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Rete Unica, l’Italia ha bisogno di una moderna infrastruttura di banda ultralarga non di un ritorno al monopolio

23 Marzo 2021 15 min lettura

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Rete Unica, l’Italia ha bisogno di una moderna infrastruttura di banda ultralarga non di un ritorno al monopolio

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Ascesa e declino della Rete Unica

Da oltre un anno si parla in Italia di Rete Unica, cioè del progetto di concentrare in un’unica azienda le principali reti nazionali di telecomunicazioni, attualmente detenute da Tim e Open Fiber. L’operazione avrebbe lo scopo di velocizzare la sostituzione delle obsolete infrastrutture telefoniche con una nuova e unica rete ultraveloce in fibra. Il governo Conte II ha fortemente caldeggiato questa iniziativa, sostenuto dai partiti sia di maggioranza che di opposizione, benché non sia mai emerso consenso uniforme  sulle caratteristiche fondamentali che una siffatta operazione industriale dovrebbe avere. A seguito della firma di una lettera di intenti nell’agosto 2020 sono partite le trattative tra TIM e Cassa Depositi e Prestiti (che attualmente detiene il 50% di Open Fiber, ma che potrebbe diventare azionista principale della società), il cui esito tuttavia non è noto, mentre l’altro azionista di Open Fiber, Enel, ha annunciato la vendita della sua quota a un fondo di investimento australiano. 

Nel frattempo al governo Conte è subentrato il nuovo esecutivo di Draghi, che ora si sta mostrando più cauto verso il progetto di Rete Unica, tanto che i ministri Giorgetti e Colao, in audizione al Parlamento, hanno espresso l’intenzione di voler riesaminare l’intero dossier, pur senza voler aggiungere ulteriori ritardi. Sulla fattibilità dell’operazione pesano, peraltro, numerose incertezze, in particolare se l’operazione sia compatibile con le norme di concorrenza e se i suoi tempi siano conciliabili con quelli del Recovery Fund, i cui fondi potrebbero essere utilizzati proprio per risolvere i problemi di connettività del paese. 

In questo articolo ripercorriamo i punti focali di questa vicenda.

Cosa si intende per Rete Unica

Il perimetro esatto della Rete Unica non è mai stato definito ufficialmente. Si tratta in verità di un termine convenzionale con cui si identifica una parte fondamentale delle infrastrutture italiane di telecomunicazioni, e cioè la rete d’accesso, vale a dire la parte terminale dell’infrastruttura che arriva fino agli edifici e li collega a Internet e alle altre reti. Nel caso di TIM, si tratta della rete secondaria, cioè dei tratti di rete prevalentemente in rame (lunghi in genere meno di un chilometro nelle aree urbane) che attualmente collegano gli edifici a circa 150.000 armadi stradali, per una copertura totale di circa 30 milioni di unità immobiliari, mentre dovrebbe essere esclusa la rete “primaria”, che invece collega tali armadi a 10.000 centrali telefoniche; nel caso di Open Fiber, invece, si tratterebbe della sua intera rete d’accesso (secondaria e primaria) in fibra ottica, per una copertura totale di circa 9,5 milioni di unità immobiliari. Si è inoltre discusso se debbano essere ricomprese nella Rete Unica anche le infrastrutture di base per il 5G e per l’edge computing, ma non vi è chiarezza sul punto.

Non rientrano invece nel perimetro della Rete Unica le reti d’accesso degli altri operatori italiani, che ammontano a circa l’8% dell’accesso locale: si tratta, in particolare, di piccoli operatori di fibra e wireless, nonché di soggetti pubblici che hanno installato reti a beneficio dell’amministrazione ma che possono anche essere usate per il pubblico. Parimenti sono escluse le cosiddette dorsali, e cioè i backbone che concentrano e trasportano il traffico raccolto dalle reti d’accesso.

In altre parole, benché con l’espressione Rete Unica non si possa coprire la totalità delle telecomunicazioni italiane, il termine resta appropriato perché identifica la stragrande maggioranza delle connessioni degli utenti italiani.

Perché si è cominciato a parlare di Rete Unica: il ritardo italiano nelle reti ad altissima velocità 

Benchè le motivazioni potrebbero essere varie, una ragione frequentemente evocata per giustificare la creazione di una Rete Unica sarebbe il ritardo dell’Italia nelle connessioni Internet ultraveloci, cioè in fibra ottica. In effetti, l’Italia si trova da anni in posizioni arretrate nelle classifiche europee e mondiali della connettività. Le ragioni per un tale ritardo sono molteplici e sono ascrivibili, in primo luogo, alla storica mancanza di concorrenza infrastrutturale in Italia, dove non è mai esistita una rete alternativa a quella telefonica di TIM. Negli altri paesi europei (a parte la Grecia) esistono le reti televisive che, su base nazionale o locale, sono in grado di fornire broadband e, così facendo, hanno creato lo stimolo concorrenziale affinché l’operatore telefonico investisse in fibra. In Italia, invece, dove non è mai esistita una televisione via cavo, tale stimolo non è mai esistito, così che l’operatore telefonico monopolista, all’epoca SIP (divenuto Telecom Italia, e ora TIM) non ha mai sentito la pressione di sostituire velocemente la vecchia telefonica in rame con una nuova in fibra. Negli anni passati TIM ha prevalentemente puntato sull’installazione della fibra fino agli armadi stradali, lasciando intatta la parte terminale della rete in rame fino agli utenti: l'FTTC (Fiber-to-the cabinet) che però è decisamente meno performante di una rete interamente in fibra (FTTH, cioè Fiber to the home, che invece è il modello di Open Fiber). A dire la verità, un progetto di cablatura in fibra del paese, il cosiddetto “Progetto Socrate”, fu previsto negli anni '90 ma fu presto abbandonato, alla vigilia della privatizzazione. Solo recentemente TIM ha annunciato un piano massiccio di investimenti in FTTH, su cui ritorneremo.

Un’altra ragione per il ritardo italiano nella connettività è politico: per molti anni, e almeno fino al 2015 (governo Renzi) la politica italiana si è sostanzialmente disinteressata dello sviluppo della connettività in Italia, preoccupandosi invece in modo litigioso e pervicace delle televisioni. Non vi è mai stato un vero dibattito sullo stato delle telecomunicazioni, salvo quando si presentasse il rischio o l’eventualità di un take-over di TIM da parte di operatori stranieri (prima Telefonica, e poi Vivendi).

Il tema della duplicazione delle reti

Un altro motivo che ha contribuito alla spinta verso la Rete Unica è l’idea che una duplicazione di reti di telecomunicazioni sarebbe uno spreco di risorse. Il discorso è complesso. Le reti d’accesso di telecomunicazioni assomigliano a monopoli naturali, come nel caso dell’elettricità, dell’acqua potabile e delle ferrovie, ma questo non vuol dire che un certo grado di replicabilità sia del tutto escluso. Anzi, come evidenziato in precedenza, è stata proprio la concorrenza tra reti telefoniche e televisive a far decollare gli investimenti in fibra in Europa, così come in USA, Corea e Giappone. Tale duplicazione di reti è tuttavia limitata e dipende dalla potenziale profittabilità del mercato, in pratica dalla densità abitativa delle zone in cui si installano reti: ne deriva che in aree densamente popolate (Milano, Parigi, Bruxelles, Amsterdam, ecc.) si possono trovare due fino a tre infrastrutture d’accesso installate in parallelo, poiché un mercato ricco è in grado di remunerarle e, anzi, proprio la ricchezza di tali mercati attrae investitori disposti a duplicare infrastrutture. Ma quando la densità abitativa scende e con essa il potenziale ritorno degli investimenti, allora la duplicazione delle reti diventa più rischiosa e quindi si rimane con una sola rete, in genere quella telefonica dell’incumbent, che la installò ai tempi del monopolio legale (prevalentemente con denaro pubblico). In tali casi, il monopolio della rete deve essere corretto con la regolamentazione, al fine di permettere agli operatori alternativi di collegarsi agli utenti, affittando l’ultimo miglio dall’incumbent.

Va precisato che sono pochi i paesi dove esiste una perfetta competizione infrastrutturale, cioè estesa all’intero territorio nazionale. In Europa questo accade solo in Belgio ed Olanda, ma altri paesi (UK, Svezia, Danimarca, Portogallo, Spagna) hanno comunque una duplicazione di reti molto estesa.

In conclusione, la concorrenza infrastrutturale è fondamentale per gli investimenti, ma non è illimitata: in genere si può favorire la competizione tra 2 o 3 reti (nel mobile anche di più), ma non si può pretendere che ogni operatore si faccia la propria rete. Vi sono peraltro zone dove non è possibile immaginare più di un operatore di rete, ad esempio nelle cosiddette aree bianche in Italia.   

La concorrenza infrastrutturale in Italia e l’arrivo di Open Fiber

Il caso italiano è esemplare, quasi da manuale, e spiegheremo il perché. Dopo tanti anni di monopolio (regolamentato) nell’accesso e scarsi investimenti in fibra, improvvisamente la situazione si è movimentata nel 2016, con l’arrivo di Open Fiber, società creata da CDP (Cassa Depositi e Prestiti) ed ENEL, che dopo aver acquistato Metroweb, un operatore che già dal 2001 aveva iniziato a cablare Milano, ha iniziato a espandere tale rete nel resto d’Italia secondo il modello FTTH. In seguito, Open Fiber ha vinto le gare per i fondi pubblici nelle aree bianche, con la quale è stata incaricata di installare una nuova rete FTTH nelle aree a scarsa densità abitativa. 

Il caso da manuale sta nel fatto che i dati sulla diffusione dell’ultrabroadband hanno risentito immediatamente della concorrenza: proprio a partire dal 2016 le statistiche europee registrano una vera e propria rincorsa dell’Italia sul fronte della connettività, che le consentono di recuperare posizioni, pur rimanendo ancora sotto la media europea. Il merito non è solo della fibra di Open Fiber, ma anche di altri piccoli operatori nonché della stessa TIM che, a fronte del nuovo scenario, ha intensificato gli investimenti in fibra FTTH: prima attraverso la creazione di Flashfiber, una joint venture con Fastweb, poi attraverso un’operazione di co-investimento (annunciata nel gennaio 2021) che verterà su un nuovo veicolo, denominato Fibercop, che sarà aperto ad altri co-investitori.

In altre parole, l’argomento secondo cui la Rete Unica sarebbe necessaria per evitare duplicazioni nonché per razionalizzare gli investimenti appare palesemente smentita da cifre e fatti, e anzi contraddetta dal comportamento degli operatori, in primis TIM.

La Rete Unica e il ritorno al monopolio: la lezione dal resto d’Europa  

Circoscrivendo l’analisi all’Unione Europea, non esistono paesi dove si sia messa in cantiere un’operazione comparabile a quella della Rete Unica. Pur essendo percepita da tutti l‘esigenza di espandere velocemente le reti in fibra ottica, a nessuno è venuto in mente, come ricetta, di ricreare un monopolio della rete d’accesso. In Europa, dove il mercato è riuscito a esprimere una concorrenza infrastrutturale, in genere attraverso la competizione tra telco e reti televisive (ma anche con pluralità di telco nelle aree metropolitane più popolate), tale concorrenza è stata preservata. Nei paesi dove l’incumbent telefonico possedeva anche la rete cavo (ad esempio in Germania e Danimarca) è stata persino imposta la vendita. Ovunque esisteva una certa pressione verso il consolidamento (ad esempio nel settore mobile) le autorità antitrust hanno generalmente negato l’autorizzazione oppure imposto delle condizioni.  

Un’eccezione è accaduta in Olanda, dove nel 2013 l’incumbent KPN è stato autorizzato ad acquisire un concorrente, Reggefiber, che poneva fibra. Cosa è successo dopo? Con l’acquisizione di Reggefiber KPN ha rallentato l’installazione di nuovo FTTH e l’Olanda, che una volta era un paese leader nella connettività ultrabroadband, è lentamente scivolata in classifica. Il caso KPN/Reggefiber costituisce un precedente negativo nel caso si volesse procedere con la Rete Unica in Italia.

I problemi antitrust della Rete Unica

Il ritorno a un quasi monopolio nella rete d’accesso in Italia sarebbe probabilmente ostacolato dalle norme antitrust. Per quanto non esista una norma specifica che vieti un monopolio di fatto nelle telecomunicazioni, la prassi sviluppata dalle autorità antitrust, sia a livello europeo che nazionale, rende altamente improbabile una tale autorizzazione. Il caso appare ulteriormente complicato dalla pretesa di TIM di mantenere il controllo della Rete Unica. In altre parole TIM, operatore verticalmente integrato, cioè operante a livello sia retail che wholesale, acquisirebbe il controllo del neo-monopolio dell’accesso, quindi dell’intera rete che serve a tutti gli altri operatori italiani per competere. Alcuni di questi concorrenti (Wind, Vodafone, Sky) da alcuni anni si sono posizionati sulla rete di Open Fiber proprio per evitare di dover accedere alla rete del loro principale concorrente TIM. Il modello di Open Fiber è infatti wholesale-only, cioè si limita a fornire accesso alla rete alle altre telco, ma non fornisce servizi retail, quindi non compete con i propri clienti. TIM invece, essendo verticalmente integrato, si trova in competizione con le telco che chiedono accesso alla sua rete, e per questo esiste una regolamentazione ad hoc per prevenire abusi e discriminazioni.  Non sempre tale regolamentazione è sufficiente ed infatti TIM è stata sanzionata varie volte dall’antitrust.

“Il tema del controllo della Rete Unica è talmente critico dal punto di vista antitrust che la stessa TIM, ad un certo punto, se ne è verosimilmente resa conto ed ha cambiato tono, sostenendo pubblicamente di voler solo la maggioranza della nuova società, ma dichiarandosi disposta a condividerne il controllo. Tuttavia, questa nuova posizione non modifica il problema, perchè il controllo “condiviso”, cioè congiunto, è comunque una forma di controllo rilevante per la normativa antitrust, e non verrebbe quindi meno il problema dell’integrazione verticale. L’unico modo per superare tale ostacolo sarebbe che TIM scendesse a livelli di capitale, nella società della Rete Unica, tali da non poter influenzare l’assemblea, il board e la nomina dei vertici aziendali (quindi almeno sotto il 30%)” ().

I dubbi di legittimità antitrust della Rete Unica sono stati sollevati da più parti e portati persino all’attenzione del Commissario europeo Vestager, che però non ha mai anticipato un verdetto, precisando che decisioni del genere possono essere prese solo dopo la notifica formale dell’operazione. Tuttavia, nel corso di un question time nel settembre 2020, la Vestager ha voluto precisare che, nel caso di notifica della Rete Unica, si presterebbe particolare attenzione alle cosiddette restrizioni verticali, cioè al tema dell’integrazione verticale. 

Le ragioni di TIM

Se la Rete Unica, soprattutto verticalmente integrata, appare così problematica e poco conveniente per il paese, c’è da chiedersi se possa però trovare una ragion d’essere per gli operatori.

Se TIM si fondesse con Open Fiber non avrebbe più concorrenza nell’infrastruttura d’accesso, e ne trarrebbe un notevole beneficio. TIM è di gran lunga ancora il più grande operatore telecom italiano, ma il suo fatturato è in declino (la società ha perso il 12% nel 2020), e questo è probabilmente un effetto del mercato che si è parzialmente spostato sulla rete di Open Fiber. In più, TIM soffre di un alto indebitamento (dovuto a operazioni finanziarie attuate dalle varie gestioni che si sono succedute), deve distribuire dividendi e, per difendersi dalla concorrenza di Open Fiber, dovrebbe fare pesanti investimenti per sostituire la rete in rame (o misto fibra/rame, l'FTTC). In un contesto del genere, la fusione tra TIM ed Open Fiber risolverebbe sicuramente i problemi della prima, tranquillizzando creditori ed azionisti. Ma, come evidenziato in precedenza, si interromperebbe un ciclo virtuoso di investimenti iniziato nel 2016 con la concorrenza di Open Fiber.

TIM potrebbe impegnarsi a continuare gli investimenti con la Rete Unica ma non vi sono garanzie e certezze che ciò verrebbe fatto meglio che nel quadro attuale, soprattutto una volta che viene a scomparire l’unico concorrente. In una economia di mercato gli investimenti annunciati unilateralmente possono essere disdetti facilmente (ed infatti questo è successo molto frequentemente in Europa proprio nel campo della fibra). Gli investimenti accadono se vi sono gli stimoli e le condizioni per farli, non per forza di volontà.

Un piano di investimenti potrebbe essere concordato con gli altri soci della Rete Unica, ma non si può dire quanto possa essere vincolante, considerato che la stessa TIM rivendica il controllo di fatto sulla società che gestirebbe la Rete Unica e, quindi, gli investimenti. In alternativa, lo Stato potrebbe intervenire fissando, con una propria partecipazione rilevante nella Rete Unica, un piano d’investimenti d’imperio. Tuttavia, come si verrà nel prosieguo, l’idea che finora la politica ha avuto della Rete Unica è stata alquanto confusa ed il nuovo governo Draghi sembra intenzionato a rivedere il progetto nella sua interezza.

Nel frattempo TIM, data l’incertezza che permane sulla Rete Unica, ha annunciato un piano di investimenti in fibra nella modalità del co-investimento, un modello introdotto dal Codice Europeo delle comunicazioni elettroniche e per il quale è previsto un trattamento regolamentare di favore. Su tale iniziativa dovrà pronunciarsi AGCOM, per verificarne la riconducibilità al modello del Codice europeo, e sulla stessa incombe anche il giudizio di AGCM, l’antitrust italiana, che ha aperto un procedimento nei confronti di FiberCop, il veicolo societario su cui fa perno il progetto di co-investimento di TIM. 

Le ragioni di Open Fiber

Nelle aree bianche Open Fiber è stata spesso accusata, inter alia, di essere in ritardo con i lavori di installazione della fibra ottica, critiche alle quali la società ha ribattuto. A prescindere dalla fondatezza di tali accuse, è difficile pensare che la Rete Unica possa essere una soluzione per problemi di questo tipo. In effetti, Open Fiber è l’operatore che in assoluto ha installato più fibra (FTTH) in Italia, raggiungendo 9 milioni e mezzo di unità immobiliari e attivando 1.300.000 utenti (contro le 230.000 utenze attive di TIM a settembre 2020, secondo i dati AGCOM). Nelle aree bianche Open Fiber agisce in virtù di una concessione, e quindi dovrebbe essere il concedente (Infratel, cioè lo Stato) a pretendere la risoluzione di eventuali problemi, mentre la fusione con altri operatori non potrebbe servire a questo scopo. Nel resto d’Italia Open Fiber opera con vari clienti, in particolare i più grandi ISP nazionali (ad esempio Wind, Vodafone, Sky): questo vuol dire che il mercato l’ha premiata e che non può essere considerato un operatore inefficiente o troppo costoso.

Quale potrebbe essere, allora, il vantaggio per Open Fiber da una tale fusione? Certamente verrebbero meno i rischi della concorrenza con TIM, mentre il suo azionista istituzionale, CDP, potrebbe meglio pianificare i suoi progetti industriali. Però questo progetto si scontrerebbe con la diversa opinione di TIM circa il business model da tenere (verticalmente integrato secondo TIM, wholesale only secondo Open Fiber), le problematiche antitrust, i lunghi tempi di attuazione che metterebbero in pericolo gli investimenti attuali e appaiono incompatibili con gli aiuti del Recovery Fund (l’Italia deve presentare i progetti entro aprile 2021). Insomma, indipendentemente da quali possano essere i problemi sollevati verso Open Fiber, la ricetta sembra più complicata del male.

La Rete Unica e la politica italiana

Di fronte a un quadro così problematico, è stupefacente notare come la politica italiana abbia, fino ad oggi, entusiasticamente abbracciato il progetto della Rete Unica, salvo poche eccezioni. Il governo Conte II è stato un forte sponsor del progetto e in generale tutto il Parlamento ha condiviso l’obiettivo di creare una Rete Unica nazionale, come se tale operazione dovesse essere vista come un modo naturale ed ovvio per risolvere un problema industriale. E tutto questo nonostante non vi siano altri esempi al mondo in cui lo Stato sponsorizzi la ri-monopolizzazione del mercato telecom a livello nazionale per stimolare gli investimenti. 

Il consenso sulla Rete Unica è stato unanime e bipartisan quanto all’obiettivo finale, ma pochi sembrano essersi soffermati sulla congruità della soluzione rispetto ai mali da risolvere. L’unico tema su cui è emersa un po’ di riflessione è quello del modello di business: varie voci, compresa quella del premier Conte, si sono sollevate contro l’idea che la rimonopolizzazione della rete possa avvenire in capo a un operatore verticalmente integrato come TIM; e perciò, se Rete Unica deve essere, che sia wholesale-only come Open Fiber.

Il lato un po’ surreale di questo dibattito politico è stato quello della nazionalizzazione della Rete Unica. Si è parlato di un ritorno della proprietà pubblica nelle telecomunicazioni, per ragioni sia industriali che di sicurezza, nonostante non vi sia alcun termine di paragone in Europa o negli USA, dove gli operatori dominanti sono tutti privati e quotati (con lo Stato al massimo al 30%). Nello stesso momento, gli italiani usano dispositivi, servizi digitali, antenne radio e piattaforme straniere, i loro dati sono scambiati nel mondo attraverso server ed operatori cloud che essi ignorano, e nonostante ciò il problema della sicurezza sembra stare nelle canaline della rete italiana. Il ritorno dello Stato viene anche invocato per riparare ai danni della “cattiva” privatizzazione di Telecom Italia del 1998, dimenticando però che ormai non si può più tornare indietro nel tempo.

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Last but not least, il tema della nazionalizzazione della Rete Unica non ha impedito all’azionista di maggioranza di TIM di rimanere la francese Vivendi; di far entrare nel progetto della Rete Unica (attraverso FiberCop) un fondo americano, KKR; di invitare ENEL, una società italiana, ad andarsene da Open Fiber per far entrare un fondo australiano.

Conclusioni

Il progetto di Rete Unica ricorda per certi aspetti la Brexit: un’iniziativa cavalcata dalla politica senza nessuna chiara analisi dei problemi sottostanti e, soprattutto, della congruità della soluzione prescelta rispetto ai problemi da risolvere, e persino ignorando gli effetti collaterali. La storia è piena di queste scelte bizzarre, anche per quanto riguarda l’economia: nell’XI secolo in Cina vi era una fiorente industria siderurgica, ma i mandarini si allarmarono perché qualcuno si stava arricchendo troppo e così confiscarono tutto, imponendo il monopolio e ammazzando il settore. Alcuni secoli dopo la stessa Cina era una nascente potenza navale, ma un imperatore proibì la navigazione d’alto mare, questa volta per far dispetto ai mandarini. Non ho mai capito se in Italia la Rete Unica sia nata come un’idea dell’imperatore o dei mandarini, ma è chiaro che a livello politico è mancata fino ad ora una lucida e accurata analisi industriale. Quindi c’è da augurarsi che qualsiasi discussione sul tema riparta riavvolgendo il nastro e focalizzandosi sul problema da risolvere, e cioè sulla necessità di dotare il paese di una moderna infrastruttura ultrabroadband, e in seguito analizzando con attenzione congruità e fattibilità delle soluzioni prescelte. Il tutto tenendo conto dei vincoli antitrust, che verosimilmente ostano a un ritorno al monopolio, e avendo attenzione per i processi che devono essere colti al volo, e cioè gli aiuti del Recovery Fund, che dovranno essere allocati ed utilizzati ben prima che una ipotetica Rete Unica possa mai vedere la luce.

Foto  anteprima mohamed Hassan via Pixabay

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