seggi. Nessuna lista (e nemmeno la larghissima coalizione tra Democrazia Cristiana, Partito Socialista Democratico Italiano (PSDI) e Partito Repubblicano) ottenne la maggioranza assoluta e quindi il meccanismo non scattò: la legge fu poi abrogata l’anno successivo, senza di fatto aver mai trovato applicazione quanto all’innovazione del premio di maggioranza.
Dopo poco più di quarant’anni di proporzionale, emersero diverse proposte in favore di un sistema maggioritario, proposte che culminarono nel referendum del 1991 che, pur relativo a un quesito sul numero di preferenze esprimibili (un’unica preferenza invece di tre), sembrava segnalare un interesse popolare nella modifica del sistema elettorale. Due anni dopo, nel 1993, si arrivò quindi al citato Mattarellum, un sistema misto a prevalenza maggioritaria con una quota proporzionale e un meccanismo di scorporo tra l’una e l’altra.
Fin qui, lo scenario non pare troppo complesso, visto che fino al 2005, in sessant’anni di storia repubblicana, c’erano stati tre sistemi elettorali: il proporzionale più o meno puro, la parentesi (elettoralmente ininfluente) della legge truffa, il sistema misto del Mattarellum. Negli ultimi diciassette anni, invece, i sistemi elettorali sono stati ben cinque.
L’anomalia delle regole del gioco incostituzionali: dal Porcellum all’Italicum
Nel 2005 viene approvata la legge 270, definita qualche mese dopo, dal suo stesso relatore, Calderoli, una “porcata” (da cui il soprannome Porcellum). Pur segnando un ritorno al proporzionale, questa legge elettorale correggeva fortemente gli elementi di rappresentatività caratteristici di tale sistema attraverso liste bloccate, soglie di sbarramento (alla Camera 4% per singole liste e 10% per coalizioni, al Senato 8% e 20%) e con l’assegnazione di 340 seggi alla Camera e/o del 55% dei seggi al Senato alla lista o alla coalizione che ottenga la maggioranza, senza la fissazione di alcun tipo di quorum. Il Porcellum sarà applicato per le elezioni politiche del 2006, del 2008 e del 2013, per ben tre legislature (XV, XVI e XVII).
Dopo diverse critiche (ma nessuna riforma parlamentare), sarà la Corte Costituzionale a dichiarare, con la sentenza 1/2014, l’illegittimità delle norme sul premio di maggioranza e sulle liste bloccate. Il risultato della conseguente abrogazione delle parti incostituzionali della legge 270/2005 è un sistema elettorale delineato dalla Corte e per questo soprannominato Consultellum: resta in vigore la legge proporzionale, ma gli elettori possono esprimere una preferenza e il premio di maggioranza è di fatto eliminato.
Il cosiddetto Consultellum non sarà mai applicato: nel 2015 è infatti approvata un’altra legge elettorale, l’Italicum. Resta il sistema proporzionale, ma senza possibilità di coalizioni, con soglia di sbarramento unica al 3%, con l’assegnazione della maggioranza assoluta di 340 seggi in caso di raggiungimento del 40% di voti. Le circoscrizioni sono più che dimezzate e ridotte a 100, i capilista in ciascun collegio sono scelti dai partiti, possono candidarsi in più di un collegio e, in caso di elezione plurima, possono optare a scelta per un collegio o per l’altro. Infine, è previsto un eventuale ballottaggio tra le due liste più votate, qualora nessuna delle due raggiunga il 40%, per l’assegnazione del premio di maggioranza. Anche in questo caso, tocca alla Corte Costituzionale intervenire.
Con la sentenza 35 del 2017, la Consulta dichiara incostituzionale sia il potere dei capilista candidati di optare a propria scelta per un collegio o per l’altro, sia l’eventuale secondo turno. Solitamente utilizzato nei sistemi presidenziali o comunque per l’assegnazione di cariche monocratiche, nella legge elettorale renziana il ballottaggio era utilizzato per garantire un surplus di seggi in un organo collegiale come il Parlamento, senza peraltro alcuna soglia minima per l’accesso al secondo turno.
C’è però un altro problema. Tutte le norme dell’Italicum si riferiscono alla sola Camera dei deputati: il percorso della legge elettorale si intrecciava infatti con la riforma costituzionale, in base alla quale il Senato non sarebbe più stato eletto direttamente. Dando per scontata l’approvazione del progetto istituzionale Renzi-Boschi, l’Italicum non prevedeva una disciplina per l’elezione del Senato. Il 4 dicembre 2016, però, la riforma costituzionale fu bocciata al referendum. E così, dal punto di vista della legge elettorale, ecco l’ennesimo modello, il Legalicum: per la Camera era vigente l’Italicum come corretto dalla Consulta, per il Senato il Porcellum parimenti modificato (o, meglio, depurato degli elementi incostituzionali) dalla Corte.
La Consulta ha basato entrambe le sentenze sulla considerazione, espressa all’art. 48 della Costituzione, che il voto debba essere “personale ed eguale, libero e segreto”.
Guardando alle censure costituzionali, allora, l’elemento centrale, relativo soprattutto al premio di maggioranza, è quello dell’uguaglianza del voto. Non è ammissibile, infatti, che la composizione parlamentare sia viziata da rappresentazioni distorte delle scelte elettorali e che dunque il voto di un elettore possa valere (molto) di meno del voto di un altro elettore.
L'incostituzionalità di Porcellum e Italicum alla prova del voto
Proviamo ad applicare il Porcellum e Italicum, evidenziando nel concreto i nodi costituzionali problematici. Poniamo di essere di fronte a un sistema tendenzialmente tripolare come quello delineato dalle ultime elezioni politiche: usiamo proprio quelle percentuali, quindi una coalizione al 37%, l’altra al 33%, l’altra al 23%. La prima, che rappresenta poco più di un terzo dei voti, con il Porcellum avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta, potendo di fatto legiferare ignorando qualunque opposizione. Del pari, con il doppio turno delineato dall’Italicum, senza alcuna soglia minima, si sarebbero confrontati al ballottaggio la lista al 33% e quella al 18% (il PD, che in coalizione arrivava appena al 23%): una delle due liste avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta, nonostante rappresentassero originariamente un terzo dei votanti e meno di un quinto dei votanti. In entrambi i casi, il peso del voto degli elettori che avevano assegnato preferenze ad altre liste sarebbe stato ridotto oltre limiti ragionevoli e sarebbe stato viceversa sovrarappresentato il voto di altri elettori.
Sia chiaro: l’uguaglianza assoluta del voto è impossibile (basti pensare che diversi milioni di elettori devono essere rappresentati da poche centinaia di parlamentari), ma questa parità di potere nell’espressione del voto non può essere compressa eccessivamente, squilibrando il pur necessario bilanciamento tra due esigenze, la rappresentatività, da un lato, e la governabilità, dall’altro.
La sovranità popolare tra rappresentatività e governabilità
Insomma, la scelta di un sistema elettorale non può essere una decisione superficiale, né può essere furbescamente assunta sulla base delle convenienze del momento (dimenticando in un colpo la correttezza istituzionale e la mutevolezza, oltre che la relativa attendibilità, dei sondaggi). Una legge elettorale è infatti la cinghia di trasmissione tra la volontà popolare e la sua espressione e non può prescindere dall’analisi del sistema istituzionale né dal contesto sociale di riferimento.
Il nostro è e resta un sistema parlamentare, e la scelta di un simile assetto istituzionale non è un capriccio dei costituenti, ma, da un lato, una salvaguardia dalle degenerazioni leaderistiche che segnarono il ventennio fascista, e di cui non si può mai escludere il ritorno, e, dall’altro, il tentativo di rappresentare la complessità ideologica del popolo italiano, cui appartiene la sovranità su questa Repubblica democratica.
Basta guardare ai risultati delle elezioni politiche, dal 1946 a oggi, per farsi un’idea dell’irriducibilità delle preferenze a scenari semplificati. Non significa che non si possano proporre riforme elettorali (o istituzionali), ma si deve tener conto di questa cultura giuridica, oltre che delle esigenze costituzionali emerse nel dibattito, acceso e argomentato, durato mesi, tra antifascisti di diversa estrazione e con differenti sensibilità, che proprio grazie al costante confronto tra divergenze raggiunsero una sintesi costituzionale di elevato profilo.
Nella storia repubblicana, finché la classe politica si è dovuta confrontare con il sistema elettorale estremamente rappresentativo del proporzionale puro, l’avvicendamento dei governi, le cadute, i rimpasti, le coalizioni, non hanno impedito riforme sociali fondamentali, che hanno visto l’influenza delle maggioranze come delle opposizioni parlamentari. Significa che bisogna tornare alla rappresentatività a tutti i costi, a spese della governabilità? Non per forza. Ma alla stabilità degli esecutivi non si può sacrificare il diritto dei cittadini di trovare un Parlamento che rispecchi il proprio voto, anche alla luce della funzione che le Camere continuano ad avere nella nostra struttura istituzionale.
Nonostante deleghe ai governi, decretazioni d’urgenza e voti di fiducia, il Parlamento continua a costituire l’organo del potere legislativo. E il potere legislativo è un potere fondamentale quanto fragile, perché se è vero che le leggi entrano formalmente in vigore una volta promulgate, è pur vero che vivono quando vengono applicate e riconosciute, come spiegava anche Piero Calamandrei:
Signori Giudici, che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall'alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro non dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così.
E come potrà mai riconoscersi un popolo, o, meglio, come potranno riconoscersi le molteplici minoranze di un popolo, nelle leggi di un Parlamento che non riconosce, né valorizza le diversità? E la costante riduzione dell’affluenza alle urne, che da più del 90% dei primi trent’anni di elezioni della storia repubblicana, è arrivata al 73% alle ultime politiche, non sarà sintomo di una disaffezione che magari dipende in parte proprio dalla mancata corrispondenza tra il voto e il suo risultato?
Ma quindi ora la legge elettorale?
Ed eccoci ora davanti a una crisi di governo e, in ogni caso, a pochi mesi dalla naturale scadenza della legislatura, di fronte alla prospettiva di un Parlamento ridotto numericamente, senza che regolamenti di Camera e Senato siano ancora stati riformati in tal senso e con un sistema elettorale misto, con un forte impatto maggioritario, che sacrifica almeno in parte la rappresentatività per rincorrere una governabilità tutt’altro che raggiunta (in questa legislatura non sono mancati stalli istituzionali e gli esecutivi che si sono avvicendati sono stati tre, con tre diverse, sebbene in parte sovrapponibili, maggioranze parlamentari - almeno finora).
Le proposte di riforma elettorale giacciono ormai da due anni in Commissione Affari Costituzionali: è così per la proposta dell’on. Brescia, M5S, verso un sistema interamente proporzionale, il cui iter è fermo dal gennaio 2020; è così per la proposta dell’on. Molinari, Lega, per l’abrogazione di Porcellum e Rosatellum, ferma in Commissione dal settembre 2020; è così anche per la proposta dell’on. Sisto, Forza Italia, verso una legge elettorale con prevalenza maggioritaria, anch’essa ferma da luglio 2020. All’indomani della conferma referendaria della riduzione dei parlamentari, c’è stato tempo per ridurre costituzionalmente l’età per il diritto di voto, fissata a 18 anni anche per il Senato, ma sul fronte elettorale l’unica altra modifica approvata è stata la già prevista determinazione dei collegi elettorali, delegata al governo con la legge 51/2019 e promulgata con il decreto legislativo 177/2020.
Tecnicamente, insomma, salvo per il nodo dei regolamenti parlamentari da riformare (ma la cui modifica è già avviata), il Rosatellum è pronto per essere applicato di nuovo, con elezioni anticipate o alla scadenza della legislatura. Politicamente, invece, la questione, pur silente, è tutt’altro che chiusa.
Immagine in anteprima: Niccolò Caranti, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons