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Perché non dovremmo chiamarlo “revenge porn”

4 Dicembre 2020 8 min lettura

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Perché non dovremmo chiamarlo “revenge porn”

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In Italia si è tornati a parlare di “revenge porn” con il caso della maestra della provincia di Torino, allontanata dalla direttrice della scuola dopo che la mamma di uno dei bambini aveva denunciato all’istituto di aver visto un video intimo privato inviato dalla ragazza all’ex fidanzato al tempo della loro relazione. L’ex compagno aveva condiviso le immagini nella chat della squadra di calcetto, dove era presente anche il marito della signora. Questi l’aveva mostrato alla moglie, che ha ulteriormente fatto circolare il video, facendo partire la gogna nei confronti della maestra, che è stata poi licenziata. La ragazza ha denunciato l'ex fidanzato, e ha portato in tribunale anche la direttrice e la donna che aveva contribuito alla diffusione delle immagini.

Seppur il termine "revenge porn" sia entrato nell’uso comune, chi si occupa del tema preferisce parlare di “diffusione non consensuale di immagini intime” (Non-consensual Dissemination of Intimate Images, DNCII). «Usare questa definizione è un modo per raccogliere con un concetto ombrello una serie di pratiche che spesso e volentieri vengono legate alla situazione dell’ex che alla fine della relazione diffonde foto e immagini intime, ma che sono molto più estese», spiega a Valigia Blu Silvia Semenzin, sociologa e ricercatrice postdoc all’Università Complutense di Madrid, promotrice nel 2018 della campagna “Intimità violata”. «Il più delle volte parliamo di un fenomeno che funziona per così dire a catena - aggiunge - quindi nel momento in cui qualcosa viene pubblicato su Internet diventa virale, purtroppo specialmente quando si tratta di materiale intimo».

Il problema è più ampio e pervasivo di quanto si pensi, ed è anche cresciuto con la pandemia e il lockdown. Nel Regno Unito, ad esempio, la linea telefonica di assistenza promossa dal governo per chi subisce questo tipo di abusi ha ricevuto il 22% di chiamate in più rispetto allo scorso anno.

Qualche mese fa, un’inchiesta pubblicata da Wired ha raccontato l’esistenza di un gruppo Telegram in cui circa 60.000 utenti si scambiavano foto e video di ragazze (anche minorenni): amiche, ex fidanzate, conoscenti, cugine, parenti. Ovviamente senza alcun consenso delle stesse alla divulgazione. Da maggio a oggi, si legge nel report di Permessonegato, associazione che dà assistenza alle vittime di violenza online, il numero di questi canali è triplicato, da 29 a 89, e gli utenti complessivi sono passati da 2,2 milioni a oltre 6 milioni. Il rapporto afferma che “la diffusione non consensuale di immagini private a sfondo sessuale, a scopo di vendetta o meno, mostra un rischio generalizzato: nessuna classe sociale o demografica è esclusa”.

Quello che è fondamentale, secondo Semenzin, è mettere in chiaro «che la matrice di questi comportamenti non c’entra nulla con il sesso, ma con il potere e la volontà di controllo, di punizione della sessualità femminile».

Considerato questo, usare la definizione “revenge porn” è problematico e fuorviante per una serie di ragioni. La prima riguarda l’implicazione del concetto di “vendetta”. Evocare la “vendetta” innanzitutto riduce troppo il campo: «In questo modo si tratta il problema come se fosse una questione esclusivamente tra due persone, un po’ come succedeva con la violenza domestica. Invece è un problema più ampio, sono più persone che partecipano all'abuso», spiega Semenzin. Il più delle volte, inoltre, la vendetta, non c’entra nulla: un sondaggio condotto nel 2017 dall’organizzazione Cyber Civil Rights Initiative che si occupa del tema, ha mostrato come per il 79% di coloro che avevano condiviso immagini intime private, “vendicarsi” o “fare del male alla vittima” non erano state motivazioni alla base del loro gesto.

Molto prima della vendetta, secondo un articolo scritto dalla ricercatrice Sophie Maddocks su Gender.it, c'è quella che è stata definita la "logica dell'outing", ossia il fatto che le persone possano ottenere un potere rivelando pubblicamente un fatto personale di altri, senza il loro consenso. Le norme sociali che colpevolizzano le donne permettono alle persone di fare outing del fatto che una donna si sia lasciata filmare - senza che questo provochi in loro alcun senso di colpa. Questa, semmai, ricade sulle vittime, insieme allo stigma sociale.

La vendetta, infine, implica che ci sia stato un torto all’origine, addossando così una sorta di peccato originario sulle vittime. Come ha detto all’Huffington Post Lauren Evans, una donna inglese che alcuni anni fa ha trovato online alcune sue foto senza maglietta che sarebbero dovute rimanere private, «la definizione di vendetta è che qualcuno fa qualcosa a te perché tu hai fatto qualcosa a loro, implica che le vittime debbano aver fatto qualcosa per meritarsi questo».

Anche il riferimento alla pornografia non è corretto, perché nel caso del porno si tratta comunque di un’attività consensuale, mentre il consenso è proprio l’elemento chiave mancante nella condivisione di materiale intimo che doveva restare privato. Non è pornografia: è un atto lesivo travestito da intrattenimento. Eppure, al di là dell’uso comune di “revenge porn”, quando si parla di questi casi si vedono spesso titoli e articoli che parlano di “video hard” e simili.

Come si legge in un articolo pubblicato su Jacobin, sia vendetta che pornografia, sostanzialmente, "distolgono l’attenzione della violenza agita, sostenendo e rafforzando le narrazioni giustificatrici", e "l’assenza di consenso rende queste pratiche violente e, pertanto, l’unico termine accettabile è 'violenza', assumendo finalmente la prospettiva e lo sguardo di chi subisce l’azione".

«Il corpo femminile è sempre sessualizzato, l’intimità femminile ancora viene criminalizzata. Tanto che si parla del perché una donna si sia fatta riprendere, si sia fatta fotografare, perché abbia inviato la foto o il video», dice Semenzin, secondo la quale l’accento, invece, andrebbe messo sul comportamento degli uomini, che sono di gran lunga i maggiori autori di questo tipo di violenza: secondo i dati raccolti dall’European Institute for Gender Equality, il 90% delle vittime di diffusione non consensuale di materiale intimo è composto da donne.

I media e la società dibattono di “revenge porn” solo quando si verificano situazioni come quella della maestra della provincia di Torino, con conseguenze eclatanti come il licenziamento, o se coinvolge persone famose. In queste occasioni, viene sviscerata la storia personale della donna coinvolta. Ma secondo la ricercatrice «ci sono tantissime donne che tutti i giorni diventano vittime di questo problema, perché si continua a pensare che sia normale scambiarsi le foto di amiche, ex fidanzate, conoscenti. Stiamo parlando di violenza di genere, ed è pervasiva. Come tale andrebbe trattata».

Parlare della diffusione non consensuale di immagini intime come di violenza sulle donne è importante per non continuare a normalizzare certi comportamenti, che sono diffusi, e perlopiù socialmente accettati. Basti pensare alla "chat del calcetto" dove sono finite le immagini della maestra di Torino. Ma è importante anche perché le conseguenze per la salute mentale per chi li subisce sono spesso devastanti. I pochi studi effettuati finora sul tema mostrano come si ritrovino a fare i conti con gli stessi problemi delle sopravvissute a stupri e violenze sessuali: disturbo post-traumatico da stress, ansia, depressione, pensieri suicidi, tentativi di togliersi la vita, totale perdita di fiducia nel prossimo.

Un anno fa, dopo anni di dibattiti, con il Codice rosso approvato nel 2019 l’Italia si è dotata di una legge che punisce con la reclusione da uno a sei anni e con una multa “chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate”. La pena è maggiore se a commettere il reato è il coniuge o ex o una persona che è o è stata legata sentimentalmente alla vittima. Viene punito anche chi ha semplicemente inoltrato il materiale.

«Questa legge è sicuramente un primo passo, anche perché è racchiusa dentro il Codice rosso, quindi è stato riconosciuto il fenomeno come violenza sulle donne. E questo era fondamentale, così come il fatto che sia menzionata la questione del consenso», afferma Semenzin, la cui campagna ha contribuito all’arrivo in parlamento di una legge. Ciononostante, secondo la ricercatrice la normativa è stata formulata in maniera un po’ frettolosa: «Essendo sostanzialmente ricalcata su quella dello stalking, non prende in considerazione molte parti del fenomeno. Mancano ad esempio norme sulla responsabilità delle piattaforme o che rendano chiaro che si tratta di una catena: ci sono pene altissime per chi condivide il video la prima volta, pene per chi condivide la seconda volta, ma prendendo ad esempio il caso dei gruppi di Telegram, come si fa a mettere in galera 10 mila persone? È una legge importante ma c’è molto lavoro ancora da fare».

Stando ai dati del ministero della Giustizia, in 12 mesi ci sono stati 1.083 procedimenti relativi a questo reato, circa tre al giorno, di cui 121 hanno già avviato un’azione penale verso i responsabili. Ci sono state sei sentenze già emesse, di cui due condanne, tre patteggiamenti e un proscioglimento. A ottobre il report del servizio analisi della direzione centrale della Polizia criminale ha contato 718 casi tra il 9 agosto 2019 e l’8 agosto 2020, con un 83% delle vittime rappresentato da donne.

Ma c’è moltissimo sommerso. Da un lato, avere le prove, avere gli screenshot che dimostrano che un’immagine è stata mandata a una persona che poi l’ha diffusa senza consenso è complicato. Dall’altro c’è un grande senso di vergogna da parte di chi subisce questi comportamenti, anche perché spesso sono le vite e le abitudini delle vittime a essere passate al setaccio, nella convinzione comune che avrebbero potuto fare qualcosa per evitare di finire in quella situazione.

L’avvocata Giulia Vescia, che si occupa di violenza sulle donne e ha collaborato alla scrittura dell’esposto per i casi riguardanti la diffusione non consensuale di immagini intime nelle chat di Telegram, ha detto a DinamoPress che i casi che vengono denunciati sono pochi «e quelli che lo sono diventano dei casi eclatanti perché esiste ancora un atteggiamento molto giudicante nei confronti della donna che si presta alla realizzazione di questo materiale sessualmente esplicito». È complicato per le vittime denunciare quando subentra il giudizio, la colpevolizzazione e l’isolamento.

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«Tutti i casi noti – ha proseguito Vescia - sono saliti alle cronache non tanto perché sono stati condivisi video e foto sessualmente espliciti senza consenso, ma perché la donna ha subito delle conseguenze pesantissime a seguito della condivisione di questi materiali. Tiziana Cantone si è suicidata, la maestra di Torino è stata licenziata, e le donne coinvolte nelle chat di Telegram a maggio sono state identificate come donne poco raccomandabili e di facili costumi perché avevano deciso di produrre e realizzare del materiale nei loro momenti più intimi».

Anche per questo, l’aspetto culturale è fondamentale nel contrastare questa forma di violenza. «Io credo che sul lato pratico serva fare pressione a livello europeo sulle piattaforme digitali perché siano un po’ più responsabili rispetto a quello che viene condiviso al loro interno, e aprire un dibattito serio su questo», afferma Semenzin, che però aggiunge che «se non si riparte dall’educazione non si risolve nulla. Servono programmi sulla parità di genere, sull’educazione sessuale, emotiva, e anche digitale».

Foto di Ismael Sanchez via Pexels

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