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In Italia lo smaltimento dei rifiuti è al capolinea. Roghi e mancanza di impianti: cosa fare?

12 Dicembre 2018 28 min lettura

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In Italia lo smaltimento dei rifiuti è al capolinea. Roghi e mancanza di impianti: cosa fare?

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di Antonio Scalari e Andrea Zitelli

Nella notte di martedì scorso un grande incendio è divampato nell’impianto di trattamento meccanico biologico dei rifiuti (TMB) a Roma, nel quartiere salario. Per via della grande nube che si è formata, il Comune in una nota ha chiesto ai cittadini romani, "per ragioni precauzionali, di chiudere le finestre".

Non si conoscono ancora le cause che hanno portato all’incendio. La Procura di Roma sta indagando per disastro colposo. Ma il pubblico ministero aveva già aperto un fascicolo su questa struttura, in cui ipotizzava il reato di inquinamento ambientale e attività di rifiuti non autorizzata, scrive Repubblica. Alcune settimane fa, inoltre, era arrivata una relazione dell’Arpa Lazio in cui si leggeva, riporta l’Espresso, che, tra le altre cose, l’impianto non trattava i rifiuti ma piuttosto li accumulava e li spostava, non aveva i requisiti per essere autorizzato, etichettava rifiuti in modo scorretto, produceva più scarto che rifiuto lavorato e non era stata fornita nessuna documentazione sull’impatto degli odori.

La struttura infatti è da anni al centro di polemiche e critiche. I residenti che abitano vicino a questo TMB (uno dei quattro presenti nella Capitale) protestano da anni contro le esalazioni e il cattivo odore prodotti dall'impianto, dove molta parte dei dei rifiuti indifferenziati della capitale viene portata per essere lavorata, prima di finire in impianti di incenerimento e discariche. Sul Fatto Quotidiano si legge la testimonianza di Simonetta Anaclerio, presidente del Comitato di quartiere Nuovo Salario: «Siamo rinchiusi in casa con le finestre chiuse e ci dobbiamo muovere con le mascherine. Avevamo denunciato che era anche arrivata la voce che qualcuno voleva dar fuoco, ma ovviamente non possiamo sapere se l’incendio è doloso o no. Qui è come la Terra dei fuochi a Napoli perché siccome nel Tmb non c’entrava più niente, l’hanno lasciata fuori l’immondizia(...)».

Quello di Roma non è un caso isolato. Il Sole 24 Ore ha censito negli anni centinaia di casi di incendi a impianti o macchinari di lavorazione dei rifiuti in tutta Italia. Le regioni più colpite sono state Piemonte, Lombardia, Veneto, Lazio e Campania, con varie cause: dagli accumuli abusivi di spazzatura o di materiali da riciclo, all'ammassarsi di materiali altamente infiammabili negli impianti di selezione e di trattamento, dai guasti e avarie, all'origine dolosa.

Il giornalista Fabrizio Gatti, poco meno di un mese fa, aveva affermato che questa situazione, al di là di possibili interessi mafiosi, era figlia di un sistema di smaltimento dei rifiuti "al capolinea". Jacopo Giliberto sempre sul Sole 24 Ore scriveva al riguardo: "Non c’è domanda sufficiente per il mercato a valle dei materiali riciclabili che noi cittadini dividiamo nei differenti bidoni: plastica, carta e così via. E soprattutto mancano gli impianti per lavorare, metabolizzare e digerire questi materiali. (...) Così gli impianti di selezione e di riciclo si riempiono di materiali senza più destinazione. Si riempiono a tappo. A volte si fermano. Ogni tanto qualcuno va a fuoco".

Una situazione per cui le aziende del settore hanno richiesto una strategia per cercare di risolvere tutte queste criticità, come l'apertura di nuovi impianti e in particolare di nuovi termovalorizzatori (cioè impianti di incenerimento che recuperano, tramite questo procedimento, energia elettrica o termica). Proprio su questo aspetto, il mese scorso, si è aperto uno degli scontri più duri tra le due forze di governo, Lega e Cinque Stelle. Perché se da una parte il partito di Matteo Salvini si è detto favorevole, dall'altra il M5S ha respinto nettamente questa possibilità, puntando a un piano che porterà la produzione di rifiuti prossima allo zero – e quindi senza più bisogno di simili strutture per lo smaltimento –, tramite un modello di "economia circolare", in cui, attraverso un nuovo sistema, gli scarti prodotti dal sistema non diventano più rifiuti da smaltire ma risorse. L'apertura di nuove strutture per incenerire i rifiuti porta con sé, inoltre, anche tematiche legate a un loro impatto negativo ambientale e sulla salute delle persone.

In questo articolo cerchiamo così di capire cosa succede nel sistema di smaltimento dei rifiuti in Italia, qual è la sua situazione e la gestione dei rifiuti urbani, su cosa verte lo scontro politico, analizzando anche gli studi che si sono concentrati sulle conseguenze e i possibili rischi che portano con sé gli impianti di incenerimento.

Lo scontro politico nel governo sulla gestione dei rifiuti

Poco meno di un mese fa, proprio sui rifiuti e in particolare sulla loro gestione, si è verificato uno scontro all'interno del governo Conte tra i due alleati: Lega e Movimento 5 stelle. Al termine del “Comitato per l'Ordine e la sicurezza” a Napoli, lo scorso 15 novembre, il ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva denunciato una «preoccupazione vera e pesante» riguardo i cosiddetti roghi tossici verificatesi nella "terra dei fuochi" in Campania, collegandoli alla cattiva gestione dei sindaci e governatori e all'ombra della Camorra: «Fra qualche mese si rischia un’emergenza sanitaria e sociale (...). Non c’è programmazione, c’è incapacità. Non si è fatto niente come termovalorizzatori, come sistema di smaltimento. Gli amministratori locali e regionali non hanno saputo dare risposte».

Per questo motivo Salvini aveva sottolineata la necessità di «un termovalorizzatore per ogni provincia» visto che «ormai le nuove tecnologie provano che non c’è impatto sulla salute». Al termine del suo intervento, il ministro dell'Interno aveva anche avvertito che «a metà gennaio va in manutenzione l’unico termovalorizzatore di tutta la Regione, che andrà a un terzo del regime» e si era detto che in caso di necessità, per salvaguardare la salute pubblica, sarebbe stato pronto a imporre la costruzione di termovalorizzatori in Campania.

La posizione di Salvini sui termovalorizzatori aveva però provocato la dura reazione dell'alleato di governo. Con un post su Facebook il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, aveva ribattuto: “Quando si viene in Campania e si parla di terra dei fuochi si dovrebbero tener presenti la storia e le difficoltà di questo popolo. La terra dei fuochi è un disastro legato ai rifiuti industriali (provenienti da tutta Italia) non a quelli domestici”. Per questo motivo, Di Maio aveva aggiunto che “gli inceneritori non c’entrano una beneamata ceppa e tra l’altro non sono nel contratto di Governo”.

Nel contratto di governo, firmato da Lega e Movimento 5 Stelle, al punto 4, nella parte riguardante Ambiente e rifiuti, si legge in effetti che l’obiettivo è quello di ottenere, tramite l’economia circolare, “una forte riduzione del rifiuto prodotto, una crescente percentuale di prodotto riciclato e contestualmente una drastica riduzione della quota di rifiuti smaltiti in discarica ed incenerimento, fino ad arrivare al graduale superamento di questi impianti, adottando metodi tecnologicamente avanzati ed alternativi”.

Sulla posizione di Di Maio si era schierato compatto tutto il M5S.

La reazione di Luigi Di Maio aveva generato a sua volta le reazioni di altri esponenti della Lega. Il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, a La Stampa, in risposta alle critiche del M5S – in particolare a quelle di Di Maio – delle posizioni di Salvini, aveva affermato ad esempio che «i 13 inceneritori della Lombardia non solo sono puliti ma anche assolutamente controllati» da Ispra, domandandosi: «Come si fa a dire che non li si vuole al Sud dove il problema dello smaltimento rifiuti è endemico?». Fontana aveva avvertito inoltre che «se Di Maio pensa che i nostri impianti inquinano, allora devo dire che non accetteremo più i rifiuti del Sud. Chiederemo allo Stato di modificare la norma che ce lo impone. (...) Tra l' altro, ormai i nostri impianti sono saturi».

Dopo giorni di tensione, lo scontro politico all’interno del governo tra Lega e M5S sull’apertura o meno di nuovi impianti di incenerimento si era però placato, con l’intervento del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, in vista della firma a Caserta del “Protocollo d'intesa sulla Terra dei Fuochi”, un piano d'azione del governo contro i roghi tossici e gli interramenti abusivi di rifiuti: «Non c'è nessuna polemica, c'è qualche diversità di vedute ma l'indirizzo politico del governo è chiaro. La guida è il contratto». Poche ore dopo Salvini aveva confermato, specificando che «importante è risolvere il problema» ed evitare un’emergenza rifiuti: «Se non è l’inceneritore, mi spieghino come».

Due giorni dopo, il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, intervistato dal Corriere della Sera, aveva spiegato quale modello il governo prevede di portare avanti: «La visione è tendere a rifiuti zero, a fare economia circolare. (...)». Sugli impianti di incenerimento, il ministro aveva detto che «con i numeri previsti per la differenziata la termovalorizzazione di nuova generazione sta cominciando a non interessare più».

Costa aveva anche negato l'esistenza di un'emergenza rifiuti in atto e sullo scontro interno al governo il ministro aveva specificato che era normale che ci fosse diversità di opinione tra due forze politiche con idee divergenti: «Ma la sintesi che si raggiunge via via, che io chiamo mediazione, mi sembra buona. Salvini sostiene che i termovalorizzatori sono utili, ma nessuno dice che non lo siano. La questione è: nel territorio attuale servono in un business plan che dura 27 anni? Servono o sono cattedrali nel deserto?».

Rifiuti urbani, qual è la situazione in Italia

Per capire qual è lo stato e la gestione dei rifiuti urbani in Italia, è utile analizzare il nuovo rapporto sui rifiuti urbani in Italia (riferito al 2017) pubblicato questa settimana dall'Ispra (cioè l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale).

Il quadro che emerge descrive una situazione in cui rispetto all'anno precedente si producono su tutto il territorio meno rifiuti urbani, la raccolta differenziata aumenta e raggiunge in media la percentuale di 55,5%, mentre non sono stati ancora raggiunti gli obiettivi della direttiva europea (2018/851/UE) per la preparazione, il riutilizzo e il riciclaggio dei rifiuti – 50% al 2020, 60% al 2030 e 65% al 2035 –, con l'Italia che si ferma appena sotto il 44%.

Rispetto al 2016, inoltre, sono state chiuse 11 discariche (passando da 134 a 123 in totale) e 2 impianti di incenerimento (da 41 a 39 impianti). Inoltre, l'ente italiano sottolinea che non tutte le regioni sono dotate delle necessarie infrastrutture di trattamento dei rifiuti e questo fa sì che che in molti contesti territoriali si assista a un trasferimento dei rifiuti raccolti in altre regioni o all’estero.

Per quanto riguarda il costo medio che il cittadino deve pagare annualmente per il ciclo dei rifiuti in Italia, l'Ispra calcola 171,19 euro, con una differenza, a livello territoriale, tra Nord (151,16 euro/abitante) e Sud (182,27 euro/abitante).

Infine, nel rapporto è presenta anche un raffronto con l'Europa (su dati Eurostat del 2016). In Italia si producono più rifiuti rispetto rispetto alla media dell’Unione a 28, destinando alla discarica una percentuale di rifiuti urbani trattati maggiore della media UE 28, come anche la percentuale avviata a compostaggio e digestione anaerobica è superiore alla media dell’Unione europea, spiega l'Ispra.

Rifiuti urbani, Italia a confronto con la media UE 28, anno 2016. Fonte: Ispra

Proprio sulle discariche, lo scorso anno, la Commissione europea ha deferito l'Italia alla Corte di giustizia dell'Ue per la mancata bonifica o chiusura di 44 di queste strutture (concentrate tra il Friuli Venezia Giulia, l'Abruzzo, la Basilicata, la Campania e la Puglia) ritenute un grave rischio per la salute umana e per l'ambiente. Ad oggi, l'Italia ha pagato circa 178 milioni di euro per le discariche irregolari, riporta l'Ansa.

La produzione

I nuovi dati mostrano che la produzione nazionale di questi rifiuti è stata di 29,6 milioni di tonnellate, registrando un calo dell’1,7% rispetto al 2016 (ogni cittadino italiano lo scorso anno ha prodotto 489 chilogrammi, con una riduzione dell’1,6%). A livello generale un’inversione, quindi, rispetto all’aumento del biennio 2015-2016, dovuta anche alla nuova metodologia di calcolo utilizzata da parte dell’ente. Se si allarga l’analisi al quinquennio 2013-2017 si nota invece una sostanziale stabilità della produzione.

Il calo della produzione si registra anche se si suddivide l’Italia per macro aree: -2,2% al Sud, -2% al Centro e -1,4% al Nord. In valori assoluti, le regioni del Nord Italia producono quasi 14 milioni di tonnellate, quelle del Centro 6,5 milioni di tonnellate e quelle al Sud 9,1 milioni di tonnellate.

La raccolta differenziata

Nel 2017 è aumentata la percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti urbani, arrivando al 55,5% della produzione nazionale, con una crescita di 3 punti percentuali rispetto all’anno precedente. In valore assoluto, spiega l’Ispra, la raccolta differenziata è di circa 16,4 milioni di tonnellate (+600 mila tonnellate rispetto al 2016). Un motivo rilevante di questa crescita, lo si deve alla riduzione dei rifiuti urbani indifferenziati (-1,1 milioni di tonnellate tra il 2016 e il 2017).

Nel Nord, la differenziata arriva al 66,2% (9,2 milioni di tonnellate) rispetto alla produzione totale dei rifiuti urbani, al 51,8% (3,4 milioni di tonnellate) al Centro e al 41,9% nel Mezzogiorno (3,8 milioni di tonnellate).

Per quanto riguarda le singole Regioni, il rapporto mostra che la più alta percentuale di raccolta differenziata si ha in Veneto (il 73,6%), seguita da Trentino Alto Adige (72%), Lombardia (69,6%) e Friuli Venezia Giulia al (65,5%).

A seguire, sopra il 60%, si trovano anche l’Emilia Romagna (63,8%), le Marche (63,2%), la Sardegna (63,1%), l’Umbria (61,7%) e la Valle d’Aosta (61,1%), e al di sopra del 55% (valore medio nazionale) il Piemonte (59,3%) e l’Abruzzo (56%). Toscana e Campania sono invece al 53,9% e al 52,8%. In totale, quindi, sono 13 le regioni che raccolgono in maniera differenziata oltre la metà dei rifiuti urbani annualmente prodotti, precisa l’Ispra.

La Liguria è invece al di sotto del 48,8%, il Lazio del 45,5% e la Basilicata, con una crescita di oltre 6 punti rispetto al 2016, del 45,3%. La Puglia è di poco superiore al 40% (con 6 punti percentuali in più rispetto all’anno precedente). In Calabria il valore è invece al 39,7% (+6,4%). Nel 2017, poi, il Molise ha superato per la prima volta la soglia del 30%, arrivando al 30,7%. Infine, la Sicilia è al 21,7%, con 6,3 punti in più rispetto all’anno precedente.

Riutilizzo e riciclaggio

Lo scorso novembre la Camera dei Deputati ha predisposto il ricevimento di alcune direttive europee. Tra di esse c'è la direttiva (2018/851) del Parlamento europeo e del Consiglio che punta, tra le altre cose, a "promuovere i principi dell’economia circolare", cioè di un sistema progettato per auto-rigenerarsi, con i materiali di origine biologica destinati a essere reintegrati nella biosfera e quelli tecnici progettati per essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera. Per arrivare a questo ciclo, non più lineare – cioè dal prodotto al rifiuto –, ma circolare appunto, l'Europa rivede gli obiettivi per il recupero e il riciclaggio degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio, per passare in modo più rapido a un’economia circolare, portandoli al 55% entro il 2025 , al 60% entro il 2030 e al 65% entro il 2035.

Nel 2017 i risultati nella preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio si sono attestati al 43,9%, considerando le frazioni contenute nei rifiuti urbani, e al 49,4%, effettuando il calcolo per le specifiche frazioni come organico, carta e cartone, vetro, metallo, plastica e legno. Risultati quindi ancora lontani da quelli previsti dalla direttiva, ma che hanno segnato un aumento rispetto al 2016 di poco sotto il 2%.

La gestione e la criticità dei pochi impianti presenti

I rifiuti urbani vengono recuperati o trattati e poi smaltiti. Della prima operazione, spiega Il Post,  "si occupano principalmente gli impianti che gestiscono i rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata, mentre delle seconde si occupano discariche, inceneritori, impianti di trattamento meccanico-biologico".

L’Ispra rileva così che nel 2017 in discarica sono finiti il 23% dei rifiuti urbani prodotti. Vengono invece inceneriti il 18% dei rifiuti urbani prodotti. Il riciclaggio delle diverse frazioni provenienti dalla raccolta differenziata o dagli impianti di trattamento meccanico biologico (TMB) dei rifiuti urbani ha raggiunto, in totale, il 47% della produzione (il 20% è costituito dal recupero di materia della frazione organica e oltre il 27% dal recupero delle altre frazioni). 

Per quanto riguarda lo smaltimento in discarica si è registrata una riduzione rispetto al 2016 del 6,8% (cioè 500mila tonnellate in meno), interessando 6,9 milioni di tonnellate di rifiuti urbani. Il calo maggiore è stato registrato al Centro Italia (-14%).

Smaltimento in discarica dei rifiuti urbani, anni 2002 - 2017. Fonte: Ispra

Anche sull’incenerimento (un procedimento che in tutti gli impianti sul territorio italiano fa recuperare energia elettrica e che lo scorso anno ha prodotto quasi 4,5 milioni di MWh di energia elettrica e 2 milioni di MWh di energia termica), l'ente italiano documenta una riduzione del 3% tra il 2016 ed il 2017, "anche in considerazione della riduzione riscontrata nella produzione dei rifiuti".

Andamento dell’incenerimento di rifiuti urbani per Regione (tonnellate), anni
2015 - 2017. Fonte: Ispra

L'Istituto sottolinea però come circa il 70% dei rifiuti prodotti venga trattato al Nord, l’11% al Centro e quasi il 19% al Sud: "Va rilevato che quote considerevoli di rifiuti prodotte nelle aree del centro e sud Italia vengono trattate in impianti localizzati al Nord. La sola Lombardia riceve da fuori regione 300 mila tonnellate provenienti prevalentemente dal Lazio (quasi 101 mila tonnellate)", poi dal Piemonte (circa 79 mila tonnellate), dalla Campania (quasi 52 mila tonnellate) e dall’Abruzzo (oltre 33 mila tonnellate).

L'Ispra sottolinea così che per migliorare la gestione dei rifiuti organici c'è bisogno di attuare in modo completo quanto stabilito dalla direttiva 99/31/CE sulle discariche, che prevede la riduzione dello smaltimento in discarica dei rifiuti biodegradabili, fino alla totale eliminazione dalla discarica dei rifiuti organici non trattati. Per ottenere questo risultato, però è necessario un ciclo integrato di rifiuti ottenuto "grazie ad un parco impiantistico sviluppato".

Ad esempio, in Lombardia lo smaltimento in discarica è stato ridotto al 5%, in Friuli Venezia Giulia al 6%, in Trentino Alto Adige al 10% ed in Veneto al 13%. Nelle stesse regioni la raccolta differenziata raggiunge rispettivamente il 69,6%, il 65,5%, 72% e il 73,6% e "consistenti quote di rifiuti vengono trattate in impianti di incenerimento con recupero di energia". Al contrario vi sono Regioni dove ci sono pochi impianti e quelli, molte volte, sono inadeguati: "È il caso della Sicilia, dove i rifiuti urbani smaltiti in discarica rappresentano ancora il 73% del totale dei rifiuti prodotti, ma anche del Lazio e della Campania, che non riescono a chiudere il ciclo all’interno del territorio regionale".

I rifiuti esportati all'estero

L'Ispra fornisce anche il dato dei rifiuti urbani esportati dall'Italia in altri paesi: "Nel 2017 sono circa 355 mila tonnellate. Rispetto al 2016, si assiste ad una diminuzione del totale esportato, pari al 18,1%". Le Regioni che esportano più rifiuti sono il Lazio (81 mila tonnellate, il 22,9% del totale esportato) e il Friuli Venezia Giulia (54 mila tonnellate, il 15,2% del totale esportato). Il Friuli Venezia Giulia, però, rispetto al 2016, al contrario del Lazio, ha registrato una diminuzione del quantitativo esportato del 46,1%.

L’Austria e l’Ungheria rappresentano i Paesi cui vengono destinate le maggiori quantità di rifiuti urbani, cioè il 27,8% e il 13,1% del totale esportato. Seguono la Tunisia (10,7%), Portogallo (8,6%) e Bulgaria (oltre il 6,8%).

Nel rapporto Ispra sui Rifiuti Urbani si legge che, in base ai dati Eurostat (cioè l’ufficio statistico dell’Unione europea) aggiornati al 2016, a livello di UE 28, si registra nella produzione di rifiuti urbani un aumento dello 0,7% rispetto al 2015, passando da circa 244,8 milioni di tonnellate a circa 246,6 milioni di tonnellate.

Nel dettaglio dei singoli paesi membri, si vede come in alcuni paesi ci siano dei cali più significativi rispetto agli altri, come in Bulgaria (-4,3%), in Spagna (-2,7%) e in Lituania (-2,2%). Tra i Paesi maggiormente popolati, si legge nel report dell’Ispra, “la riduzione più consistente viene registrata in Spagna; segue la Francia con una riduzione pari allo 0,9%. Flessioni della produzione si registrano anche in Danimarca (-0,8%) e nei Paesi Bassi (-0,2%). Il dato resta pressoché stabile in Germania, mentre risulta in crescita nei rimanenti Paesi, con percentuali variabili tra lo 0,2% in Ungheria e il 7,3% in Repubblica Ceca”. In Italia l’aumento di produzione registrato nel 2016, rispetto all’anno precedente, è stato del 2%.

[caption id="attachment_44294" align="alignnone" width="792"] Produzione pro capite di RU nell’UE (kg/abitante per anno), anni 2014 - 2016. Fonte: elaborazioni ISPRA su dati Eurostat ed EPA Irlanda[/caption]

Per quanto riguarda poi la produzione pro capite (cioè a cittadino) di rifiuti urbani nei 28 paesi membri, si registra a un aumento dello 0,4%, da 481 a 483 kg/abitante per anno.

[caption id="attachment_44295" align="alignnone" width="792"] Ripartizione percentuale della gestione dei rifiuti urbani nell’UE anno 2016 (dati ordinati per percentuali crescenti di smaltimento in discarica). Fonte: elaborazioni ISPRA su dati Eurostat, EPA Irlanda e APA Portogallo[/caption]

Parlando invece della gestione di questi rifiuti, l’Eurostat documenta che nel 2016, nei 28 stati membri, il 30% è stato avviato a riciclaggio, il 16,6% a compostaggio, mentre il 28,5% e il 25% sono stati inceneriti e smaltiti in discarica.

L’Ispra spiega che nell’Unione europea esiste un’estrema variabilità di approccio alla gestione dei rifiuti urbani: “Con riferimento allo smaltimento in discarica, si passa dallo 0,6% (Svezia) al 91,8% (Malta). Oltre alla Svezia, anche il Belgio, la Danimarca, i Paesi Bassi e la Germania fanno registrare percentuali molto basse (fino all’1,5%) di smaltimento in discarica, mentre, all’estremo opposto, Croazia, Romania, Cipro e Grecia smaltiscono in discarica una percentuale di rifiuti urbani compresa tra il 78,4% e l’82,3%. Eccezion fatta per la Spagna e la Grecia, i Paesi nei quali il ricorso alla discarica interessa oltre il 55% dei rifiuti urbani gestiti sono tutti di recente accesso all’UE. L’Italia smaltisce in discarica il 27,6% dei rifiuti urbani trattati”.

Ripartizione percentuale della gestione dei rifiuti urbani nell’UE, anni 2015-2016. Fonte: Fonte: Elaborazioni ISPRA su dati Eurostat, EPA Irlanda e APA Portogallo.

In generale si registra comunque una riduzione della percentuale di smaltimento in discarica, per via delle normative comunitarie che puntano al calo dei rifiuti destinati alla discarica. Una dinamica che caratterizza maggiormente i nuovi Stati membri (dal 60,9% al 55,1%), mentre è meno evidente nell’UE 28 (dal 26,9% al 25%). L’Istituto italiano per la Protezione e la Ricerca Ambientale specifica che è interessante notare in che modo questa riduzione percentuale di smaltimento in discarica si ridistribuisca tra le altre forme di gestione: “In UE 28 si assiste a un incremento della percentuale di rifiuti avviati a incenerimento (dal 27,3% al 28,5%), a riciclaggio (dal 29,8% al 29,9%) e a compostaggio e digestione anaerobica (dal 16% al 16,5%)”.

Se si guarda poi nel dettaglio il dato dell’incenerimento dei rifiuti urbani nell’Unione europea nel 2016, si vede che in totale sono stati inceneriti circa 68,7 milioni di tonnellate. Rispetto al 2015, a livello di UE 28, c’è stato un incremento di quasi il 6%. Ispra specifica che con incenerimento si intende anche le quantità di rifiuti urbani avviate a recupero energetico. La situazione dell’incenerimento cambia comunque tra gli Stati membri: “Circa 45,1 milioni di tonnellate (pari al 65,7% del totale UE 28) sono inceneriti nelle sole Germania, Francia, Regno Unito e Italia, mentre Cipro e Lettonia non ricorrono affatto a questa opzione di trattamento, e Crozia e Malta avviano a incenerimento solo 1.000 tonnellate di rifiuti urbani”.

La denuncia delle aziende del settore

Tre giorni prima l’intervento del ministro dell’Interno a Napoli sulla necessità di costruire termovalorizzatori per scongiurare un’emergenza rifiuti, su Affari e Finanza, inserto finanziario di Repubblica, era uscito un articolo in cui veniva riportato l’allarme di Valerio Camerano, amministratore delegato di A2a, la multiutility controllata dai comuni di Milano e Brescia, che gestisce anche i termovalorizzatori di Milano, Brescia, Bergamo, in provincia di Pavia e quello di Acerra, in provincia di Napoli (citato dal ministro nel suo intervento): «I termovalorizzatori non sono più in grado di ricevere altri rifiuti, se non a tariffe sempre più elevate. Così, per risparmiare per lo smaltimento ci si rivolge a società poco serie, per non dire di peggio: non ci si deve sorprendere poi se i rifiuti vengono bruciati nei capannoni».

Nell’articolo di Affari e Finanza si leggeva così che, in base al racconto degli stessi operatori del settore, il sistema è al collasso per una serie di motivi, “non ultima proprio il ‘successo’ della raccolta differenziata”: “I rifiuti – dopo la punta delle crisi economica di 4-5 anni fa – sono tornati ad aumentare (ndr l'articolo è uscito prima del nuovo rapporto Ispra con i nuovi dati), compresa la quota che viene recuperata. Ma anche quando il riciclo è organizzato al meglio, rimane sempre un 20-30 per cento (a seconda delle materie) che non può essere riutilizzata, neanche sotto forma di scarto e deve essere smaltita. Questo aumenta la pressioni sui termovalorizzatori nelle regioni del nord Italia (mentre al sud si continua a ricorrere alle discariche)”.

Mappa degli impianti di incenerimento, anno 2017. Fonte: Ispra

Altra concausa citata, la stretta decisa dalla Cina sulle importazioni dei rifiuti plastici e cartacei da altri paesi. Una pratica avviata da Pechino negli anni ‘80 per far crescere il proprio settore manifatturiero, ma da poco bloccata per timori di ripercussioni sul piano ambientale. Agi ha spiegato che secondo alcune ricerche, le esportazioni di plastica usata verso la Cina sono calate dalle 7,4 milioni di tonnellate importate nel 2016, a 1,5 milioni di tonnellate nel 2018.

Jacopo Giliberto lo scorso gennaio scriveva sul Sole 24 Ore che la conseguenze della decisione cinese si ripercuotono in tutta Europa e anche in Italia: "Plastica, carta, metalli raccolti con diligenza da milioni di europei, italiani compresi, fino a pochi mesi fa riempivano le navi per andare in Cina a riciclare. Ora la Cina sta chiudendo le frontiere dei residui riciclabili. Il mercato europeo dei prodotti rigenerati è troppo piccolo rispetto all’offerta smisurata di materiali da riciclare. Così in tutta Europa e anche in Italia la rigenerazione rallenta e i magazzini si intasano di materiali da riciclare che non trovano sbocchi di mercato". Inoltre, aggiungeva Giliberto in un articolo successivo, "al tempo stesso mancano gli impianti per smaltire questo avanzo colossale di materiali riciclabili inutilizzati, di spazzatura urbana, di scarti rigenerabili prodotti dalle imprese e non usati".

Per tutti questi motivi, le imprese del settore lamentavano nell’articolo di Affari e Finanza la mancanza di una strategia, chiedendo alla politica di puntare sulla costruzione di nuovi impianti di incenerimento: «Siamo fermi al decreto Sblocca Italia – ricorda dalla sede di A2a, Camerano – che prevedeva la costruzione di nuovi termovalorizzatori». Ma proprio su questa previsione, contenuta nell’articolo 35 della misura legislativa promossa dal governo Renzi nel 2014, il ministro dell’Ambiente ha annunciato che interverrà per superarla «per riaffermare il principio di prossimità di gestione dei rifiuti, per renderlo virtuoso». Sul punto, però, Stefano Pogutz, ricercatore del dipartimento di Management e Tecnologia dell’università Bocconi di Milano, intervistato da Wired, afferma: «Tutti vorremmo fare a meno degli inceneritori. Ma vista la produzione di rifiuti attuale è impossibile». Per il professore così nel concreto bisogna «prevenire l’overpackaging, massimizzare il recupero e il riciclo e gestire il residuo in maniera conforme alla salute dei cittadini e alla fattibilità economica», ma «non si può mettere la spazzatura sotto il tappeto e fare finta che non esista».

L’impatto sulla salute dei termovalorizzatori: cosa dicono gli studi?

Nel dibattito sui “pro” i “contro” degli impianti di incenerimento, il loro potenziale impatto sulla salute è il tema su cui si concentra la preoccupazione dell'opinione pubblica. Gli studi pubblicati finora hanno spesso restituito un quadro contrastante della questione, con conclusioni ed evidenze incerte e di difficile interpretazione.

Il progetto Moniter, promosso dalla Regione Emilia Romagna e coordinato dall'ARPA, è considerato lo studio più ampio e completo, tra quelli realizzati in Italia, sull'impatto ambientale e sanitario degli impianti di incenerimento dei rifiuti solidi urbani. Questo studio si è svolto tra il 2007 e il 2011 e ha coinvolto università e istituti di ricerca. Come spiega uno dei documenti che riportano i risultati, Moniter ha cercato di rispondere ad alcune domande scientifiche sugli inceneritori presi in esame (otto, distribuiti tra quasi tutte le province della regione): quali sono i principali inquinanti emessi; quanto le loro emissioni sono distinguibili da quelle prodotte da altre fonti di inquinamento atmosferico; quanto influiscono sulla qualità dell’aria e dell’ambiente vicino; quali conseguenze sulla salute comporta abitare nelle loro vicinanze.

Uno delle attività del progetto è stata la realizzazione di un “inventario” delle sostanze emesse dagli inceneritori, che comprendono classi di composti come gli idrocarburi policiclici aromatici, i metalli pesanti, le diossine. L'attenzione dei ricercatori si è rivolta in particolare all'´inceneritore del Frullo, nel comune bolognese di Granarolo dell'Emilia. Si tratta di un inceneritore entrato in funzione negli anni '70 e che tra il 2001 e il 2004 è stato oggetto di lavori di adeguamento e ristrutturazione. Il vecchio impianto è stato chiuso e alle nuove linee di combustione è stato affiancato un sistema di produzione di energia elettrica e di calore (l'inceneritore è quindi oggi anche un termovalorizzatore).

I ricercatori hanno studiato inoltre le emissioni di particolato (le cosiddette “polveri sottili”), cioè quelle particelle che si diffondono nell'aria e che sono capaci di assorbire sulla loro superficie molte sostanze, tra cui diversi noti inquinanti atmosferici. Il particolato PM10 e quello PM2,5 (i numeri indicano il diametro massimo delle particelle che compongono i due tipi particolato, in micrometri cioè millesimi di millimetro) sono quelli potenzialmente più pericolosi per la salute. Il PM10 è capace di penetrare nella parte superiore dell'apparato respiratorio, mentre il PM2,5 può percorrere l'intera lunghezza delle vie respiratorie fino agli alveoli polmonari.

Sul pianeta ci sono molte sorgenti di particolato di varie dimensioni sia allo stato solido che liquido. Molte fonti sono di origine naturale. Tra queste: eruzioni vulcaniche, incendi boschivi, sabbia e aerosol marino trasportati dai venti. Ma rispetto al problema dell'inquinamento atmosferico, sono soprattutto le fonti antropiche, cioè quelle dovute ad attività umane, a pesare. Mezzi di trasporto, impianti di riscaldamento delle abitazioni, degli edifici pubblici, commerciali, alcune industrie, perfino il materiale che si deposita sulle strade in seguito all'usura dell'asfalto e degli pneumatici, sono tra le principali fonti di particolato e di inquinanti atmosferici. Valutare l'impatto dei soli inceneritori in un contesto, come la pianura padana, caratterizzato da una forte urbanizzazione, non è semplice proprio perché il particolato e uno stesso composto inquinante possono originare da molte fonti.

Un importante obiettivo di Moniter è stato perciò quello di stimare quanto incidono le emissioni degli inceneritori sulla qualità dell'aria che si respira in un'area geografica. A questo scopo sono stati applicati dei modelli per calcolare la ricaduta degli inquinanti nell'intorno di un inceneritore. Sono state individuate sul suolo coppie di punti a diversa distanza dall'impianto: un punto dove l'impatto stimato fosse massimo e un altro dove fosse minimo. L'idea dei ricercatori era che eventuali differenze nella concentrazione di inquinanti in quei due siti fossero da attribuire alla loro diversa distanza dalla sorgente, cioè dall'inceneritore. Nelle relazioni che riportano i risultati del progetto si legge che le misurazioni effettuate non hanno rilevato una differenza significativa. Le misurazioni sono state ripetute in diversi giorni della settimana e in diversi periodi dell'anno. Il risultato è stato che:

L’andamento dell’inquinamento atmosferico durante le ore della giornata, sia nel periodo invernale che estivo, sia nei giorni feriali che festivi, è risultato compatibile con le emissioni delle attività tipicamente urbane e in particolare del traffico veicolare.

Anche l'analisi chimica del particolato, eseguita allo scopo di trovare un composto “marcatore” che consentisse di distinguere le emissioni dell'inceneritore da quelle di altre fonti, non ha fornito particolari evidenze. Non è quindi stato possibile riconoscere, sia in campioni di inquinanti in aria che sul suolo, una traccia che fosse chiaramente riconducibile alla presenza dell'inceneritore. Ciò non significa che dagli inceneritori non esce nessun inquinante, ma che i sistemi di abbattimento delle emissioni, quando sono efficienti, riescono a contenerle (almeno negli impianti presi in esame da Moniter). L'inceneritore del Frullo si è dimostrato essere addirittura un “distruttore di diossine”. Le quantità emesse dall'impianto, secondo le stime effettuate, sono inferiori rispetto a quelle in entrata e al di sotto dei limiti di legge. Sono stati realizzati anche modelli per studiare come si sono evolute le emissioni di inquinanti nel tempo. Una mappa mostra quale fosse l'impatto, sul territorio circostante, delle emissioni dell'inceneritore del Frullo nel periodo tra il 1987 e il 1990 rispetto al 2006, dopo il rinnovamento degli impianti. Appare chiara la differenza a distanza di un ventennio. Notano gli autori:

L’analisi delle mappe del solo inceneritore ha mostrato un trend temporale decrescente della ricaduta sul territorio, mano a mano che le tecnologie di abbattimento aumentavano di efficacia.

Ottenere un quadro il più possibile realistico dell'impatto ambientale degli inceneritori è stato un passaggio fondamentale per capire quali effetti potrebbe avere questo impatto sulla salute della popolazione. I ricercatori di Moniter hanno condotto un'indagine epidemiologica sui residenti in un’area di quattro chilometri di raggio attorno a tutti gli inceneritori dell'Emilia Romagna coinvolti nello studio. Hanno studiato gli effetti nel breve periodo sulla riproduzione (nascite prima del termine della gravidanza, malformazioni, aborti) in una popolazione di nati tra il 2003 e il 2006 e gli effetti a lungo termine sulla salute della popolazione. Riguardo agli effetti sulla riproduzione, il “segnale” epidemiologico più significativo di una possibile associazione con la vicinanza agli inceneritori è stato riscontrato per i casi di nascite pretermine.

Questa correlazione è apparsa significativa dal punto di vista statistico e dipendente dai livelli di esposizione. Il rischio di nascite pretermine sembra quindi aumentare quanto più si è vicini agli inceneritori. Un'associazione simile, anche se meno forte, è stata riscontrata anche riguardo al rischio di aborti spontanei. Lo studio della possibile associazione tra inceneritori e malformazioni si è invece scontrato con la difficoltà di trovare dati affidabili sui nati malformati nell'area geografica che è stata studiata, perciò, come osservano gli autori, non ci sono evidenze che permettano di raggiungere conclusioni a riguardo.

Lo studio degli effetti a lungo termine si è concentrato sul rischio di sviluppare tumori, in particolare quelli noti nella letteratura scientifica per una loro possibile correlazione con le emissioni degli inceneritori. Gli autori scrivono che «nel complesso, lo studio non ha messo in evidenza una coerente associazione tra livelli di esposizione e mortalità o incidenza di tumori». L'assenza di una «coerente associazione» significa che non sono emerse evidenze che permettessero di associare i livelli crescenti di esposizione agli inceneritori e alcuni dei tumori indagati nelle popolazioni di residenti considerate. Ad esempio, per il linfoma non-Hodgkin è stata individuata un'associazione nella sola popolazione di Modena che non è tuttavia confermata in altre aree. Anche per i tumori al fegato e al pancreas sono state misurate possibili associazioni, ma nel complesso «non è possibile valutare il rapporto di causalità».

Se per l'associazione con malattie tumorali «i risultati sono complessivamente rassicuranti», concludono gli autori, sugli effetti a breve termine sui nuovi nati rimane invece una domanda scientifica a cui lo studio Moniter non sembra essere riuscito a trovare una risposta. Se infatti, come ha dimostrato lo stesso studio, l'impatto degli inceneritori sulla qualità dell'aria, grazie al miglioramento delle tecnologie occorso negli ultimi decenni, è relativamente così meno importante rispetto a quello di altre fonti di inquinanti, rimane difficile spiegare in che modo possa determinare, come suggeriscono le evidenze,  quella correlazione significativa con i casi di nascite pretermine. È un problema che il progetto Moniter ha lasciato ancora senza soluzione. Anche una revisione degli studi presenti in letteratura, pubblicata da altri autori dopo la fine del progetto, afferma che sugli effetti sulla salute dei neonati non è possibile trarre conclusioni. D'altra parte, come dichiara il Comitato scientifico del progetto, anche «la mancata dimostrazione di effetti a lungo termine non significa dimostrazione di rischio zero»

Sugli inceneritori e il loro impatto sulla salute risulta ancora complesso trovare tutte le risposte, ma una cosa è certa: l'inquinamento atmosferico è una delle questioni ambientali e sanitarie più serie e urgenti che dobbiamo affrontare in Italia e in Europa. Ma paradossalmente proprio un dibattito concentrato solo sui termovalorizzatori, rischia di rendere più difficile, per l'opinione pubblica, comprendere il problema della qualità dell'aria nella sua reale portata e gravità. Quando si parla di inquinamento atmosferico gli inceneritori vengono percepiti dalla popolazione come la minaccia più immediata e grave per la propria salute. La loro stessa presenza incute timore e suscita, comprensibilmente, preoccupazioni e domande. Ma gli inceneritori, come abbiamo già evidenziato, sono soltanto una delle numerose fonti di inquinanti atmosferici. E possiamo affermare, come ha evidenziato anche lo studio Moniter, che non sono tra quelle che più incidono sulla qualità dell'aria complessiva.

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Come si legge nel Rapporto sulla qualità dell'aria in Europa, pubblicato dall'Agenzia Europea dell'Ambiente, il riscaldamento delle abitazioni e degli edifici pubblici e commerciali e il traffico veicolare sono le fonti percentualmente più “pesanti” rispettivamente di PM10 – PM2,5 e di ossidi di azoto (39-56% e 39%, rispettivamente). L'Agenzia scrive che «nonostante i lenti miglioramenti, l’inquinamento atmosferico continua a superare i limiti e gli orientamenti dell’Unione europea e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e rappresenta ancora un pericolo per la salute umana e per l’ambiente». Si stima che nel 2015 in 41 paesi europei si siano verificate 422mila morti premature attribuibili alle concentrazioni del solo particolato PM2,5 (391mila nei 28 paesi membri dell’Unione Europea). Più di 60mila in Italia.

L'indice della qualità dell'aria in Lombardia dello scorso 3 dicembre. Fonte: ARPA Lombardia

La pianura padana è tra le aree geografiche europee in cui durante l'anno si registrano i livelli peggiori di qualità dell'aria, sebbene la situazione sia migliorata nel corso dell'ultimo decennio. I risultati del progetto europeo ESCAPE dimostrano ormai chiaramente che l’inquinamento atmosferico da particolato PM10 e PM2,5 aumenta il rischio di sviluppare il cancro al polmone, perfino quando le concentrazioni di questi inquinanti nell’aria sono al di sotto dei limiti stabiliti dalle leggi.

Foto in anteprima via Ansa, incendio di rifiuti tra Napoli e Caserta di luglio 2018

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