La ricerca in Italia: “Siamo destinati alla desertificazione tecnologica e scientifica”
14 min letturadi Angelo Romano e Andrea Zitelli
«Un’altra ottima notizia per la ricerca in Italia». Così ha scritto il 12 febbraio scorso Stefania Giannini, ministro dell’Istruzione, riferendosi alle borse totali ottenute dai ricercatori italiani grazie all’importante bando europeo ERC Consolidator che ha assegnato quasi 600 milioni a oltre 300 scienziati da quasi tutto il mondo.
Un'altra ottima notizia per la ricerca italiana. Colpisce positivamente il dato del numero di borse totali ottenute dai...
Pubblicato da Stefania Giannini su Venerdì 12 febbraio 2016
L’ottimismo della ministra però, si scontra presto con la realtà della situazione della ricerca in Italia. Uninews24.it, poche ore dopo la pubblicazione del post della Giannini, ha infatti denunciato:
(...) Si complimenta con le vincitrici e i vincitori italiani dell'importantissimo bando europeo ERC Consolidator: 30 in tutto, secondi solo ai tedeschi e agli inglesi (e parimerito con i francesi). Ma laddove i nostri ricercatori si sono difesi alla grande, lo stesso non si può dire del nostro paese: dei 30, solo 13 rimarranno in Italia a sviluppare il progetto, e nessun vincitore straniero raggiungerà l'Italia per sviluppare il suo progetto.
Un dato, aggiunge il sito del quotidiano nazionale universitario, verificabile nelle stesse statistiche pubblicate dal ministero dell’Istruzione sul social network.
Inoltre, proprio una delle ricercatrici vincitrici della prestigiosa borsa di studio di 2 milioni di euro, Roberta D’Alessandro, è intervenuta, sempre tramite un post su facebook, per chiedere al ministro Giannini di non vantarsi dei risultati che non appartengono allo Stato Italiano (in questa intervista la ricercatrice spiega la sua storia). «I ministri non si vantano, i ministri esprimono soddisfazione e apprezzamento per il risultato di una comunità scientifica, di cui la ricercatrice Roberta D’Alessandro, come tutti gli altri, fa parte», ha poi ribattuto Giannini.
Ministra, la prego di non vantarsi dei miei risultati. La mia ERC e quella del collega Francesco Berto sono olandesi,...
Pubblicato da Roberta D'Alessandro su Sabato 13 febbraio 2016
Una situazione, comunque, che si era già ripetuta anche due anni prima, spiega Marco Cattaneo, direttore del settimanale Le Scienze, in un lettera rivolta sempre al ministro Giannini: «Non si può nemmeno fingere di non sapere che lo stesso disastro si è verificato due anni fa, quando i grant ERC Consolidator assegnati a ricercatori italiani furono 46, di cui 26 a «cervelli in fuga», come vi piace chiamarli. Allora erano 26 su 46, il 56,5 per cento. Oggi sono 17 su 30, il 56,7. Nulla è cambiato».
Marzio Bartolini sul il Sole 24 ore considera un ulteriore importante aspetto della questione. Il problema, scrive il giornalista, non è tanto che di questi 30 vincitori italiani solo in 12 abbiano deciso di restare nei laboratori in Italia, perché questo è «un fatto questo di per sé normale visto che la scienza non ha confini e la mobilità nella ricerca è anche sana», ma che «praticamente nessuno viene in Italia a fare la ricerca: in questo bando solo una ricercatrice straniera ha scelto l’istituto Firc di oncologia molecolare di Milano. Mentre tra i 67 ricercatori che hanno deciso di fare ricerca in Inghilterra ben 43 vengono da un altro Paese», insieme a Germania, Francia e Olanda tra le mete più scelte dai ricercatori.
Come raccontava Maria Carolina Brandi, ricercatrice del Irpps-Cnr (l'Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche) nel 2012 in un'audizione davanti il Comitato per le questioni degli italiani all'estero del Senato:
La dimensione quantitativa del fenomeno dell'emigrazione dei ricercatori e dei laureati, purtroppo, è fino ad oggi molto poco chiara. Non esiste a tutt'oggi, sia in Italia, sia nei Paesi di accoglienza, un censimento completo o una statistica su questo fenomeno. È però indiscutibile e assodato che i flussi di ricercatori e laureati italiani verso l'estero sono molto maggiori rispetto a quelli degli studiosi stranieri, laureati o studenti che prendono la laurea presso le nostre università, che invece entrano in Italia. Alcune stime indicano che, se si manterranno i flussi attuali, l'Italia perderà 12mila ricercatori laureati entro il 2015 e ben 30mila entro il 2020, mentre alla stessa data entreranno poche migliaia di ricercatori laureati stranieri.
Tra le cause, spiega Fernando Perroni, alla guida dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, al giornalista del Sole 24 ore, ci sono gli stipendi che offre l'Italia a chi vuole venire a fare ricerca qui da noi: «Ogni anno abbiamo deciso di bandire 50 post-doc per giovani ricercatori stranieri e offriamo 40mila euro annui contro i 20mila eurodei normali assegni di ricerca italiani».
Una questione che si somma alle proteste e al fermento che da mesi stanno contraddistinguendo il mondo delle ricerca all’interno dell’università italiana. A fine gennaio l’iniziativa lanciata dal Coordinamento delle ricercatrici e dei ricercatori non strutturati universitari (Crnsu) ha fatto partire la protesta sui social con l’hashtag #ricercaprecaria.
Al via la campagna di mobilitazione x il riconoscimento della #ricercaprecaria come #lavoro https://t.co/zbstPhdx5e pic.twitter.com/KU9lE1o5bG
— RicercaNoNstrutturat (@CoordNonStrutt) February 2, 2016
Una risposta, questa, di contrasto alla decisione della Commissione Bilancio della Camera di bocciare, nel dicembre scorso, un emendamento all’interno dell’ultima legge di stabilità che estendeva la DIS-COLL (cioè l'indennità di disoccupazione per i precari introdotta dal Jobs Act) anche ai dottorandi, ai borsisti e agli assegnisti di ricerca. «Il primo obiettivo della mobilitazione lo abbiamo raggiunto – racconta a Il Manifesto una sociologa precaria che lavora in un centro universitario di studi di genere –: stiamo facendo parlare di noi [...]. Vogliamo dimostrare la qualità e quantità del lavoro che facciamo nei dipartimenti ma che resta costantemente invisibile».
Un’ulteriore battaglia all’interno delle università italiane è contro la «valutazione della qualità della ricerca» (VQR) (a cui si unisce anche quella contro il blocco degli stipendi, da parte di ricercatori e professori associati), che avrebbe la scopo di classificare le università migliori in base alla produzione scientifica, come operazione di trasparenza utile a studenti e genitori e per assegnare alle più meritevoli parte del Fondo di finanziamento ordinario. «A ogni docente – spiega Orsola Riva sul Corriere della sera – è stato chiesto di presentare due pubblicazioni effettuate fra il 2011 e il 2014 e di inviarle all’Anvur, l’organismo indipendente che è stato incaricato dal ministero di valutare la ricerca in base a un criterio bibliometrico che incrocia il numero di citazioni su riviste scientifiche internazionali con il prestigio delle stesse». Ma da tempo questa procedura viene criticata perché ritenuta non valida per gli obiettivi che si prefigge.
#stopVQR: “Dopo i tagli, le valutazioni folli. È esplosa la rivolta dei docenti” https://t.co/Kz7T6b8jfA pic.twitter.com/b19Osz5JPc
— ROARS (@Redazione_ROARS) February 7, 2016
Spiega infatti Giuseppe Mingione, docente di Analisi Matematica all’università di Parma e tra i matematici più citati al mondo, al giornalista del Corriere che «ci sarebbe da dire qualcosa sui criteri della Vqr. In questi quattro anni ho prodotto 16 lavori di prima fascia (il massimo per la Vqr). Perché devo limitarmi a presentarne due? È come se durante una partita di calcio un giocatore venisse messo in panchina dopo che ha segnato due gol». «Inoltre – continua il matematico – la Vqr prende in considerazione un periodo di tempo troppo breve, almeno per alcuni settori. Io scrivo cose che richiedono tempo per essere capite. Le mie ricerche più citate sono di 15 anni fa». Ma per Mingione il punto più importante è un altro: «È illogico pretendere di valutare la ricerca su standard internazionali quando il livello dei fondi è da Terzo Mondo».
Una criticità, quest’ultima che ha spinto Giorgio Parisi, fisico teorico della Sapienza Università di Roma, uno degli scienziati più importanti al mondo, a chiedere un aiuto all’Unione Europea, tramite una lettera sulla rivista Nature e una petizione su Change.org, per salvare la ricerca in Italia. «L’Italia — si legge nella petizione — investe pochissimo in ricerca. Gli scienziati invitano l’Unione Europea a fare pressione sul Governo Italiano perché finanzi adeguatamente la ricerca in Italia e porti i fondi per la ricerca a un livello superiore a quello della pura sussistenza».
Spiega ancora Parisi, intervistato da Il Manifesto, che «dal 2008 ad oggi, il fondo ordinario per gli atenei, tenendo conto dell’inflazione, è sceso di circa il 20%, quasi un miliardo e mezzo di euro in meno». Il risultato sui ricercatori, aggiunge il fisico, è che a causa di questi tagli «sono mancate 15 mila assunzioni di giovani ricercatori. Cinquemila già ne mancavano nel 2006, con i tagli sono quasi 20 mila».
Per tutti questi motivi, scrive Elena Cattaneo, direttrice del laboratorio di Stem Cell Biology and Pharmacology of Neurodegenerative Disease e senatrice a vita, il progetto lanciato mercoledì 24 febbraio dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, di fare dell'ex area Expo un centro di ricerca di rilevanza mondiale, chiamato Human Technopole, su cui nei prossimi 10 anni saranno investiti un miliardo e mezzo di euro, «fa sorgere il dubbio di essere spettatori della famosa favola dei fratelli Grimm», quella cioè del pifferaio magico:
Mentre la ricerca agonizza, spunta lo Human Technopole. Il presidente del Consiglio lo ha tirato fuori dal cilindro mesi fa definendolo "centro di ricerca mondiale su sicurezza alimentare, qualità della vita, ambiente" e affidandone (alla cieca) la gestione all'Istituto italiano di Tecnologia (Iit) di Genova, fondazione di diritto privato. Per cui, mentre i ricercatori pubblici nemmeno sanno se ci saranno per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica nel 2016, un ente di diritto privato avrà garantiti 150 milioni di euro all'anno per dieci anni (ma allora le risorse ci sono!). [...] Risorse pubbliche per la ricerca "dormienti" depositati presso un fondo privato.
Un paese inospitale per la ricerca?
La ricerca pubblica in Italia ruota, fondamentalmente, intorno alle università e ad alcuni enti pubblici di ricerca. Il principale è il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), il cui governo spetta al ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (MIUR).
Nel complesso, la spesa per la ricerca e lo sviluppo in Italia è tra le più basse in Europa. Secondo l’Ocse, infatti, l’Italia nel 2012, tra pubblico e privato, ha investito in ricerca l'1,26% del suo Prodotto Interno Lordo (PIL), contro una media Ue dell’1,98% e Ocse del 2,4%.
Anche il sostegno dei privati alla ricerca scientifica, pari al 52% della spesa nazionale, è uno dei più bassi d’Europa. Come ha fatto notare l’Agenzia nazionale per la valutazione dell'università e della ricerca (Anvur) nel suo rapporto su università e ricerca del 2013, si tratta di una quota «particolarmente modesta» rispetto alla media Ue, che si attesta intorno al 62%.
Questo significa, scrive Francesco Sylos Labini, che senza l’intervento dello Stato, l’Italia «è destinata alla desertificazione tecnologica e scientifica».
Per far fronte alla limitatezza delle risorse finanziarie e alla diminuzione progressiva di docenti e ricercatori, il ministro Giannini ha annunciato un finanziamento di 2 miliardi fino al 2017: «L’approvazione del Programma Nazionale della Ricerca segnerà una prima inversione di tendenza stanziando nei prossimi anni, fino al 2017, due miliardi di euro nei principali pilastri della internazionalizzazione, capitale umano, infrastrutture per la ricerca, Mezzogiorno, partnership pubblico privato». Ma commenta Giorgio Parisi: «Di Pnr ne abbiamo visti tanti ma quasi mai in passato sono stati realizzati. Ricordo che ne fece uno anche Gelmini, con scarsi risultati. In attesa degli annunci, resto ai fatti».
I finanziamenti all’università
La principale voce del bilancio pubblico che dà fondi alle università è il Fondo di finanziamento ordinario (FFO), istituito nel 1993. L'FFO riguarda le spese per la ricerca scientifica, il funzionamento e le attività istituzionali delle università, le spese per i professori, i ricercatori e il personale non docente e per l’ordinaria manutenzione delle strutture universitarie. Si compone di una quota base, da ripartirsi tra le università in misura proporzionale, e una quota premiale non inferiore al 20% per il 2016 e che aumenterà ogni anno del 2% fino a massimo del 30%.
Di tale quota almeno tre quinti sono ripartiti tra le università sulla base dei risultati della Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR), un quinto sulla base della valutazione delle politiche di reclutamento universitario fatte dall'Anvur.
Dagli anni della crisi, scrive Giovanni Zagni su Linkiesta, «il FFO ha avuto una tendenza alla riduzione, con un taglio tra il 2009 e il 2010 di oltre 800 milioni di euro». Tra il 2014 e il 2015 si è registrato un ulteriore taglio di circa 100 milioni di euro.
Il Fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica (FIRST) finanzia i Progetti rilevanti di interesse nazionale (PRIN). Si tratta di progetti di ricerca pubblica di base, che per complessità e obiettivi possono richiedere la collaborazione tra più professori o ricercatori e tra più atenei.
Anche i fondi destinati ai PRIN hanno conosciuto una drastica riduzione tra il 2010 e il 2012, a cavallo dell'ultimo governo Berlusconi. «Prima – scrive Sylos Labini sul Fatto quotidiano – i finanziamenti erano biennali e consistevano mediamente in più di 100 milioni all’anno; dopo c’è stato un calo drastico di più della metà. I ministeri Profumo, Carrozza e Giannini non hanno eliminato il taglio effettuato dal ministro Gelmini ma anzi hanno ulteriormente diminuito il finanziamento». Con questi fondi, i vincitori dei Prin riescono in media a pagare la ricerca di un solo giovane ricercatore.
Infine, il Fondo per gli investimenti della ricerca di base (FIRB) finanzia progetti di ricerca di base ad alto contenuto scientifico e tecnologico, con valenza internazionale. In altre parole, si tratta di ricerche che non hanno fini applicativi, che non devono produrre brevetti da vendere a industrie, per esempio, ma che sviluppano conoscenze nei più svariati campi del sapere. In questa cornice, rientrava il bando "Futuro in Ricerca", destinato a progetti proposti da giovani studiosi under 40 non ancora ricercatori.
Nel 2016, scrive la senatrice a vita Elena Cattaneo, al fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica del Miur sono stati destinati 58,8 milioni di euro, con una riduzione di circa due milioni ogni anno fino al 2018: «Con questa quota il Miur finanzierà sia i Prin sia il Fondo per gli investimenti della ricerca di base (Firb). Quindi a voler essere ottimisti, se un altro bando ci sarà, sarà al ribasso. Con queste risorse irrisorie i ricercatori lavorano per ottenere dati necessari per essere competitivi nei bandi europei».
I ricercatori in Italia: pochi e sempre più anziani
Rispetto alla media europea, il numero dei ricercatori in Italia è piuttosto basso. Secondo i dati Ocse del 2013, ci sono poco più di 4 ricercatori ogni 1000 occupati.
Una delle anomalie delle università italiane è stata, infatti, la sproporzione tra il numero di ricercatori e quello dei professori associati e ordinari. La logica vorrebbe, scrive ancora Zagni, che «la struttura dei docenti universitari fosse simile a una piramide: molti ricercatori, relativamente meno associati, ancora meno professori ordinari, il grado massimo della carriera accademica». Invece, per anni le politiche di reclutamento hanno fatto sì che ci si trovasse con pochi ricercatori e un gran numero di ordinari, di gran lunga superiore agli associati. Una sproporzione che sembra essersi ridotta non per l'assunzione di più ricercatori ma, da quando il numero dei docenti è cominciato a calare, per l’aumento dei pensionamenti e il blocco del turn-over.
Inoltre, scrive l'Anvur nel rapporto citato in precedenza, negli ultimi 25 anni il processo di innalzamento dell'età media è stato continuo e tutt'ora in corso. Nel 2013, l'età media dei ricercatori (il gradino d'ingresso nell'università) superava i 46 anni. Più in generale, l'età media di tutto il corpo docente raggiunge i 52 anni. Tra i professori ordinari, solo in sei negli atenei statali hanno meno di 40 anni.
La produttività della ricerca in Italia: di qualità ma con poche risorse
Un modo per poter valutare la qualità della ricerca di un nazione è la misurazione della sua produttività, cioè la capacità di convertire le risorse a disposizione (la spesa di una nazione in Ricerca e Sviluppo e il capitale umano dedicato – i ricercatori e i docenti universitari) in risultati: il numero degli articoli scientifici pubblicati e delle loro citazioni su riviste accreditate a livello internazionale.
Uno degli studi più recenti in materia è il saggio “The Scientific Competitiveness of Nations”, a cura di Giulio Cimini, Andrea Gabrielli e Francesco Sylos Labini. Per misurare la competitività scientifica delle diverse nazioni, i tre studiosi hanno incrociato i dati delle citazioni degli articoli pubblicati nei diversi ambiti di ricerca con quelli riguardanti gli investimenti in ricerca per ciascuna nazione (censiti dall’Ocse) e la percentuale del numero di ricercatori rispetto alla popolazione di ogni singolo Stato. Il risultato, scrivono i tre autori del saggio, consente di capire la struttura, l’efficienza e la competitività dei sistemi nazionali di ricerca.
Il numero di articoli, scrive Sylos Labini, è, infatti, correlato all’attività svolta mentre il numero di citazioni ricevute testimonia la significatività delle ricerche fatte. Inoltre, «quando si confrontano paesi molto differenti (come gli Stati Uniti e la Svizzera) bisogna tener conto che la produzione scientifica globale dipende dalle dimensioni del paese stesso».
Lo studio giunge alla conclusione che quanto più si spende in ricerca, maggiore è l’indice di produttività scientifica, cioè il numero di articoli scientificamente validi. In questa speciale classifica, l’Italia si posiziona piuttosto bene.
Nel 2013, il Department of Business, Innovation and Skills (BIS) del Governo britannico ha pubblicato il rapporto "International Comparative Performance of the UK Research Base – 2013". Lo studio, che ha utilizzato una metodologia simile ai tre studiosi italiani, ha messo a confronto i sistemi della ricerca applicata e di base di 11 paesi (Regno Unito, Canada, Cina, Francia, Germania, Italia, Giappone, Stati Uniti, Brasile, India e Russia), comparando tra di loro diversi indicatori, come la quantità e la natura dei finanziamenti alla ricerca e all’università, il numero di docenti e ricercatori coinvolti, le performance dell’attività di ricerca (inclusi articoli e citazioni) in un arco di tempo che va dal 2008 al 2012.
I dati mostrano che la produttività dei ricercatori italiani è di buon livello sia in termini di articoli scientifici sia di citazioni. L’Italia ha, infatti, pubblicato 3,5 articoli per ogni milione di dollari investito in ricerca e sviluppo, registrando livelli di produttività e tassi di crescita molto simili al Canada e secondi solo al Regno Unito.
Anche per quanto riguarda il numero delle citazioni (poco più di 30 citazioni per milione di dollari investito in ricerca e sviluppo), l’Italia è seconda solo al Regno Unito e, insieme al Canada, ha avuto i più alti livelli di produttività.
Per quanto riguarda il rapporto tra articoli pubblicati e investimenti nel settore universitario, nel 2012 l’Italia ha registrato un livello di produttività molto simile al Regno Unito, con quasi 12 articoli. Cina e Russia sono i due paesi che pubblicano il maggior numero di articoli per fondi destinati all’università sebbene le loro performance siano in fase discendente. Nell’analisi di questo particolare dato si fa riferimento all’università dove il ricercatore lavora.
L’università britannica ha fatto registrare il più alto numero di citazioni, 141 per milione di dollari, il 3,49% in più per anno dal 2008 al 2012. L’Italia ha segnato un lieve incremento attestandosi intorno alle 100 citazioni.
Dai dati sulla produttività emerge che la ricerca accademica italiana mantiene livelli di qualità e quantità elevati nonostante i finanziamenti ridotti. Come scrive Alberto Magnani su Il Sole 24 ore, si tratta di «un dato positivo a prima vista, ma allarmante in prospettiva».
La progressiva riduzione degli investimenti ha infatti un triplice impatto: mette sempre più a rischio la tenuta dell’intero sistema accademico e scientifico, con pochi poli d’eccellenza che si salvano e gran parte degli ambiti di ricerca in affanno e che rischiano di chiudere i battenti, influisce sulla scarsa capacità della nostra ricerca di incidere sull’ecosistema economico, crea le condizioni per la cosiddetta “fuga” di personale scientifico e tecnologicamente qualificato all’estero.
Dall'altro lato – si legge nella ricerca del 2012 "Brain Drain, Brain Exchange, Brain Circulation. Il caso italiano nel contesto globale", a cura dell'Aspen Institute – vi è la scarsa capacità del sistema Italia di attrarre capitale umano qualificato dal resto del mondo. La perdita di talenti italiani, unita all’incapacità di attrarre cervelli stranieri, penalizza fortemente il Paese nel contesto di un mondo globalizzato che compete sempre più sulla base della conoscenza e dell’innovazione.