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Ricerca e innovazione: l’Italia è in grave ritardo, il Recovery Plan è la grande occasione per aumentare drasticamente gli investimenti

25 Febbraio 2021 11 min lettura

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Ricerca e innovazione: l’Italia è in grave ritardo, il Recovery Plan è la grande occasione per aumentare drasticamente gli investimenti

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La pandemia ha evidenziato quanto sia fondamentale il ruolo della ricerca e dell’innovazione per un paese, non solo dal punto di vista sanitario. 

Il 17 febbraio scorso, nel suo discorso per la fiducia in Parlamento, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha sottolineato questo aspetto, dicendo che «occorre investire adeguatamente nella ricerca» visto «l’impatto che produce sulla nuova conoscenza e sui nuovi modelli in tutti i campi scientifici». Ma l’ex presidente della Banca centrale europea è rimasto piuttosto vago sugli interventi da mettere in campo.

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Ad oggi quali sono i numeri della ricerca italiana? Come siamo messi in un confronto con gli altri Paesi europei e del mondo? Da anni ormai i dati sono tutto fuorché incoraggianti. Gli oltre 200 miliardi di euro di aiuti per la ripresa provenienti dall’Ue sono dunque un’occasione imprescindibile per rilanciare la ricerca del nostro paese. Alcune idee su quanto e come investire in questo settore sono già state avanzate – analizzeremo nel dettaglio il “Piano Amaldi” – ma non mancano dubbi e criticità sul Recovery plan italiano.

La spesa dell’Italia in ricerca cresce poco

Quando si parla di ricerca, si fa di solito riferimento all’espressione “ricerca e sviluppo” (R&S), che comprende tutte quelle attività creative svolte per sviluppare nuove conoscenze o per utilizzare conoscenze preesistenti per nuove applicazioni.

Secondo i dati Istat più aggiornati, nel 2018 in Italia la spesa complessiva in “ricerca e sviluppo” è stata di 25,2 miliardi di euro, una cifra che equivale a poco più dell’1,4% del Pil (per il 2019 le previsioni parlano di una cifra intorno ai 25,9 miliardi) e che tiene conto sia dei soldi pubblici che di quelli privati.

Negli ultimi anni la spesa italiana in “ricerca e sviluppo”, in percentuale rispetto al Pil, ha registrato un continuo aumento, sebbene piuttosto contenuto. Il contributo maggiore è stato perlopiù quello delle imprese, che ha continuato a crescere nel tempo, mentre quello dello Stato no. 

In rapporto al Pil, la spesa statale dell’Italia in ricerca è di poco inferiore allo 0,5% del Pil (circa 9 miliardi di euro), abbastanza stabile negli ultimi anni. Come vedremo più avanti, è proprio su questa componente che si concentrano le richieste di aumento dei fondi.

Nel 2018 le imprese e il no profit nel nostro paese hanno contribuito per quasi il 65% (oltre 15 miliardi di euro) alla spesa complessiva in ricerca e sviluppo, ma secondo le previsioni Istat la crisi della Covid-19 causerà molto probabilmente un calo.  

Nel nostro paese la principale voce di spesa è quella della ricerca applicata – ossia quella finalizzata a una specifica applicazione – con 10,3 miliardi di euro (il 40,9% sul totale). Al secondo posto c’è lo sviluppo sperimentale – destinato alla creazione o al perfezionamento di nuovi prodotti o servizi – con 9,5 miliardi (37,7 %). Infine, in terza posizione c’è la ricerca di base – finalizzata in primo luogo all’ampliamento delle conoscenze e citata da Draghi in Parlamento – con circa 5,4 miliardi (21,4%). Quest’ultimo dato è rimasto pressoché stabile negli ultimi anni. La ripartizione delle risorse riflette la dinamica indicata sopra: alla ricerca applicata e allo sviluppo sperimentale vanno più risorse, dal momento che la fonte di maggiore investimento per la spesa in “ricerca e sviluppo” sono le imprese e i privati. 

Come abbiamo visto negli approfondimenti dedicati all’occupazione e alla povertà in Italia, anche nella spesa per “ricerca e sviluppo” esistono grandi differenze territoriali. Più di un terzo delle risorse vengono infatti utilizzate nel Nord-Est, mentre il Sud e le Isole contribuiscono per meno di un sesto. Lombardia, Lazio, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte da sole valgono circa 17,2 miliardi di euro di spesa in ricerca, quasi il 70% sul totale.

La spesa in ricerca e sviluppo per regione, in rapporto al Pil – Fonte: Istat

Ricapitolando: l’Italia, tra pubblico e privato, investe nella ricerca circa l’1,4% del Pil, una cifra leggermente in aumento negli ultimi anni,  vista la crescita del contributo dato dalle imprese. La maggior parte delle risorse va alla ricerca applicata, mentre la ricerca di base – finanziata perlopiù dallo Stato – riceve circa 5,4 miliardi di euro. Nel complesso, di recente non sembra esserci stato un netto cambio di marcia negli investimenti per la ricerca, e questo – come vedremo tra poco – ha portato alla nascita di proposte che chiedono allo Stato italiano di intervenire con maggiore forza in questo settore. 

Ma queste richieste sono giustificate alla luce di un confronto con gli altri Paesi europei e del mondo? La risposta è sì.

Spendiamo meno della media Ue e di quella Ocse

Per avere un ordine di grandezza su quanto spendono gli altri Stati avanzati in “ricerca e sviluppo”, possiamo utilizzare i dati più aggiornati dell’Ocse. Mentre l’Italia spende in questo ambito, come abbiamo visto, poco più dell’1,4% del suo Pil, in Francia questa percentuale è del 2,2%, in Germania del 3,1% e nel Regno Unito dell’1,7%. Tranne la Spagna (1,2%), facciamo peggio di tutti gli altri grandi Paesi europei, e siamo a livelli inferiori rispetto alla media Ue, che si attesta intorno al 2,2%.

La spesa in “ricerca e sviluppo” rispetto al Pil – Fonte: Ocse

Come si vede dall’andamento del grafico, a parte la Germania, l’evoluzione della spesa in “ricerca e sviluppo” tra i grandi Stati europei è stata abbastanza piatta, così come l’evoluzione della media Ocse (linea nera, 2,4% nel 2018). Secondo i dati più aggiornati, i Paesi che spendono di più al mondo in “ricerca e sviluppo” – contando pubblico e privato – sono Israele (4,9% del Pil) e Corea del Sud (4,5%, percentuale più che raddoppiata rispetto al 2,1% registrato all’inizio degli anni Duemila). Un discorso analogo vale anche per la sola componente di spesa pubblica. Senza contare le imprese, dunque, siamo comunque indietro rispetto agli altri.

Pure in base ai dati sui ricercatori siamo nelle retrovie, se paragonati a Paesi simili al nostro. Secondo i dati Ocse, in Italia ci sono 6 ricercatori ogni mille occupati. In Francia sono 10,9, in Germania 9,7, nel Regno Unito 9,4 e in Spagna 7,1. Inoltre, i nostri ricercatori sono anche più anziani rispetto a quelli degli altri Paesi. 

Questa dinamica non è nulla di nuovo: da decenni infatti si sente ripetere che l’Italia impegna meno risorse nella ricerca rispetto a molti altri Paesi avanzati. Quali sono le cause di questa disparità?

«Per quanto riguarda la componente privata, il problema sembra imputabile al tardivo sviluppo industriale, alla specializzazione internazionale in settori dove la competitività non risiede principalmente nella tecnologia e alla scarsa presenza di grandi imprese con risorse sufficienti per finanziare progetti di lungo periodo», hanno sintetizzato alcuni ricercatori del Centro nazionale delle ricerche (Cnr) in un capitolo dell’ultima Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia, uscita nel 2019.

«Rispetto al settore pubblico, si è fatto riferimento alla inadeguatezza dei finanziamenti che si aggiungono ad una mancata programmazione di medio e lungo periodo e a una diffusa sfiducia, più o meno palese, verso gli effetti positivi di ricerca e innovazione, a cui il “sistema paese” riesce parzialmente a ovviare assorbendo risultati scientifici conseguiti altrove», si legge nell’approfondimento del Cnr. «Infine, è stato notato che l’integrazione tra le varie componenti del sistema della ricerca e dell’innovazione è spesso troppo scarsa, non riuscendo ad innestare quei circoli virtuosi che portano in altri paesi a strette collaborazioni tra ricerca universitaria e imprese private, tra enti pubblici di ricerca e imprese pubbliche». 

Di recente una proposta per invertire questa rotta sembra aver ricevuto parecchia attenzione, tanto da arrivare fino ai tavoli dello scorso governo. Vediamo di che cosa stiamo parlando. 

Che cos’è il “Piano Amaldi”

Il 21 febbraio 2021 alcuni scienziati hanno inviato un appello al presidente del Consiglio Mario Draghi, dopo che un messaggio simile era stato mandato il 1° ottobre 2020 all’allora presidente Giuseppe Conte. 

Il primo firmatario della lettera è il fisico Ugo Amaldi, da cui prende il nome “Piano Amaldi”, una proposta per aumentare le risorse destinate alla ricerca nel nostro paese. A favore del piano è stata lanciata anche una raccolta firme sulla piattaforma online change.org e si sono schierati per la sua introduzione anche diversi partiti lontani tra loro, come Azione di Carlo Calenda e Possibile di Pippo Civati. 

Amaldi ha descritto a grandi linee la sua proposta in un breve saggio pubblicato a luglio 2020 da Edizioni Cnr, intitolato: “Per la transizione verso una società più resiliente è necessario finanziare la ricerca di base”. In sintesi: elencando i dati sulla disparità tra l’Italia e gli altri Stati, Amaldi sostiene che il nostro paese debba portare nei prossimi sei anni (2021-2026) la spesa pubblica in “ricerca e sviluppo” – non contando la componente privata delle imprese – dall’attuale 0,5% del Pil all’1% della Germania. 

«Nei prossimi anni, oltre a indebitarsi pesantemente per la ricostruzione economica, lo Stato dovrà assumersi il compito di preparare le tecnologie necessarie sia ad affrontare il riscaldamento climatico – scrive Amaldi – sia a costruire, nel lungo periodo, una società più resiliente e circolare gettando, contemporaneamente, le basi per la creazione di nuove imprese e nuovi lavori, oggi impensabili».

Secondo Amaldi, il suo obiettivo sarebbe raggiungibile stanziando nel 2021 un miliardo di euro in più sulla ricerca di base e 0,5 miliardi sulla ricerca applicata, e poi aumentando ogni anno, per cinque anni, del 14% la spesa. Nel complesso, con una previsione di spesa di circa 15 miliardi di euro, ci si potrebbe avvicinare ai livelli attuali della Francia. 

In parallelo, il “Piano Amaldi” chiede anche che vengano messe in campo misure per far «crescere sia il numero di borse di studio per i dottorati di ricerca sia gli organici degli Atenei e degli Enti di ricerca, privilegiando i gruppi di ricerca scientificamente più produttivi».

La richiesta di maggiori investimenti da parte dello Stato nella ricerca, come abbiamo anticipato, ha trovato il supporto anche di molti scienziati in rete, tra cui il fisico Federico Ronchetti, che negli scorsi mesi ha lanciato sui social l’hashtag #PianoAmaldi. Ma sia il testo uscito nell’estate 2020 sia la petizione online sia le lettere ai vari presidenti del Consiglio contengono delle richieste di carattere generale, non singoli programmi di intervento, chiedendo di utilizzare al meglio le risorse europee del Recovery fund.

Da questo punto di vista, che cosa c’è scritto nel piano con cui dobbiamo dire all’Europa come intendiamo spendere gli oltre 200 miliardi di euro per la ripresa? 

Ricerca e Recovery plan: che cosa c’è da migliorare

Nel testo ufficiale dal “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (Pnrr) – approvato dallo scorso governo a gennaio e ora all’esame del Parlamento – viene esplicitamente menzionato il “Piano Amaldi”, nella parte dedicata alla linea progettuale “Dalla ricerca all’impresa”, che fa parte della missione “Istruzione e ricerca”. Ricordiamo che il Pnrr è suddiviso in sei missioni, che sono le aree tematiche con gli interventi strutturali del piano e che vanno dalla digitalizzazione alla salute, passando per le infrastrutture e la rivoluzione verde.

Alla missione “Istruzione e ricerca”, secondo il Pnrr proposto dallo scorso governo, andranno 28,5 miliardi di euro (di cui quasi 4,4 miliardi per progetti già previsti), sugli oltre 220 miliardi che l’Italia si aspetta di ricevere dal Next generation Eu entro il 2026. Alla componente “Dalla ricerca all’impresa” andrebbero circa 11,8 miliardi (Tabella 1), mentre a quella “Potenziamento delle competenze e diritto allo studio” oltre 16,7 miliardi.

Voci di spesa per la componente “Dalla ricerca all’impresa” – Fonte: Pnrr

Tra i vari obiettivi della voce “Dalla ricerca all’impresa” ci sono quelli per «accrescere la spesa, pubblica e privata, in ricerca e innovazione» per «favorire una più stretta interazione tra imprese e mondo della ricerca».

«Tali interventi daranno un significativo contributo a ridurre il divario di spesa in ricerca e sviluppo rispetto agli Paesi più avanzati, come richiesto anche da eminenti esponenti dello stesso mondo della ricerca italiano (Piano Amaldi)», si legge nel Pnrr. 

Ma nella lettera inviata il 21 febbraio da Amaldi a Draghi non mancano critiche a quanto previsto finora dal Recovery plan italiano, che andrà consegnato ufficialmente all’Ue entro fine aprile. Secondo Amaldi e colleghi, gli investimenti previsti non sono sufficienti a raggiungere i livelli di spesa degli altri Paesi. In particolare i promotori del “Piano Amaldi” denunciano l’assenza di risorse per «aumentare il numero di dottorandi e reclutare 25 mila nuovi ricercatori al ritmo di 5 mila ricercatori l’anno», stimate in 4 miliardi in cinque anni. 

Secondo un’indagine pubblicata nel 2019 dall’Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia), dal 2007 al 2018 c’è stata infatti una forte contrazione dei posti di dottorato messi a bando, con una riduzione superiore al 40%. 

Tra le varie novità annunciate dal Pnrr, c’è anche l’introduzione di 20 centri di ricerca – probabilmente uno per regione – ispirati al modello tedesco del Fraunhofer institute, che in Germania raggruppa l’attività di circa 70 istituti attivi nel campo della ricerca applicata, finanziata dal pubblico e dal privato. Ma su questi «campioni territoriali di R&S», come li chiama il Pnrr, c'è ancora abbastanza confusione

Tra le raccomandazioni della Commissione europea fatte all’Italia a maggio 2020 – su cui si basa anche la valutazione del nostro piano da parte dell’Ue – si invita esplicitamente il nostro paese a «concentrare gli investimenti su ricerca e innovazione». Altre risorse che il Pnrr intende destinare su questa voce sono contenute anche nella missione dedicata alla “Salute”.

Riassumendo: se da un lato il Recovery plan italiano prevede un aumento delle risorse destinate alla ricerca, dall’altro lato questi stanziamenti non sembrano essere ancora sufficienti per raggiungere i livelli degli altri grandi Paesi comparabili con il nostro.

Vedremo nelle prossime settimane in che modo il nuovo governo intenderà mettere mano alle singole voci di spesa. Draghi ha già annunciato che le missioni rimarranno quelle dell’attuale proposta di Pnrr, ma le eventuali modifiche terranno conto anche dei consigli arrivati nelle audizioni che da alcune settimane proseguono in Parlamento. 

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Per esempio, in un’audizione dell’8 febbraio l’Ufficio parlamentare di bilancio ha fatto notare che la componente “Dalla ricerca all’impresa” si articola lungo 12 investimenti (quelli visti in Tabella 1), che possono causare una «frammentazione» che «rischia di diluire la potenzialità del piano di incidere in modo strutturale sulla realtà del paese, con una dispersione di risorse che potrebbe non consentire di realizzare gli obiettivi di policy dichiarati».

Senza dimenticare che i livelli di “ricerca e sviluppo” di un paese poggiano non solo sulle risorse investite direttamente in questo settore, ma anche in quello dell’istruzione in generale. Anche qui – dove siamo tra gli ultimi dell’Ue – il Recovery plan è un’opportunità da non sprecare.

Foto anteprima Michal Jarmoluk via Pixabay

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