Dalla parte giusta della Storia: riformare la legge sulla cittadinanza per rispondere a un milione di giovani che chiedono di essere riconosciuti come italiani
7 min letturaRiformare la legge sulla cittadinanza per rispondere a un milione di giovani che chiedono di essere riconosciuti come italiani.
Il 1° Luglio, eravamo in Piazza Montecitorio, a Roma per dare il via a un percorso mobilitativo, che ci vedrà impegnat* su tutto il territorio nazionale.
Per sensibilizzare cittadin*, a far sì che il diritto di cittadinanza non sia più un privilegio discrezionale concesso a poch*, ma il riconoscimento di una realtà di fatto che già vive, respira, e di fatto costituisce il nostro paese.
Per dialogare con le forze politiche affinché agiscano, con volontà di dialogo, su una tematica tanto importante quanto urgente: il riconoscimento a oltre un milione di giovani nat* e cresciut* in italia i diritti di cittadin*.
Quindi, per migliorare concretamente il nostro paese e renderlo più giusto.
La costruzione della campagna è frutto di un lavoro intenso che ha coinvolto differenti soggettività e si è sviluppata garantendo il protagonismo e la centralità delle nuove generazioni. La Rete oltre a singol* attivist* e associazioni, è un gruppo alimentato anche da movimenti, collettivi, artist*, individui con l’intenzione di unire le voci, competenze e privilegi per rilanciare il progetto di riforma della legge sulla cittadinanza….
Con queste parole la Rete per la Riforma della Cittadinanza (di seguito RRC) ha lanciato la sua campagna di mobilitazione permanente che ha come obiettivo quello di riaccendere i riflettori sulla necessità di riavviare il percorso per la riforma della legge per l’acquisizione della cittadinanza italiana. La campagna lanciata da RRC si chiama “Dalla parte giusta della storia”, un titolo non casuale nato dalla consapevolezza che spesso quando si chiede l’allargamento dei beneficiari di un diritto si alzano scudi ideologici che cercano di contrastare in ogni modo tale possibilità. Guardando alla storia più recente, dal suffragio universale che voleva allargare il voto alle donne, passando per le leggi per il diritto al divorzio e aborto, la legge contro l’attenuante al delitto d’onore, fino alle unioni civili e poi il recente Ddl Zan, lo schema si ripete. Per questo la RRC chiede di stare dalla parte giusta, la parte che accoglie ed include, quella che riconosce i diritti e l’autodeterminazione delle persone.
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La richiesta di tale riforma non nasce oggi. Sono oltre 15 anni che si susseguono campagne di sensibilizzazione, dibattiti e proposte di legge poi abortite.
Già nel 1999 Livia Turco, con una certa lungimiranza, aveva proposto di modificare la legge del ’92 proponendo di concedere la cittadinanza ai bambini nati in Italia e residenti per 5 anni continuativi. Alla proposta Turco seguirono molte altre, tra cui le principali quella del 2006 di Giuliano Amato, allora ministro dell’Interno e quella del 2008 di Sarubbi-Granata.
Il fallimento dei vari tentativi della politica istituzionale fece mobilitare “dal basso” decine di associazioni che si unirono per lanciare la campagna "L'Italia sono anch'io" che presentò in parlamento due leggi di iniziativa popolare che raccolsero circa 200mila firme: una sulle “Norme per la partecipazione politica ed amministrativa e per il diritto di elettorato senza discriminazioni di cittadinanza e di nazionalità” e l’altra proponeva “Modifiche alla L. 5 Febbraio 1992, N.91 “Nuove Norme Sulla Cittadinanza”.
Testi che non ebbero fortuna ai quali, per anni, si sono susseguiti nuovi tentativi, riformulazioni e proposte. La bocciatura più significativa fu quella del 2017 quando la proposta di legge di riforma della cittadinanza, approvata alla Camera nel 2015, si fermò al Senato perché non venne raggiunta una maggioranza politica per farla diventare legge
Su Valigia Blu si è già parlato approfonditamente del quadro normativo e non solo che riguarda l’attuale legge che norma l’acquisizione della cittadinanza italiana e le varie proposte che si sono succedute nel tempo, vi rimando all’articolo di Andrea Zitelli.
Quello su cui vorrei soffermarmi ora è cosa la RRC vuole promuovere e sollecitare: un cambio di prospettiva e dei presupposti alla base di una nuova riforma.
Innanzitutto il linguaggio: non si vuole più parlare di ius soli o ius culturae, concetti abusati e svuotati di senso perché politicamente strumentalizzati, ma si vuol parlare semplicemente di riforma della legge per l’acquisizione della cittadinanza italiana, riforma che deve contemplare più fattispecie. Non si può ridurre l’acquisizione della cittadinanza alla frequenza della scuola o al luogo di nascita.
In secondo luogo è necessario slegare la cittadinanza dei minori dal requisito del “merito” o del “reddito”, requisiti discriminatori e ingiusti. La cittadinanza deve essere un riconoscimento di esistenza e appartenenza ad un paese senza condizioni restrittive.
Terzo punto, legato anche al precedente, non si può far pesare ai minori le scelte, gli errori e o le condizioni di vita delle famiglie. Il minore deve avere la possibilità di essere messo nelle condizioni di avere delle opportunità e costruire il proprio futuro indipendentemente dalla situazione familiare (soprattutto economica). È questione di dignità. I bambini figli di famiglie povere ne sarebbero discriminati.
Quarto punto, servono tempi certi e brevi dal momento della consegna della domanda di cittadinanza all’elaborazione fino al giuramento. Abbiamo visto aumentare sempre più questi tempi in modo inaccettabile e incomprensibile. Inoltre serve togliere tutte le ambiguità e falle burocratiche esistenti che compromettono la possibilità di ottenere la cittadinanza attraverso le vie possibili.
La sottoscritta, per fare un esempio, ha atteso 32 anni prima di vedere riconosciuto un diritto perso per “inghippi burocratici”. Nata e cresciuta a Perugia al compimento dei 18 anni ho fatto domanda per ottenere la cittadinanza. Questa venne rifiutata perché “si scoprì” che la mia residenza in Italia fu interrotta per due mesi per una cancellazione della stessa, cancellazione che poi risultò dovuta a un errore nel registrare un cambio abitazione da una via a quella adiacente. E di esempi di questo genere ce ne sono migliaia (anche se una circolare di qualche anno fa ha cercato di limitare i rifiuti per interruzione di residenza per pochi mesi. Restano quelli per tempi moderatamente prolungati, “colpe” che non possono essere addebitate ai minori che non hanno avuto possibilità di scelta nelle sorti delle loro vite).
Altro limite posto ai nati in Italia è la possibilità di fare domanda di cittadinanza al compimento dei 18 anni (dopo diciotto anni!) ed entro il diciannovesimo anno. Regola di cui non tutti vengono informati o sono a conoscenza per cui capita che perdano una importante opportunità che viene rimandata di anni, almeno dieci. Trenta anni e più per diventare cittadini? Oltremodo intollerabile. Perciò la possibilità di accedere alla domanda di cittadinanza per i minori deve avvenire in tempi molto più brevi e accessibili.
Un discendente di italiano che abita all’estero e che non ha mai visto l’Italia ha più possibilità di ottenere la cittadinanza di un/a ragazzo/a nato/a e o cresciuto/a qui. Retaggi del passato.
Sono diversi i punti ancora elencabili che narrano una legge vigente inadeguata ai tempi per almeno un milione di minori e migliaia di adulti. Una legge figlia del suo tempo che non risponde più alle esigenze di oggi.
Aggiungo altri elementi di riflessione necessari al cambiamento di paradigma culturale e politico.
Sicuramente essere cittadini italiani facilita la vita burocratica delle persone: niente file in questura e giorni di scuola saltati per gli studenti, gite all’estero con la scuola senza limitazioni, soldi e tempo risparmiati per le mille pratiche, possibilità di iscrizione ad albi e concorsi pubblici, facilitazione nello spostamento internazionale e così via. Non poco.
Ma per molti di noi essere cittadini vuol dire qualcosa di più: significa essere riconosciuti come italiani, persone appartenenti al paese che si ama e si sente proprio, il paese dove si vede proiettato il proprio futuro. Sentirsi riconosciuti anche di fatto non è residuale dal punto di vista emotivo/psicologico. Non è solo questione di opportunità, è anche questione di identità. Questo è l’aspetto solitamente più sottovalutato quando invece è spesso quello più sentito dai figli di immigrati nati e o cresciuti in Italia che si sentono cittadini senza cittadinanza, italiani diversamente discendenti che cercano il loro posto in un paese che ancora non li vede pienamente parte di sé.
Con ciò non si deve pensare che avere il passaporto bordeaux risolva tutti i problemi di “integrazione”/appartenenza degli immigrati e dei loro figli. Ci sarà sempre una componente che resterà marginale alla vita sociale, politica, culturale ecc. Questo, però, accade anche per (ma non solo) mancanza di efficaci azioni di inclusione in certe situazioni. È necessario lavorare su questo fronte senza mischiare e confondere le carte e i piani rispetto alla riforma della cittadinanza, sono piani diversi. Inoltre, i figli di immigrati più impegnati nel sociale e nella politica sono risorse preziose che la politica e i politici dovrebbero interpellare di più. Progetti ed esperienze locali positivi ce ne sono, vanno riconosciuti ed istituzionalizzati a livello nazionale.
Dopodiché è avvilente sentir parlare alcuni sostenitori della riforma della legge che argomentano il loro supporto elencando i numeri relativi alla denatalità. No, non vogliamo nuovi italiani perché gli autoctoni non fanno più figli. È un ragionamento sbagliato. Per risolvere il problema della denatalità bisogna lavorare sulle politiche di welfare, sul sostegno al lavoro femminile, attraverso aiuti alle famiglie con figli o che vogliono figli, eccetera. È più difficile, ma non si devono neppure cercare le vie più semplici ai problemi complessi perché il conto arriva sempre.
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C’è poi chi dice che cambiare la legge sulla cittadinanza non è una priorità per il paese perché “tanto prima o poi la cittadinanza la ottengono”. Vero, prima o poi la ottengono ma a quale costo e quanti sacrifici ed occasioni perse? Si veda sopra.
È chiaro che la politica spesso cerca il consenso elettorale o la visibilità pubblica usando qualsiasi argomento disponibile anche a discapito di leggi di civiltà e buon senso.
Per questo non si può indietreggiare su quei temi che invece, pur impopolari o non sentiti da tutti, toccano la vita quotidiana delle persone, la loro libertà ed esistenza nel mondo.
Per questo nasce la Rete, per tornare a vigilare, sensibilizzare, sollecitare e promuovere il cambiamento riconoscendo una realtà di fatto: siamo un paese plurale e questa pluralità deve diventare uno dei nostri punti di forza e di orgoglio democratico.
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