Partigiani stranieri, partigiani tedeschi: una Resistenza internazionale da raccontare
11 min letturadi Carlo Greppi
Lo storico partigiano
Dopo aver partecipato alla difesa di Roma e alla lotta contro i nazifascisti tra l'Umbria e le Marche, Roberto Battaglia a metà luglio del 1944 accettò di farsi paracadutare oltre la Linea Gotica e arrivò in Garfagnana. Il futuro storico della Resistenza, la famiglia in salvo nella capitale liberata, aveva il compito di dirigere una formazione partigiana per conto del Partito d'azione di concerto con un maggiore inglese, Anthony John Oldham, detto semplicemente “Tony”.
Non era il primo straniero che Battaglia incrociava, nella sua vita in clandestinità. Ne aveva già incontrati parecchi, nei diversi mesi tra le bande: in particolare slavi in Umbria, disertori delle forze armate tedesche provenienti dall'Asia centrale – quelli che all'epoca chiamavano “mongoli”, o “russi turchestani” –, e soprattutto diversi altri militari alleati come Tony scappati dai campi di prigionia nelle settimane estive del 1943 e unitisi sovente alla lotta di liberazione. Come avrebbe specificato nella sua Storia della Resistenza italiana, però, nella nascitura divisione Lunense “si tocca[va] forse il caso limite” di internazionalismo: se il Comando era collegiale ed era tenuto da lui stesso e da “Tony”, la compagnia di guardia era composta “da turkestani, disertori dell'esercito tedesco, jugoslavi, cecoslovacchi, alcune staffette di collegamento con l'Emilia francesi”; “Decine, dunque, di lingue, d'usi e costumi diversi: eppure era così semplice 'vivere d'accordo', senza che si producesse mai il minimo incidente dovuto a motivi nazionali”. Questo coesistere era “del tutto naturale e logico”, come osservava già nel suo libro di memorie Un uomo un partigiano, pubblicato a guerra ancora in corso.
Battaglia fu il primo a porre la questione con forza, e se consideriamo che nei successivi decenni la dimensione internazionale della Resistenza italiana sarebbe stata largamente sottovalutata non possiamo non essere sopraffatti dallo stupore. Furono infatti oltre cinquanta le nazionalità che affollarono il partigianato, come hanno sottolineato i Wu Ming in un articolo che nel 2019 ha avuto il merito di proporre un accurato e aggiornato carotaggio di questo aspetto straordinario della lotta di liberazione. Il dato più commovente, a mio modo di vedere, sono le migliaia di disertori delle forze armate tedesche (citerò poco oltre una mia stima per quanto concerne il fronte italiano) che scelsero il passaggio al nemico, anche a causa della percezione sempre più chiara della guerra ai civili messa in campo dai nazifascisti. Perché, come avrebbe scritto sempre Battaglia – non senza una punta di commossa retorica – nella sua storia del movimento di liberazione, bisogna segnalare che il partigianato ebbe “la capacità di 'recuperare' e di strappare al nemico non solo le armi, ma gli uomini. Opera rischiosissima, che non sempre dette i frutti sperati, ma tuttavia costituì un'ulteriore e perentoria dimostrazione della validità internazionale della Resistenza: così forti, così imperiosi da far breccia persino nel compatto esercito tedesco”. Tutto questo permise di “'recuperare' alla causa dell'umanità non solo gli elementi inseriti in esso a forza”, avrebbe aggiunto rimettendo mano alla sua opera nei primi anni Sessanta (inserendo un nuovo paragrafo intitolato L'internazionalismo partigiano) e in un altro scritto coevo a questa rivisitazione (intitolato Partigiani tedeschi nelle file della Resistenza italiana), “ma anche gli stessi dominatori tedeschi, conseguendo così il punto più alto che possa conseguire un movimento di liberazione nazionale”. D’altra parte, come disse ai suoi uomini il savonese Achille Cabiati (“Michelangelo”), comandante del distaccamento Calcagno della Divisione Garibaldi “Gino Bevilacqua” e futuro pittore e scultore, “ogni uomo del nemico che passa a noi vale per due: uno di meno a loro e uno di più a noi”; per questa ragione “bisogna[va] avvicinare tutti, soldati della Monte Rosa, Brigate Nere, San Marco, perfino i tedeschi [...]. È vero che fra tanti ce ne possono essere di pericolosi, di increduli, di leggeroni e perfino di dichiarati avversari politici: questo è un rischio che dobbiamo correre, d’altra parte le loro scelte non sono state fatte spontaneamente”.
Il “tedesco buono”
Tra le vicende che Battaglia rievocò nei primi anni Sessanta, nelle sue pagine fondamentali dedicate all’internazionalismo partigiano, c'è quella di Rudolf Jacobs, oggi il più noto alla storiografia e nello spazio pubblico e “protagonista” del mio saggio Il buon tedesco. Ma nell'anno in cui uscì la prima edizione della sua storia della Resistenza, il 1953, non fece alcun riferimento né al tema in generale né tanto meno al caporalmaggiore della Kriegsmarineche si era unito a settembre del 1944 alla Brigata d'assalto garibaldina “Ugo Muccini” nel sarzanese. Considerato l’inserimento successivo della vicenda negli scritti dello storico, non ci sono dunque elementi che ci possono permettere di ipotizzare che i due si siano incontrati: anche nelle memorie di Battaglia del 1945 infatti, a differenza di quello che farà un quindicennio più tardi, non si parla di quest’uomo che, dopo essersi distinto in zona come “il tedesco buono” per via del suo comportamento umano con la popolazione civile e inflessibile con i fascisti, si diede alla macchia nei pressi dell'Aurelia con il suo misterioso commilitone austriaco (che tutti ricordano come “l’attendente”), trovò riparo tra i contadini del posto intensificando i contatti con il partigianato locale, si unì alla “Muccini” e morì in un eroico assalto all’albergo Laurina, divenuto una caserma fortificata delle Brigate nere sarzanesi, il 3 novembre del 1944. Questo significa che, amaro tiro della storia, è mancato un possibile momento di dialogo tra quello che sarebbe stato il più celebre storico della Resistenza italiana per decenni e quello che sarebbe rimasto a lungo il più celebre partigiano tedesco combattente.
Chissà cosa avrebbe scritto, Battaglia, di quell’assalto voluto e pianificato da Jacobs, nel quale guidava una pattuglia internazionale composta da uomini che “sembravano” tedeschi: con lui e “l’attendente” austriaco c’erano lo jugoslavo Boris Crnica, forse un suo connazionale e certamente un russo, probabilmente un polacco oltre a un numero di combattenti italiani che dovrebbe essere di cinque persone, tendenzialmente alte e bionde. Certo è che la sua memoria rimase vivida già nell’immediato, sul territorio. Quando il 29 novembre dello stesso anno circa 10.000 nazifascisti scatenarono il terrificante rastrellamento volto ad annientare innanzitutto la “Muccini”, uno dei distaccamenti della brigata, che per via del falcidiamento nemico avrebbe avuto una vita breve, si chiamava proprio “Rudolf Jacobs”: i partigiani italiani avevano reso subito omaggio al “tedesco buono” che aveva sostenuto le famiglie del posto e i partigiani locali anche prima di passare a lottare al loro fianco. Si tratta del distaccamento dei castelnovesi, i quali al Laurina avevano visto cadere un loro compaesano schierato dall’altra parte, il vicecomandante fascista della caserma Araldo Saccomani. E questa è l’ennesima dimostrazione, se ce ne fosse ancora bisogno, che per molti combattenti gli ideali per cui si dava battaglia al nemico sovrastavano già all’epoca, e di molto, l’origine geografica.
Una guerra ideologica internazionale
Molte testimonianze della lotta di liberazione, in primis quella di Battaglia, insistono su questo carattere internazionale della guerra partigiana, sulla sua capacità di superare l'origine territoriale quanto le differenze politiche, sociali, anagrafiche. Mentre i fascisti erano fondamentalmente, in effetti, tutti italiani, i partigiani avevano messo invece in campo un vero e proprio esercito internazionale, nel quale spiccava numericamente, com’è ovvio, la presenza dei locali – di norma, ma non sempre. Per offrire solo due esempi tra i tanti possibili: il battaglione “Freies Deutschland”, nella “Zona d’operazioni Litorale Adriatico”, inquadrava decine di tedeschi e austriaci; e una formazione partigiana delle Langhe, in Piemonte, era chiamata Islafran, perché in essa militavano italiani, slavi e francesi. Diverse migliaia tra i combattenti, tra cui proprio jugoslavi e i francesi, erano generalmente già presenti sul territorio italiano come prigionieri, internati nei tre anni della guerra fascista: erano giovani uomini catturati nel corso del conflitto che l’Italia fascista aveva combattuto su vari fronti tra il 1940 e il 1943, ma non c’erano solo loro. A fianco di britannici, americani, australiani, neozelandesi, albanesi, francesi, greci, jugoslavi, sovietici e via dicendo, troviamo infatti anche libici ed etiopi, eritrei e somali: persino chi era originario di questi territori martoriati dal colonialismo italiano contribuì, in Italia, alla lotta per liberare il paese dei suoi oppressori. La vicenda più nota, come quella di Jacobs per quanto riguarda i partigiani tedeschi, è quella di Giorgio Marincola, italo-somalo assassinato dopo aver condotto un’esistenza eroica il 4 maggio del 1945, quando praticamente tutta la penisola italiana era ormai liberata, salvo una parte dell’area nord-orientale.
La quarta guerra
Verrebbe dunque da giustapporre alle note “tre guerre” teorizzate da Claudio Pavone, e ormai acquisite dalla storiografia resistenziale italiana – la guerra civile, la guerra di liberazione, la guerra di classe – una quarta dimensione altrettanto cruciale, vale a dire quella di una guerra ideologica internazionale andata in scena su ogni fronte a diversa intensità, eppure ovunque presente, “che prescinde e si scontra con le questioni dell’identità nazionale e della nazione”, come hanno osservato Chiara Colombini ed Enrico Manera. Era un percorso di ricerca indicato oltre che dallo stesso Pavone, peraltro, già da Battaglia (oltre sessant’anni fa!) in Partigiani tedeschi nelle file della Resistenza italiana: proprio il caso dei disertori delle forze armate tedesche è quello che secondo lui “meglio dimostra come la storia della seconda guerra mondiale e della Resistenza non possa in alcun modo ridursi a un urto fra nazioni ché la linea di divisione fra i due campi opposti corre non solo all'esterno, ma all'interno degli Stati belligeranti”.
Considerando la decisa impennata dettata dal panico delle ultime settimane di guerra che rese anche difficile contarli, in Europa i disertori delle forze armate tedesche possono essere stimati nell'ordine delle centinaia di migliaia sui circa venti milioni di combattenti impegnati sui vari fronti. Furono oltre 22.000 le sentenze di morte per diserzione emanate, e almeno 15.000 vennero in effetti applicate come auspicava Hitler già nel Mein Kampf: se un uomo in guerra può morire, scriveva il futuro dittatore austriaco, il disertore deve. E infatti molti altri – chissà quanti – vennero giustiziati su due piedi.
Ma limitiamoci a osservare i dati certi: 15.000 esecuzioni. È una cifra impressionante, se comparata con i 48 giustiziati nella guerra precedente dal Reich tedesco e con i 40 messi a morte dalla Gran Bretagna e i 146 dagli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, e considerando le centinaia di migliaia di disertori che, scampata la pena capitale, vennero imprigionati o spediti in “battaglioni punitivi”. Se da un lato non bisogna dimenticare, come ha rivelato negli anni Novanta – innanzitutto in Germania e in Austria – la Wehrmachtsausstellung, la mostra itinerante sulla guerra di sterminio e sui crimini della Wehrmacht, che la guerra ai civili non era stata fatta solamente dalle unità più spietate e più ideologicamente vicine al nazismo, ma anche da molti soldati e ufficiali, né che tanti “uomini comuni" parteciparono senza farsi troppi scrupoli al massacro spesso prendendoci anche gusto, dall'altro la vicenda dei disertori è un elefante che si aggira in un silenzio spettrale tra le rovine della guerra dei Trent'anni del Novecento, la guerra civile europea 1914-1945. Le storie di chi remò controcorrente, di chi si mise di traverso cercando di arginare la tracimante marea nazionalista che aveva travolto (quasi) ogni cosa, in patria e oltre, hanno qualcosa di stupefacente. E se è vero che si tratta di un’esigua minoranza vista dal versante dei mobilitati, se si ribalta la prospettiva e si accostano le stime dei disertori che rivolgono le armi contro i connazionali ai numeri dei partigiani combattenti stiamo parlando, anche quantitativamente, di dimensioni di notevole rilevanza: per il caso italiano io ipotizzo che siano tra i due e i tremila i combattenti tedeschi e austriaci unitisi ai partigiani, non conteggiando peraltro le svariate migliaia di commilitoni di differenti nazionalità arruolati più o meno a forza dal Terzo Reich: soprattutto cecoslovacchi, polacchi e sovietici di varie provenienze. Un piccolo esercito, indubbiamente.
Questo tuttavia rimane, a oggi, un aspetto non indagato dalle grandi storie della Resistenza italiana, oltre che nella sua memoria pubblica e nella manualistica scolastica (per quel che può valere ho cercato di rimediare). Nonostante, oltre a Battaglia, lo stesso Pavone – come accennato – abbia dedicato alcune pagine mirabili al tema all'inizio degli anni Novanta, nel canone continuamente aggiornato che percorre oltre sette decenni non rimangono che alcuni accenni alle “grandi speranze internazionaliste della ribellione” (come scriveva Giorgio Bocca) o riferimenti sporadici, per quanto diffusi, a singoli episodi di collaborazione e convergenza tra diverse nazionalità, dai quali sono peraltro di norma espunti tedeschi e austriaci. Questa dimensione internazionale, lo si è visto, già all'epoca dei fatti era evidentemente percepita, da quadri illuminati a vari livelli e all'interno di quel prisma di esperienze del partigianato di base che a macchia di leopardo ha affollato tutta la penisola. Eppure, per molteplici ragioni e curiose convergenze, la partecipazione dei partigiani tedeschi alla Resistenza è stata per tre quarti di secolo una storia assente dalla memoria pubblica italiana: ogni percorso umano come quello di Jacobs, che non corrisponde allo stereotipo del “cattivo tedesco”, costringe infatti a una ridefinizione della percezione di quella storia che disturberebbe, è evidente, l’immagine speculare e contraria del “bravo italiano”.
Celebriamo la Resistenza transnazionale
Contrariamente alla deriva delle memoria pubblica, che ormai celebra senza remore la guerra dell’Asse, la tendenza più innovativa della storiografia italiana, che in contributi recenti è tornata con convinzione sul tema dei partigiani della Wehrmacht e più in generale dell’opposizione tedesca al nazionalsocialismo, è inscritta in una lettura di maggior respiro dei movimenti di Resistenza europei, che andrebbero letti all’interno di “una cronologia più ampia che includa anche la Guerra civile spagnola (1936-1939)”, come ha osservato su Domani Enrico Acciai, tra i massimi esperti dell’argomento in Italia. “Non ha mai preso veramente campo l’idea che i singoli movimenti di Resistenza facessero parte di un unico conflitto internazionale contro i fascismi combattuto in più nazioni”, rileva Acciai: è una carenza, quella di una lettura transnazionale di quegli anni, alla quale bisogna porre definitivamente rimedio. Anche perché di partigiani italiani su altri fronti se ne contano a decine di migliaia – in Albania, in Francia, in Grecia; circa 30.000 nella sola Jugoslavia, con una cospicua presenza in Montenegro –, e perché in Italia nacquero figure come quella di Ilio Barontini, che oltre ad aver combattuto in Spagna e in Francia, lo stesso fece in Etiopia, permettendoci di vedere persino oltre il perimetro eurocentrico della narrazione “tradizionale” di questa storia.
Tra le centinaia di reduci dalla guerra di Spagna che continuarono la lotta negli anni successivi ovunque si trovassero incrociamo, proprio sul fronte italiano e nella medesima zona in cui si batterono Battaglia e Jacobs, un altro partigiano tedesco. Il suo nome era Leonhard Wenger, e condivise la sua esperienza di diserzione e lotta nel Battaglione garibaldino “Gramsci” (poi “Maccione”) e con Erich Heinrich “Enrico” Rahe, nato nel 1925 a Bochum, che al telefono, a 96 anni, mi ha detto sconsolato: “Eravamo pochissimi”. La memoria, a volte, per le ragioni le più varie, si discosta dalla storia: non è vero, “Enrico”, eravate tanti, tenuto conto del contesto e considerata la scelta irreversibile che avete fatto. Eravate tantissimi, se guardiamo al significato morale della vostra scelta: eravate una nutrita minoranza della quale la parte emersa è minoritaria; spesso, il più delle volte anzi, è già tanto se abbiamo un nome e un cognome.
Era il 27 maggio 2021, quando ho parlato al telefono con “Enrico” Rahe e, a dimostrazione del fatto che ancora questa storia fatichiamo a vederla persino se ci stiamo lavorando, non ho avuto la prontezza di chiedergli ulteriori notizie su Wenger, di cui si parlava in un articolo in tedesco; l’ho citato nel mio lavoro ma – colpevolmente – nulla più. L’ha fatto poi, e per fortuna, lo storico Giorgio Pagano, tornato sul tema pochi mesi dopo, che ha interpellato di nuovo “Enrico”, il quale gli ha detto di essere stato addestrato dal connazionale divenuto compagno di lotta: “Ho conosciuto [Leonhard] Wenger ai monti, siamo stati insieme nel ‘Gramsci’. Aveva fatto la guerra di Spagna, poi fu arrestato in Francia, fuggì e venne in Italia a combattere con i partigiani. Nel gennaio 1945 cercò di passare il fronte sulle Apuane, una bomba che era a terra esplose, morì sul colpo”.
Che questo anniversario della Liberazione, allora, sia dedicato ai tanti partigiani internazionali morti per la libertà anche nostra di cui sappiamo molto – come Rudolf Jacobs, o come Giorgio Marincola – ma anche a quelli di cui sappiamo poco, come Leonhard Wenger, o come “l’attendente” austriaco di Jacobs. Come quelli che a centinaia o forse a migliaia vennero catturati e giustiziati senza tanti complimenti. Impiccati all'albero più vicino, fucilati sommariamente, o uccisi a bastonate dai loro ex commilitoni.
Immagine in anteprima: Partigiani dell’Islafran via Viaggio nel Monte Regale