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Responsabilità dei commenti online: cosa ha veramente detto la Corte Europea

12 Ottobre 2013 8 min lettura

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Responsabilità dei commenti online: cosa ha veramente detto la Corte Europea

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Una recentissima sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo fa sorgere numerosi interrogativi in materia di responsabilità dei siti internet per i commenti dei lettori. Ad una prima lettura sembrerebbe ridurre gli spazi della libertà di informazione, con devastanti conseguenze per l'applicazione della direttiva ecommerce europea. Alcuni commentatori esteri hanno addirittura espresso preoccupazione per le possibili conseguenze relative a commenti postati su portali americani da commentatori europei, e che potrebbero determinare una condanna del portale americano.
In realtà la CEDU, come spiega bene Marco Bellezza ed osserva anche Fulvio Sarzana, ha semplicemente applicato i principi stabiliti in altre precedenti pronunce limitandosi, come suo compito, a verificare se la decisione dei giudici nazionali ha compresso eccessivamente la libertà di informazione, statuendo che nel caso specifico ciò non sarebbe avvenuto.

La decisione dei giudici dell'Estonia
La decisione riguarda il caso portato all'attenzione della Corte europea da Delfi AS, quale editore del portale di notizie Delfi pubblicato in Estonia.
A seguito della pubblicazione di un articolo, in calce al quale venivano postati numerosi commenti, molti dei quali palesemente diffamatori o con contenuti che incitavano all'odio o comunque lesivi della reputazione di uno dei soggetti menzionato nell'articolo, quest'ultimo intentava prima una azione legale contro gli autori dei commenti, scontrandosi contro l'impossibilità di rintracciarli per il loro anonimato, e successivamente portava in giudizio Delfi AS.

Delfi si difendeva sostenendo di essere un mero intermediario della comunicazione, quindi esentato da responsabilità per fatti di terzi tramite i suoi servizi, come stabilito dalla direttiva ecommerce europea, recepita in Estonia dall'Information Society Services Act, e precisava di aver fatto tutto il possibile per impedire lesioni alla reputazione di altri soggetti. Infatti Delfi ha due sistemi di moderazione dei commenti: uno preventivo basato su filtri che automaticamente eliminano alcune parole, ed uno successivo a seguito di segnalazione di altri utenti (notice and take down). Inoltre, in alcune occasioni, di propria iniziativa il personale del portale editava o rimuoveva alcuni commenti ritenuti in violazione delle leggi.
Ulteriormente Delfi presenta un disclaimer sul sito che ricorda agli utenti di non postare commenti diffamatori o comunque contrari alle leggi o alle buone maniere.

A seguito di tre gradi di giudizio Delfi AS veniva condannato, quale editore del portale di news, sancendo che non poteva in alcun modo ritenersi un intermediario della comunicazione in quanto la sua attività non è limitata, come previsto dalla direttiva ecommerce quale requisito per ottenere l'esenzione da responsabilità, ad un mero servizio di intermediazione tecnica, automatica e passiva, bensì è inequivocabilmente un content provider, cioè un soggetto che esercita un controllo sui contenuti tipico di un editore. Tale controllo, precisa la Corte estone, era esercitato anche sui commenti dei visitatori, in quanto vi erano specifiche attività di editing degli stessi, tra le quali anche una fase svolta da esseri umani per conto della Delfi, che quindi avevano consapevolezza del contenuto editato.
La Corte Suprema estone precisava che il portale invitava gli utenti a commentare, avvalendosi del numero di commenti quale mezzo per attirare nuovi visitatori e per ottenere maggiori visualizzazioni pubblicitarie, e quindi introiti.
Infine, veniva rilevato che gli utenti dopo aver commentato perdevano il controllo dei loro post, in quanto veniva loro negata la modifica degli stessi oppure la loro eliminazione. In conclusione, il fatto che i commenti non fossero materialmente scritti da Delfi non comportava che Delfi non avesse un controllo sugli stessi.

I giudici interni pongono particolare attenzione al fatto che la pubblicazione di commenti si inserisce nell'attività professionale del ricorrente. Insomma, Delfi è un editore (professional publisher) e come tale non può avvalersi delle esenzioni della direttiva ecommerce, in particolare quella prevista dall'art. 14 relativa agli intermediari di servizi di hosting.
La Corte estone, quindi, ritiene Delfi responsabile dei commenti in quanto, pur avendo posto in essere delle procedure per rimuovere commenti illeciti, non è riuscita nell'impedire la lesione ai diritti del soggetto menzionato nell'articolo. La direttiva ecommerce prevede, appunto, che nel caso in cui l'intermediario, avendo avuto consapevolezza della presenza di contenuti illeciti immessi sui suoi server da terzi, non si attivi prontamente per rimuoverli, ne diventa responsabile.
Fin qui la decisione dei giudici nazionali.

Ricorso alla CEDU
Delfi AS impugnava il provvedimento dinanzi alla Corte dei diritti dell'uomo ritenendo che tale sentenza comprimesse la sua libertà di informazione, e quindi fosse in contrasto con l'articolo 10 della Convenzione dei diritti dell'uomo.

La decisione della Corte europea è abbastanza lineare e aderente a precedenti decisioni in materia.
In questi casi, precisa la Corte, occorre realizzare un bilanciamento tra i valori in conflitto, stabilendo: se la restrizione alla libertà di espressione è prevista dalla legge, se serve ad uno scopo legittimo, e se è necessaria in una società democratica (la qual cosa si verifica se l’interferenza corrisponde a un bisogno sociale imperativo, come, tra l’altro, la tutela della reputazione di un individuo).
È fondamentale ricordare che l'altro valore in conflitto che deve essere correttamente bilanciato con la libertà di espressione è il diritto alla tutela della propria reputazione anch'esso previsto dalla Convenzione dei diritti dell'uomo all'articolo 8. Quindi occorre che si valuti in concreto, e sulla base di un esame complessivo, se la specifica decisione dei giudici nazionali, tesa alla tutela della reputazione di un soggetto, ha compresso eccessivamente la libertà di espressione del soggetto ricorrente.

La Corte europea ha ritenuto che nel caso in oggetto la restrizione fosse prevista da una norma di legge, infatti si discuteva se fosse applicabile la norma sulla responsabilità oppure quella della legge di recepimento della direttiva ecommerce, comunque si tratta di norme di legge interne. Inoltre è indubbio che i commenti fossero diffamatori, circostanza ammessa anche da Delfi che tra l'altro ne ha rimossi svariati, e che i commentatori fossero comunque assoggettabili alle norme relative, qualora fossero stati rintracciati.

Il punto essenziale è che la Corte europea non si preoccupa di stabilire se nel caso specifico Delfi AS sia esentata da responsabilità ai sensi della direttiva ecommerce oppure se sia responsabile dei commenti dei lettori, in quanto la soluzione dei problemi di interpretazione delle leggi, e quindi il raccordo tra quelle nazionali e quella internazionali, spetta ai giudici interni, compito della Corte è soltanto quello di stabilire se la decisione specifica è in contrasto con i principi della Convenzione.

It is primarily for the national authorities, notably the courts, to resolve problems of interpretation of domestic legislation. The Court’s role is confined to ascertaining whether the effects of such an interpretation are compatible with the Convention.

La Corte in ultima analisi si ferma alla circostanza che esiste una norma interna che prevede la responsabilità dell'editore per diffamazione e che nel caso specifico i giudici interni la ritengano applicabile.

Poi, sempre secondo la Corte europea, l'interferenza con la libertà di espressione deve ritenersi proporzionata allo scopo legittimo perseguito, le motivazioni addotte dai giudici sono rilevanti e sufficienti, e per ultimo la pena applicata (pecuniaria) è lieve (meno di 400 euro) e ampiamente sostenibile da un editore. Ovviamente lo scopo perseguito è quello di proteggere adeguatamente la reputazione di un individuo, come sancita dall'art. 8 della Convenzione dei diritti dell'uomo.
Infine, i giudici interni non hanno imposto alcun provvedimento restrittivo tipo filtri, moderazione preventiva o identificazione dei commentatori, lasciando alla società condannata la scelte sul come proteggere i diritti dei terzi.

Fermo restando che il provvedimento non è ancora definitivo, comunque si tratta di una decisione che non tocca direttamente la responsabilità degli intermediari della comunicazione come prevista dalla direttiva ecommerce, e in particolare, pur ricordando che i principi generali posti dalla CEDU sono immediatamente applicabili dai giudici nazionali, nella sentenza non si rinviene affatto una automatica responsabilità di un sito per i commenti ad un articolo quand'anche fossero essi anonimi.
Il caso è specifico, si tratta di un editore che esercita attività di informazione a livello professionale e quindi guadagna dalla sua attività, e che mostra di avere il controllo più o meno completo dei commenti dei lettori, in tal senso facendoli propri.
Ovviamente si può non essere d'accordo sul profilo della responsabilità editoriale così come stabilito dai giudici estoni, ma si tratta, appunto, della decisione di un tribunale estone e non della CEDU che si occupa di ben altri profili. A tal proposito si può ricordare che l'eliminazione a posteriori di articoli o contenuti non implica un ruolo attivo nella redazione del contenuto, in quanto tale facoltà è espressamente prevista nell'art. 14 della direttiva ecommerce per motivi tecnici o di autoregolamentazione.

Commenti e responsabilità
Per quanto riguarda i principi posti dalla sentenza della Corte europea, l'unico elemento che potrebbe destare qualche preoccupazione riguarda il riferimento ai commenti anonimi laddove pare leggersi tra le righe della sentenza che la non rintracciabilità dei commentatori, quale scelta specifica dell'editore, comporti una conseguente responsabilità del “discloser” (comunicatore), cioè dell'editore in questo caso. Ma anche qui ci pare si tratti della conseguenza della valutazione dei giudici interni che hanno ritenuto sussistente la responsabilità editoriale sui commenti. Infatti, la sentenza precisa, sulla scorta di quanto deciso dai giudici estoni, che si tratta di corresponsabilità tra commentatori ed editore, laddove quest'ultimo ne risponderebbe in quanto si è ritenuta sussistente la consapevolezza dei contenuti.

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La questione della responsabilità di un sito sui commenti si è posta più volte e al momento non appare avere una posizione univoca, anche se tendenzialmente si valuta nel concreto se l'editore (o il gestore nel caso di siti non editoriali) ha o meno contezza del contenuto dei commenti. In genere se tale consapevolezza sussiste, e nonostante ciò il gestore mantiene il commento online, si ritiene sussistente una corresponsabilità del gestore in quanto col suo comportamento mostra di farlo proprio.
Alcune sentenze hanno stabilito che non è esigibile un controllo di tutti i commenti, per cui in assenza di elementi tali da far ritenere che l'editore abbia consapevolezza del contenuto degli stessi, la responsabilità rimane propria solo del commentatore.

Principi diversi tra Usa ed Europa
Per quanto riguarda, invece, le preoccupazioni degli americani, appaiono destituite di fondamento. Il riferimento a portali è esplicitamente rivolto a siti come Facebook che al momento possono ancora rientrare nella definizione di intermediari della comunicazione. Inoltre proprio tali siti già da tempo scoraggiano ampiamente l'anonimato in rete, tendenza seguita anche da numerosi siti di notizie d'oltreoceano.
D'altronde mentre negli Usa il Primo Emendamento prevede un'ampia protezione della libertà di espressione rispetto ad altri diritti, focalizzandosi su chi parla, in Europa, anche a causa dei suoi trascorsi storici col fascismo e il comunismo, si dà maggiore importanza alla reputazione dell'individuo e si vede la soppressione dei discorsi di odio come un modo di promuovere la democrazia, dando la precedenza alle conseguenze sociali del discorso.

Gli americani conoscono bene la sezione 320 del Communication Decency Act, la quale stabilisce: “No provider or user of an interactive computer service shall be treated as the publisher or speaker of any information provided by another information content provider”, cioè se il materiale che io pubblico è fornito da terzi in nessun caso io ne sono responsabile, nemmeno se ne faccio un leggero editing, quindi per un americano è semplicemente impensabile che io possa esserne responsabile anche se ne ho la consapevolezza. In Europa funziona diversamente, si guarda innanzitutto alla consapevolezza dello scritto, nel momento in cui sorge una sorta di responsabilità editoriale, cioè io mostro di aver letto e compreso lo scritto, ne divento responsabile.
S i tratta ovviamente di differenza di vedute che comporta immancabilmente delle incomprensioni tra le due sponde dell'Atlantico, quando si discute sulla regolamentazione di tali principi online e su quale dei due debba prevalere.

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